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Licenziamento giusta causa per assenza e insubordinazione

La Corte di Cassazione conferma il licenziamento per giusta causa di un dipendente che, durante l’orario di lavoro, si era trattenuto per un’ora e mezza in due bar e aveva risposto in modo inappropriato a un superiore. La Corte ha ritenuto che la condotta complessiva, valutata anche alla luce di precedenti disciplinari, costituisse una violazione talmente grave del vincolo fiduciario da giustificare la massima sanzione espulsiva, a prescindere dalle specifiche previsioni della contrattazione collettiva.

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Pubblicato il 20 settembre 2025 in Diritto del Lavoro, Giurisprudenza Civile, Procedura Civile

Licenziamento per Giusta Causa: Quando la Pausa al Bar Costa il Posto

Il licenziamento per giusta causa rappresenta la più grave sanzione disciplinare nel rapporto di lavoro, intervenendo quando un comportamento del dipendente lede in modo irreparabile il vincolo di fiducia con il datore. Una recente ordinanza della Corte di Cassazione analizza un caso emblematico, confermando il licenziamento di un lavoratore per essersi assentato dal servizio per un’ora e mezza, trascorsa in due bar, e per aver tenuto un comportamento non consono verso un superiore. Approfondiamo i fatti e le ragioni della decisione.

I Fatti: Oltre la Semplice Pausa Caffè

Un dipendente di una società di servizi ambientali, con il compito di presidiare e mantenere la pulizia di una piazza pubblica, veniva contestato dall’azienda per essersi trattenuto, durante l’orario di servizio, per circa un’ora e mezza presso due diversi bar. Durante questo tempo, consumava bevande e leggeva il giornale. Inoltre, quando il suo superiore gerarchico lo invitava a riprendere servizio, il lavoratore rispondeva con un tono di voce e con espressioni non consone.

Nella lettera di contestazione, l’azienda richiamava anche tre precedenti episodi sanzionatori, avvenuti negli anni precedenti, ai fini di una valutazione complessiva della condotta del dipendente. A seguito di tali fatti, il lavoratore veniva licenziato per giusta causa.

Il Percorso Giudiziario e l’Impugnazione

Il lavoratore impugnava il licenziamento, ma sia il Tribunale che la Corte d’Appello respingevano le sue domande, confermando la legittimità del recesso. Il caso giungeva così in Cassazione, dove il dipendente sollevava diversi motivi di ricorso, tra cui:

* La nullità della sentenza d’appello per vizi procedurali (deposito tardivo e sottoscrizione da parte di un giudice nel frattempo collocato in quiescenza).
* L’errata applicazione della legge e del contratto collettivo (CCNL), sostenendo che i fatti non fossero così gravi da meritare il licenziamento.
* La sproporzione della sanzione rispetto all’effettiva infrazione.
* L’erronea valutazione della recidiva, poiché i precedenti disciplinari erano risalenti nel tempo.

Le motivazioni della Cassazione sul licenziamento per giusta causa

La Corte di Cassazione ha rigettato tutti i motivi di ricorso, confermando la decisione dei giudici di merito. Innanzitutto, ha escluso i vizi procedurali, chiarendo che i termini per il deposito delle sentenze non sono perentori e che il momento giuridicamente rilevante è la deliberazione della decisione, non la sua successiva sottoscrizione.

Nel merito, la Corte ha ribadito un principio fondamentale in materia di licenziamento per giusta causa: la valutazione della gravità della condotta del lavoratore rientra nel potere del giudice, che non è strettamente vincolato dalla tipizzazione delle infrazioni contenuta nei contratti collettivi. La scala di valori prevista dal CCNL è un parametro di riferimento, ma non impedisce al giudice di ritenere giustificato un licenziamento per un fatto non previsto o previsto con una sanzione conservativa, qualora la condotta sia talmente grave da ledere il vincolo fiduciario.

Nel caso specifico, i giudici hanno considerato non solo la prolungata assenza ingiustificata dal posto di lavoro, ma la complessità degli addebiti: la mancata prestazione, l’insubordinazione verso il superiore e, non da ultimo, i precedenti disciplinari. Questi ultimi, sebbene non utilizzabili per una contestazione di ‘recidiva tecnica’ ai sensi del CCNL, sono stati ritenuti rilevanti per delineare un quadro di abitualità del lavoratore nel non osservare i propri obblighi contrattuali. L’insieme di questi elementi è stato giudicato sufficiente a integrare una giusta causa di licenziamento, poiché dimostrava una totale inaffidabilità del dipendente e la rottura irreparabile del rapporto di fiducia.

Le Conclusioni: La Valutazione Complessiva della Condotta

La decisione in esame rafforza il principio secondo cui, ai fini della legittimità di un licenziamento per giusta causa, ciò che conta è la valutazione complessiva del comportamento del lavoratore nel contesto specifico del rapporto di lavoro. Una singola mancanza, se inserita in un quadro di generale inaffidabilità e arricchita da elementi come l’insubordinazione e precedenti specifici, può assumere una gravità tale da non consentire la prosecuzione, neanche provvisoria, del rapporto. Il giudice ha il compito di ‘riempire di contenuto’ la clausola generale di giusta causa, valorizzando tutti gli elementi oggettivi e soggettivi della fattispecie per decidere se il legame di fiducia sia stato irrimediabilmente compromesso.

Un licenziamento per giusta causa è valido anche se la condotta non è specificamente prevista come tale dal contratto collettivo?
Sì. La Corte di Cassazione ha stabilito che la valutazione della gravità dei fatti spetta al giudice. La contrattazione collettiva è un parametro, ma non vincola il giudice se la condotta del lavoratore, nel suo complesso, è talmente grave da ledere irreparabilmente il vincolo di fiducia.

I precedenti disciplinari di un lavoratore possono essere considerati per un licenziamento per giusta causa anche se sono passati più di due anni?
Sì. Anche se non possono essere usati per contestare una ‘recidiva tecnica’ secondo le norme del contratto collettivo, i precedenti disciplinari possono essere valutati dal giudice come elementi per giudicare la gravità complessiva della condotta e l’abitualità del lavoratore nel non rispettare gli obblighi contrattuali, contribuendo a giustificare il licenziamento.

Un ritardo nel deposito della sentenza o la sua firma da parte di un giudice andato in pensione la rendono nulla?
No. La Corte ha chiarito che il termine per il deposito della sentenza ha natura ordinatoria e non perentoria, quindi il suo mancato rispetto non causa nullità. Inoltre, il momento rilevante per la validità della pronuncia è la deliberazione della decisione; se a quella data il giudice era in servizio, la sentenza è valida anche se firmata successivamente.

La selezione delle sentenze e la raccolta delle massime di giurisprudenza è a cura di Carmine Paul Alexander TEDESCO, Avvocato a Milano, Pesaro e Benevento.

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