Ordinanza di Cassazione Civile Sez. L Num. 7791 Anno 2025
Civile Ord. Sez. L Num. 7791 Anno 2025
Presidente: NOME COGNOME
Relatore: NOME COGNOME
Data pubblicazione: 24/03/2025
ORDINANZA
sul ricorso 25215-2023 proposto da:
NOMECOGNOME elettivamente domiciliato presso l’indirizzo PEC dell’avvocato NOME COGNOME che lo rappresenta e difende;
– ricorrente –
contro
RAGIONE_SOCIALE in persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, INDIRIZZO presso lo studio dell’avvocato NOME COGNOME che la rappresenta e difende unitamente all’avvocato NOME COGNOME;
– controricorrente –
avverso la sentenza n. 151/2023 della CORTE D’APPELLO di TRIESTE, depositata il 16/10/2023 R.G.N. 25/2022;
udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 29/01/2025 dal Consigliere Dott. COGNOME
Oggetto
Licenziamento ex lege n. 92 del 2012
R.G.N. 25215/2023
COGNOME
Rep.
Ud. 29/01/2025
CC
RILEVATO CHE
Con lettera del 25.8.2020 la RAGIONE_SOCIALE contestava al dipendente NOME COGNOME -assunto nel 2010 ed assegnato al compito di presidiare l’area pubblica di INDIRIZZO a Trieste e del relativo giardino, con il dovere di adoperarsi anche nel mantenere la piazza pulita, attraverso la raccolta di piccoli rifiuti, in virtù di un accordo con il Comune di Trieste che aveva commissionato alla società il servizio di pulizia del predetto giardino- di essersi trattenuto in orario di servizio (07,00/13,20) presso due diversi bar della piazza per circa un’ora e mezza, consumando bevande e leggendo il giornale e di avere adottato, nella medesima occasione, nei confronti del superiore gerarchico che l’aveva invitato a riprendere servizio, un tono di voce e delle espressioni non consone; nella stessa lettera di contestazione, ‘ai fini dell’eventuale recidiva’, erano anche richiamati tre episodi sanzionati disciplinarmente dall’azienda accaduti negli anni antecedenti.
Il 29 ottobre 2020 veniva intimato al lavoratore licenziamento per giusta causa.
Impugnato il recesso, il Tribunale di Trieste, sia in fase sommaria che in sede di opposizione ex lege n. 92/2012, rigettava le domande del COGNOME.
La Corte di appello di Trieste, con la sentenza n. 151/2023, confermava la pronuncia di primo grado rilevando che: a) i fatti contestati dovevano ritenersi non smentiti ed anzi processualmente acclarati; b) gli stessi erano da considerarsi gravi e non puniti dalla contrattazione collettiva (CCNL Servizi RAGIONE_SOCIALE Utilitalia) con sanzioni conservative; c) la recidiva, in quanto istituto legale, era operante indipendentemente dal richiamo della contrattazione collettiva; d) i precedenti richiamati, sebbene non valevoli ai fini della recidiva cd. tecnica, comunque rilevavano ai fini della gravità e del giustificato motivo soggettivo ex art. 2119 cc; e) la contrattazione collettiva, nel caso in esame, tipizzava le condotte punite con il licenziamento con preavviso solo a titolo esemplificativo; f) il recesso non risultava caratterizzato da ritorsività; g) non vi era alcun vizio
procedimentale riguardante il diritto di difesa del lavoratore per non essere state messe a disposizione le segnalazioni del Comune di Trieste, in quanto non vi era alcun obbligo di offrire in consultazione all’incolpato i documenti aziendali ed era rimast o indimostrato che l’esame degli stessi fosse indispensabile ai fini di consentire una adeguata difesa.
Avverso la sentenza di secondo grado NOME COGNOME proponeva ricorso per cassazione affidato a cinque motivi cui resisteva con controricorso la intimata.
Le parti depositavano memorie.
Il Collegio si riservava il deposito dell’ordinanza nei termini di legge ex art. 380 bis 1 cpc.
CONSIDERATO CHE
I motivi possono essere così sintetizzati.
Con il primo motivo si eccepisce la nullità radicale della sentenza ex art. 161 cpc, per violazione degli artt. 1 co. 57 legge n. 92 del 2012, 132, 133 e 121 cpc e 196 quater e quinquies disp. att. cpc, in relazione all’art. 360 co. 1 n. 4 cpc, per essere stata la sentenza gravata decisa e depositata il 16.10.2023 (unica data valida perché attestata dal Cancelliere) anziché entro 10 giorni dall’udienza di discussione, cioè entro il 5.6.2023, nonché per essere stata sottoscritta dal Presidente del Collegio dopo il suo collocamento in quiescenza avvenuto l’1.8.2023 e per non essere stato il deposito effettuato in modalità telematica nonostante si trattasse di provvedimento emesso successivamente al 1° marzo 2023.
Il motivo è infondato.
In ordine alla problematica relativa alla data di decisione, deve rilevarsi che essa è avvenuta, come si evince dall’ultima pagina della gravata pronuncia, in data 26.5.2023 dopo che la causa era stata riservata in decisione all’esito dell’udienza del 25.5.2023. Il provvedimento è stato, poi, depositato, previa sottoscrizione del Presidente e del Consigliere estensore, il 16.10.2023, come risulta dalla certificazione della cancelleria.
Orbene, va evidenziato, da un lato, che la attestazione della data di delibazione, contenuta nel provvedimento, fa fede fino a querela di falso e, dall’altro, che il deposito della sentenza, oltre i dieci giorni dall’udienza di discussione, giusta quanto disposto dall’art. 1 co. 57 legge n. 92 del 2012, non è sanzionato a pena di nullità per la natura ordinatoria, con funzione acceleratoria, del termine previsto.
Analogamente, alcuna sanzione di nullità era prevista per il mancato deposito telematico della sentenza ai sensi dell’art. 196 quinquies disp. att. cpc, ratione temporis vigente.
Con riferimento, infine, alla doglianza che il provvedimento impugnato era stato sottoscritto allorquando il Presidente del Collegio era stato già posto in quiescenza, va ricordato l’orientamento di legittimità (Cass. n. 12324/2001) secondo cui il momento della pronuncia della sentenza – momento nel quale il magistrato deve essere legittimamente preposto all’ufficio per potere adottare un provvedimento giuridicamente esistente – va identificato con quello della deliberazione della decisione, mentre le successive fasi dell’ “iter” formativo dell’atto, e cioè la stesura della motivazione, la sua sottoscrizione e la conseguente pubblicazione, non incidono sulla sostanza della pronuncia, sicché, ai fini dell’esistenza, validità ed efficacia di quest’ultima, è irrilevante che, dopo la decisione, il giudice singolo, o uno dei componenti di un organo collegiale, per circostanze sopravvenute, come il trasferimento, il collocamento fuori ruolo o a riposo, sia cessato dalle funzioni presso l’ufficio investito della controversia.
Con il secondo motivo si censura la falsa applicazione degli artt. 2119, 2106 cc e 3 legge n. 604/1966, la violazione degli artt. 12 disp. att. sulla legge in generale, 1372, 1362, 1365, 1367 cc, 30 co. 3 legge n. 183/2010, 12 legge 604/1966 e 68 co. 2 del CCNL Servizi Ambientali Utilitalia, in relazione all’art. 360 co. 1 n. 3 cpc, per errata interpretazione delle previsioni contrattuali collettive e del giudizio di sussunzione in quanto, relativamente ai precedenti disciplinari richiamati nella contestazione, solo per due erano state applicate le
sanzioni in modo definitivo e, quindi, non si rientrava nella fattispecie di cui all’art. 68 co. 2 del CCNL suddetto.
Con il terzo motivo si obietta la violazione dell’art. 2106 cc e 68 co. 1 CCNL Servizi Ambientali Utilitalia, ai sensi dell’art. 360 co. 1 n. 3 cpc, per non avere la Corte territoriale rilevato la sproporzione della sanzione irrogata, in relazione alla limitata sospensione della prestazione lavorativa avvenuta per trenta minuti, a fronte di un orario settimanale di 38 ore e per un corrispondente importo, pari all’assenza, quantificabile in euro 6,21.
Con il quarto motivo si lamenta la falsa/erronea applicazione degli artt. 2119 e 2106 cc e 7 u.c. legge n. 300 del 1970, per violazione degli artt. 1372, 1362, 1367 cc, 12 legge n. 604/1966, del principio del favor lavoratoris , art. 68 CCNL Servizi Ambientali Utilitalia, 12 disp. att. sulla legge in generale, ai sensi dell’art. 360 co. 1 n. 3 cpc, per avere erroneamente la Corte territoriale attribuito alla recidiva, indicata nella contestazione disciplinare, una valenza non ‘tecnica’ bensì rilevante ai fi ni della valutazione di gravità dei fatti e per non avere considerato che occorreva avere conto delle sole sanzioni irrogate nel biennio precedente e non anche di quelle irrogate oltre tale limite.
Con il quinto motivo si deduce la violazione dell’art. 100 cpc, in relazione all’art. 360 co. 1 n. 4 cpc, per avere la Corte distrettuale erroneamente ritenuto rilevante la mancata impugnazione delle due sanzioni conservative irrogate non avendo avuto esso lavoratore alcun interesse ad impugnarle una volta superato il biennio della loro applicazione.
I suddetti motivi, da esaminare congiuntamente perché interferenti tra loro, non sono fondati.
La Corte territoriale si è, infatti, attenuta ai consolidati principi statuiti in sede di legittimità secondo cui, in tema di licenziamento per giusta causa e per giustificato motivo soggettivo, non è vincolante la tipizzazione contenuta nella contrattazione collettiva, rientrando il giudizio di gravità e proporzionalità della condotta nella attività sussuntiva e valutativa del giudice, avuto
riguardo agli elementi concreti, di natura oggettiva e soggettiva, della fattispecie, ma la scala valoriale formulata dalle parti sociali costituisce uno dei parametri cui occorre fare riferimento per riempire di contenuto la clausola generale di cui all’art. 2119 cod. civ. (Cass. n. 17321/2020; Cass n. 3283/2020; Cass. n. 13865/2019), mentre è vincolante la previsione della contrattazione collettiva se, invece, per il fatto addebitato sia prevista, in modo tipizzato ovvero desunta attraverso l’interpretazi one di una clausola elastica e generale, l’applicazione di una sanzione conservativa (Cass. n. 8718/2017; Cass. n. 9223/2015; Cass. n. 11665/2022), a meno che il giudice non accerti che le parti non avevano inteso escludere, per i casi di maggiore gravità, la possibilità della sanzione espulsiva (Cass. n. 8621/2020; Cass. n. 9223/2015) ovvero quando siano presenti elementi aggiuntivi, estranei o aggravanti rispetto alla previsione contrattuale (Cass. n. 36427/2023).
14. Nella fattispecie, la Corte distrettuale, con un condivisibile procedimento di sussunzione, ha escluso che i fatti addebitati (ed accertati) rientrassero nell’ambito applicativo dell’art. 68 del CCNL Servizi RAGIONE_SOCIALE lì dove punisce con sanzioni conservative l’inosservanza da parte del dipendente delle norme del CCNL prevedendo, invece, la sanzione espulsiva solo nelle ipotesi tipizzate dal comma 1 lett. e) dell’art. 68 (triplice sospensione nel biennio, per la stessa mancanza o per mancanze analoghe, per un totale di venti giorni o quadruplice sospensione per un totale di almeno 35 giorni per mancanze anche non rappresentanti inosservanza dei doveri fondamentali di cui all’art. 66), ravvisando, di contro, proprio per la complessità degli addebiti mossi (mancata prestazione, da parte dell’incolpato, dell’attività lavorativa, senza giustificazione, trascorrendo nel bar il tempo (circa un’ora e mezza) che avrebbe dovuto dedicare al lavoro, consumando bevande e leggendo il giornale e rivolgendo, peraltro, con un tono di voce ed espressioni non consone, al superiore gerarchico che l’aveva invitato a riprendere il servizio), una ipotesi di giusta causa ex art. 2119 cc, così come aveva già considerato il Tribunale, il tutto in un contesto in
cui gli altri tre episodi richiamati nella contestazione disciplinare, oggetto di sanzioni disciplinari non definitive, non erano stati menzionati per una contestazione tecnica della recidiva, ma quali ulteriori elementi per ritenere non consentita la prosecuzione anche provvisoria del rapporto di lavoro stante, in sostanza, l’abitualità del lavoratore a non osservare i propri obblighi contrattuali, in una evidente ottica di proporzionalità della sanzione irrogata.
15. Va ribadito, al riguardo, il fondamentale principio affermato in sede di legittimità (per tutte, Cass. n. 5095/2011; Cass. n. 6498/2012) secondo cui la giusta causa di licenziamento, quale fatto “che non consenta la prosecuzione, anche provvisoria, del rapporto”, è una nozione che la legge – allo scopo di un adeguamento delle norme alla realtà da disciplinare, articolata e mutevole nel tempo – configura con una disposizione (ascrivibile alla tipologia delle cosiddette clausole generali) di limitato contenuto, delineante un modulo generico che richiede di essere specificato in sede interpretativa, mediante la valorizzazione sia di fattori esterni relativi alla coscienza generale, sia di principi che la stessa disposizione tacitamente richiama. Tali specificazioni del parametro normativo hanno natura giuridica e la loro disapplicazione è quindi deducibile in sede di legittimità come violazione di legge, mentre l’accertamento della concreta ricorrenza, nel fatto dedotto in giudizio, degli elementi che integrano il parametro normativo e le sue specificazioni, e della loro concreta attitudine a costituire giusta causa di licenziamento, si pone sul diverso piano del giudizio di fatto, demandato al giudice di merito e sindacabile in cassazione a condizione che la contestazione non si limiti ad una censura generica e meramente contrappositiva, ma contenga, invece, una specifica denuncia di incoerenza rispetto agli “standards”, conformi ai valori dell’ordinamento, esistenti nella realtà sociale.
Nella fattispecie, i giudici di seconde cure hanno appunto precisato che non era assolutamente possibile per il COGNOME astenersi dal proprio posto di lavoro per un tempo non indifferente, senza dare
giustificazione, costituendo ciò un grave, rilevante e notevole inadempimento dei propri obblighi.
Le altre censure attengono poi ad accertamenti di merito, svolti dalla Corte territoriale con adeguata motivazione e, in quanto tali, non sindacabili in sede di legittimità.
Alla stregua di quanto esposto, il ricorso deve essere rigettato.
Al rigetto segue la condanna del ricorrente al pagamento delle spese del presente giudizio di legittimità che si liquidano come da dispositivo.
Ai sensi dell’art. 13, comma 1 quater, del DPR n. 115/02, nel testo risultante dalla legge 24.12.2012 n. 228, deve provvedersi, ricorrendone i presupposti processuali, sempre come da dispositivo.
PQM
La Corte rigetta il ricorso. Condanna il ricorrente al pagamento, in favore della controricorrente, delle spese del presente giudizio che liquida in euro 4.500,00 per compensi, oltre alle spese forfettarie nella misura del 15 per cento, agli esborsi liquidati in euro 200,00 ed agli accessori di legge. Ai sensi dell’art. 13, comma 1 quater, del DPR n. 115/02 dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello previsto per il ricorso, a norma del comma 1 bis dello stesso art. 13, se dovuto.
Così deciso in Roma, nella camera di consiglio del 29 gennaio 2025