Ordinanza di Cassazione Civile Sez. L Num. 9751 Anno 2025
Civile Ord. Sez. L Num. 9751 Anno 2025
Presidente: COGNOME
Relatore: NOME COGNOME
Data pubblicazione: 14/04/2025
ORDINANZA
sul ricorso 729-2023 proposto da:
RAGIONE_SOCIALE in persona del legale rappresentante pro tempore, domiciliata in ROMA INDIRIZZO presso RAGIONE_SOCIALE, rappresentata e difesa dagli avvocati NOME COGNOME, NOME COGNOME;
– ricorrente –
contro
COGNOME, domiciliato in ROMA INDIRIZZO presso LA CANCELLERIA DELLA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE, rappresentato e difeso dall’avvocato COGNOME;
– controricorrente –
avverso la sentenza n. 3865/2022 della CORTE D’APPELLO di NAPOLI, depositata il 26/10/2022 R.G.N. 3287/2021; udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del
18/12/2024 dal Consigliere Dott. NOME COGNOME
Oggetto
R.G.N. 729/2023
COGNOME
Rep.
Ud. 18/12/2024
CC
RILEVATO CHE
la Corte d’Appello di Napoli, con sentenza n. 3865/2022 ha riformato la sentenza del Tribunale di Nola n. 2028/2021 annullando il licenziamento irrogato a COGNOME Salvatore il 13.3.19 e condannando RAGIONE_SOCIALE alla reintegra del Fontana nel posto di lavoro ed al pagamento di una indennità risarcitoria commisurata all’ultima retri buzione di riferimento per il calcolo del trattamento di fine rapporto.
A COGNOME (responsabile informatico di una azienda proprietaria del brand RAGIONE_SOCIALE) è stato contestato disciplinarmente di aver preso, senza alcuna autorizzazione, un peluche a forma di koala gigante di marca “RAGIONE_SOCIALE“, che si trovava presso l’azienda perché utilizzato per una campagna pubblicitaria, dalla sala regia della sede di Nola (che era anche la sala dove lavorava come informatico aziendale v. sentenza pag. 2) e di averlo trasportato dapprima all’ufficio stile e poi al magazzino, dove è stato ritrovato in una scatola con la dicitura IT (che si riferiva proprio all’ufficio del Fontana).
Nel corso del giudizio di primo grado era stata, tra l’altro, valorizzata la circostanza, riferita da alcuni colleghi del lavoratore, che il COGNOME, nei giorni precedenti, avesse manifestato l’intenzione di portare il peluche fuori dai locali aziendali.
La Corte d’Appello, nel riformare la sentenza di primo grado (che aveva ritenuto che l’avere riposto il bene in altro luogo nell’azienda allo scopo di rubarlo integrasse giusta causa di licenziamento), ha evidenziato come la lettera di contestazione, pur descrivendo una serie di fatti, mentre risultava molto chiara nel descrivere la condotta del lavoratore che aveva spostato il peluche senza aver ricevuto un ordine di servizio che lo autorizzasse a farlo, solo velatamente imputava lo spostamento all’inte nzione furtiva, così compromettendo il
diritto di difesa del lavoratore in relazione a contestazioni chiare e specifiche. Rispetto a tale contestazione, la corte ritiene, di contrario avviso al giudice di primo grado, che le prove presentate da RAGIONE_SOCIALE Holding non fossero sufficienti a dimostrare l’intenzione di Fontana di rubare il peluche, non essendone stato dimostrato l’occultamento, né risultando dirimenti le prove testimoniali.
Per la cassazione della predetta sentenza propone ricorso RAGIONE_SOCIALE con cinque motivi, cui resiste con controricorso NOME COGNOME al termine della camera di consiglio, il Collegio si è riservato il deposito dell’ordinanza.
CONSIDERATO CHE
con il primo motivo di ricorso, proposto ai sensi dell’art. 360, comma 1, n. 3 c.p.c., la ricorrente lamenta la violazione e falsa applicazione dell’art. 7 L 300/70 nonché degli artt. 1324 e 1362 c.c. – omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti in relazione all’art. 360, comma 1, n. 5 c.p.c.
Deduce, segnatamente, che la Corte d’Appello avrebbe interpretato erroneamente la lettera di contestazione disciplinare, ritenendo che l’unico addebito fosse quello di aver spostato il peluche senza autorizzazione, mentre la società pur menzionando la mancanza di un ordine di servizio, accusava in realtà Fontana di aver premeditato il furto del peluche, e formulava tale contestazione con sufficiente chiarezza così da consentire al dipendente di difendersi. Ed infatti nella lettera si leggeva’…Lei stesso già nei giorni precedenti aveva preannunziato il fatto che il detto ‘Trudy’ sarebbe stato da Lei fatto pervenire, come avvenuto, nel detto magazzino per poi essere sempre da Lei portato via al di fuori dei locali aziendali’.
Avrebbe errato la corte non interpretando la lettera nel suo complesso, non considerando anche le frasi che indicavano la premeditazione del furto.
Ancora la Corte avrebbe erroneamente ignorato le giustificazioni fornite da COGNOME in risposta alla lettera di contestazione in cui questi avrebbe implicitamente ammesso la sua intenzione di portare via il peluche, pur negando di aver mai pensato di rubar lo avendo dichiarato ‘Mai il sottoscritto ha inteso asportare l’oggetto in questione al di fuori dei locali aziendali piuttosto, ha evitato che lo stesso giacesse impolverato nella sala regia riponendolo in un luogo più appropriato’ .
C on il secondo motivo di ricorso, proposto ai sensi dell’art. 360, comma 1, n. 3 c.p.c., la ricorrente lamenta la violazione e falsa applicazione degli artt. 2119, 2104 e 2105 c.c. nonché dell’art. 3 della L. 604/66 .
Avrebbe errato la Corte d’Appello nel ritenere il licenziamento illegittimo, poiché anche solo l’intenzione di Fontana di sottrarre il peluche, che si desumeva dalle prove testimoniali e dai file audio registrati dal lavoratore NOME COGNOME (che aveva telefonato al lavoratore per dimostrare la propria estraneità ricordandogli che aveva cercato di dissuaderlo e che era stato a sua volta licenziato) costituiva una giusta causa per il licenziamento.
In particolare, la ricorrente riporta i testi dei file audio delle conversazioni tra COGNOME e COGNOME, che proverebbero l’intenzione di COGNOME di sottrarre il bene, nonché le testimonianze di COGNOME e COGNOME, che confermerebbero la ricostruzione dei fatti operata nella contestazione, circa l’asportazione del bene con spostamento da una parte all’altra dell’azienda con finalità di sottrazione.
La Corte d’Appello avrebbe errato nello sminuire il valore probatorio di questi elementi, concentrandosi solo sulla mancata
dimostrazione di un furto consumato ed in presenza di prove da cui emergeva l’intenzione di commettere un illecito .
Con il terzo motivo di ricorso, proposto ai sensi dell’art. 360, comma 1, n. 3 c.p.c., la ricorrente lamenta la violazione e falsa applicazione dell’art 2735 c.c. contestando la decisione della Corte d’Appello che, violando la norma in esame, non aveva attribuito valore di confessione alle dichiarazioni di Fontana contenute nei file audio delle conversazioni telefoniche con NOME COGNOME. Ed infatti tali dichiarazioni, se correttamente interpretate alla luce del contesto, costituivano una chiara ammissione della sua intenzione di rubare il peluche, rendendo irrilevante ogni ulteriore prova a suo carico, poiché lo stesso ammetteva espressamente di aver “sbagliato”, così riconoscendo la propria colpevolezza; secondo la ricorrente la Corte d’Appello, attribuendo alle dichiarazioni di Fontana un significato diverso da quello letterale, avrebbe violato l’art. 2735 c.c., che stabilisce che la confessione fa piena prova contro colui che l’ha resa.
Con il quarto motivo di ricorso, proposto ai sensi dell’art. 360, comma 1, n. 3 c.p.c., la ricorrente lamenta la violazione e falsa applicazione dell’art. 2697 c.c. nonché dell’art. 3, II comma D.Lgs. 23/2015, in cui sarebbe incorsa la Corte di appello attribuendo l’onere della prova interamente a carico del datore di lavoro, nonostante questi avesse fornito la prova dell’intenzione di Fontana di portare via il peluche (tramite le dichiarazioni di De Maio, i file audio delle conversazioni e le testimonianze di COGNOME e COGNOME). A fronte di tale quadro probatorio, secondo la ricorrente, la corte avrebbe dovuto richiedere al Fontana di provare che il suo comportamento fosse giustificato da una ragione diversa dalla volontà di appropriarsi del bene, ad esempio un ordine di servizio o una prassi aziendale (prova nel caso di specie non fornita). Per tal via la Corte
d’Appello avrebbe errato non applicando l’art. 3, comma II, D.Lgs. 23/2015, che stabilisce che il giudice, nella valutazione delle prove, deve tenere conto di tutte le circostanze del caso, comprese quelle allegate dal lavoratore a sua discolpa, non consid erando l’assenza di qualsiasi giustificazione da parte di Fontana per il suo comportamento.
Con il quinto motivo di ricorso, proposto ai sensi dell’art. 360, comma 1, n. 5 c.p.c., la ricorrente lamenta l’omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio oggetto di discussione tra le parti, ossia la premeditazione dell’intento delittuoso del COGNOME Salvatore.
In particolare, la ricorrente deduce che la corte avrebbe omesso di considerare come, da un insieme di elementi valorizzati nel corso del giudizio (la lettera di giustificazioni rese dal COGNOME per scagionarsi, i file audio prodotti da questi) emergeva chiaramente la premeditazione della condotta ampiamente dibattuta nel corso del giudizio di primo grado e ribadita negli atti difensivi di RAGIONE_SOCIALE
La premeditazione, se accertata, avrebbe costituito un elemento aggravante tale da giustificare il licenziamento in tronco, in quanto avrebbe dimostrato la volontà di Fontana di agire in modo fraudolento e di violare consapevolmente gli obblighi contrattuali.
9. Il ricorso è infondato.
La ricorrente, pur deducendo vizi di violazione di legge e di motivazione, sostanzialmente finisce per contrapporre alle valutazioni svolte dalla corte di appello del quadro probatorio e dei fatti, una propria versione, sollecitando questa corte a valutazioni che nel giudizio di legittimità non sono consentite.
9.1. In particolare sono inammissibili il primo e il quinto motivo, con i quali la ricorrente deduce la violazione di legge nella interpretazione della contestazione disciplinare, e l’omesso
esame della premeditazione del furto in cui sarebbe incorsa la corte di appello ritenendo che l’unico addebito fosse quello di aver spostato il peluche senza autorizzazione, mentre la società, pur menzionando la mancanza di un ordine di servizio, accusava in realtà Fontana di aver premeditato il furto del peluche, con sufficiente chiarezza così da consentire al dipendente di difendersi.
Nei motivi esaminati, a ben vedere, pur allegando violazioni di legge e l’omissione di fatti decisivi, la ricorrente propone una diversa valutazione dei fatti processuali, segnatamente della lettura della contestazione, rispetto a quella fornita dalla Corte di appello che l’ha interpretata in maniera argomentata.
In particolare la corte, analizzando semanticamente la contestazione (cfr. pag 2 e 3 della sentenza) chiarisce come non risulti esplicitamente contestato il tentato furto ma lo spostamento, per poi rilevare che, in ogni caso, tutta la istruttoria aveva dimostrato tale spostamento senza tuttavia corroborare lo svolgimento di atti ‘orientati’ al furto in maniera inequivoca, e ritenendo dunque il fatto irrilevante sul piano disciplinare per non assumere la consistenza neppure di un tentativo.
Ciò induce a ritenere svuotato di significato anche il valore decisivo della invocata premeditazione, che secondo la ricorrente dovrebbe desumersi da una serie di fatti e dichiarazioni (principalmente del Di Maio) accuratamente esaminati dalla Corte di appello (avendo la stessa, come visto, escluso il fatto illecito e il tentativo). Appare piuttosto che, valorizzando la premeditazione, l’intenzione sia quella di sovvertire la valutazione dei fatti che la corte di merito ha ragionatamente fornito, contrapponendovi una diversa interpretazione degli stessi.
Peraltro, la censura formulata nel primo e nel quinto motivo in relazione all’art. 360 comma 1 n. 5 c.p.c., non appare rispettosa dei parametri elaborati dalla giurisprudenza di questa corte riguardo al fatto omesso con i quali è stato da tempo chiarito che, per essere ammissibile, una contestazione ex art. 360 comma 1 n. 5, che attiene all’omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio da parte del giudice di merito, deve rispettare i requisiti di specificità e decisività.
In particolare, la parte ricorrente deve indicare chiaramente il “fatto storico” il cui esame è stato omesso, descrivendolo con precisione e distinguendolo dagli altri fatti della causa.
Dimostrare che il fatto storico omesso risulta dal testo della sentenza o dagli atti processuali, fornendo precise indicazioni su dove reperire tale fatto all’interno degli atti. Spiegare in modo dettagliato come e quando il fatto storico omesso è stato oggetto di discussione tra le parti nel corso del giudizio, evidenziando le deduzioni, le richieste istruttorie e le argomentazioni presentate dalle parti in relazione a tale fatto. cioè dimostrare che se il giudice avesse esaminato il fatto omesso, l’esito della controversia sarebbe stato diverso con certezza e
Dimostrare la “decisività” del fatto storico omesso, non solo con un grado di mera probabilità.
Nel caso di specie, in particolare, la ricorrente si duole che la corte non abbia esaminato la lettera di giustificazioni del Di Maio, ove questi descrive come intento delittuoso la condotta dell’odierno ricorrente.
E, tuttavia, mentre dalla mera lettura della sentenza emerge come la posizione del Di Maio sia stata attentamente esaminata dalla Corte di appello, è importante sottolineare che l’omesso esame di un fatto decisivo non può essere dedotto quando il fatto storico rilevante in causa è stato comunque preso in considerazione dal giudice, anche se la sentenza non ha dato
conto di tutte le risultanze probatorie. Cass. SS.UU. n. 5792/2024 ha infatti evidenziato che, ‘se si ammettesse la ricorribilità per cassazione in caso di travisamento della prova, , rendendo pervio l’articolo 115 c.p.c. ben oltre il significato che ad esso è riconosciuto (cfr. Cass. SS.UU. n. 20867 del 2020), il giudizio di cassazione obbiettivamente scivolerebbe verso un terzo grado destinato a svolgersi non sulla decisione impugnata, ma sull’intero compendio delle «carte» processuali, sicché la latitudine del giudizio di legittimità neppure ripristinerebbe l’assetto ante riforma del 2012, ma lo espanderebbe assai di più’, assegnando ‘alla Corte di cassazione il potere di rifare daccapo il giudizio di merito’; il che è quanto sollecitato dalla censura in esame che, pertanto, va dichiarata inammissibile.
Del resto, il sindacato di legittimità sulla motivazione in fatto è stato ridotto al minimo costituzionale dalla riforma del 2012, per cui l’anomalia motivazionale denunciabile in Cassazione è solo quella che si traduce in una violazione di legge costituzionalmente rilevante e riguarda l’esistenza della motivazione in sé, come emerge dal testo della sentenza, senza necessità di confronto con le risultanze processuali.
Pertanto, per essere ammissibile, la contestazione non deve limitarsi a una mera critica della sentenza impugnata, ma deve dimostrare in modo puntuale e rigoroso l’omissione di un fatto storico decisivo da parte del giudice di merito, dimostrazione che nel caso di specie non si rileva.
9.2. Il secondo e il terzo motivo, che possono essere esaminati congiuntamente per ragioni di connessione, sono infondati.
Con essi la ricorrente si duole dell’erroneità della decisione della Corte d’Appello nel ritenere il licenziamento illegittimo, poiché anche solo l’intenzione del Fontana, provata dalle deposizioni e dai file audio registrati dal lavoratore COGNOME, sarebbe stata
sufficiente a giustificare la sanzione espulsiva ed erroneamente sarebbe stato escluso il valore confessorio di tali file audio.
Tuttavia, pur deducendo anche in questo caso una violazione di legge, il motivo appare contrapporre una diversa lettura dei fatti rispetto a quella fornita dalla corte che, come già evidenziato, ha analizzato le deposizioni, escludendo che la condotta configurasse il tentativo di furto.
Ha pure sottolineato la corte, esaminando la sentenza di primo grado come ‘Il Tribunale afferma che l’ascolto dei files audio ‘conferma quanto riferito dai testi della resistente’: tale affermazione non è per nulla chiara poiché i testi di resistente hanno riferito dei fatti , come è giusto che fosse, e non certo giudizi o opinioni ragione per cui non è dato evincere quale sia il tratto di collegamento tra testimonianze che narrano il percorso -mai negatodel ricorrente sino all’ufficio stile -magazzino e la allocazione di un bene in tale ultimo sito e la conversazione tra ricorrente e magazziniere’.
Quanto alla confessione, la corte, ha esaminato accuratamente le trascrizioni dei file audio ed escluso il loro valore confessorio, osservando come il valore ‘confessorio’ sia ‘assai dubbio, nella mancata consapevolezza della loro registrazione da parte del partecipante Fontana nonché di dubbia legittimità (perché se ammissibile la loro effettuazione ed utilizzo a fini giudiziali dal parimenti licenziato Di Maio, assai dubbia appare la loro utilizzabilità da parte del ‘terzo’ parte datoriale)’ .
Nel caso di specie si tratterebbe di dichiarazioni confessorie rese ad un terzo (appunto il Di Maio), e la decisione appare conforme alla giurisprudenza di questa corte che da tempo ha evidenziato come la confessione stragiudiziale fatta ad un terzo non ha valore di prova legale, come la confessione giudiziale o stragiudiziale fatta alla parte, e può, quindi, essere liberamente apprezzata dal giudice, a cui compete, con valutazione non
sindacabile in cassazione se adeguatamente motivata, stabilire la portata della dichiarazione rispetto al diritto fatto valere in giudizio. (Sez. L – , Ordinanza n. 11898 del 18/06/2020, Rv. 657978 – 01).
In ogni caso, poi, la corte ha evidenziato l’ambiguità delle conversazioni segnalando come nella prima conversazione, COGNOME sembra indurre Fontana a dire qualcosa, mentre quest’ultimo si limita a difendersi e ha chiarito come le frasi valorizzate dal giudice di primo grado potrebbero riferirsi tanto all’intenzione del ricorrente quanto alla ricostruzione del datore di lavoro, affrontando negli stessi termini anche la seconda conversazione, ove l’ammissione del Fontana di aver “sbagliato”, viene considerata non idonea e chiara, da sola, per giustificare il licenziamento (e, appare il caso di rilevare in questa sede, potrebbe riguardare anche la mera ammissione dell’errore nell’avere effettuato solo lo spostamento dell’oggetto) concludendo come il fatto, ‘rimasto nel foro interno del dipendente ….non può avere qualsivoglia portato disciplinare’.
9.3. Infondato infine il quarto motivo, relativo alla ripartizione degli oneri probatori, secondo la ricorrente erroneamente governata dalla corte poiché nonostante il datore di lavoro avesse fornito la prova dell’intenzione di COGNOME di portare via il peluche (tramite le dichiarazioni di COGNOME, i file audio delle conversazioni e le testimonianze di COGNOME e COGNOME), avrebbe dovuto richiedere al COGNOME la prova che il suo comportamento fosse giustificato da una ragione diversa dalla volontà di appropriarsi del bene
Il motivo con evidenza è inammissibile poiché, pur denunciando una erronea ripartizione dell’onere della prova, contrappone una propria interpretazione a quella fornita dalla corte nella valutazione delle prove.
Questa corte ha da tempo osservato come la violazione dell’art. 2697 c.c. è censurabile per cassazione ai sensi dell’art. 360, co. 1, n. 3 c.p.c., soltanto nell’ipotesi in cui il giudice abbia attribuito l’onere della prova ad una parte diversa da quella che ne fosse onerata secondo le regole di scomposizione delle fattispecie basate sulla differenza tra fatti costitutivi ed eccezioni e non invece laddove oggetto di censura sia la valutazione che il giudice abbia svolto delle prove proposte dalle parti (Cass. n. 15107 del 2013; Cass. n. 13395 del 2018), mentre nella specie parte ricorrente critica l’apprezzamento operato dai giudici del merito circa la valutazione dei fatti contestati opponendo una diversa valutazione e, dunque, contesta la valutazione della prova. Ma, come pure chiarito da questa corte, ogni censura relativa alla valutazione della prova non può avere ad oggetto l’erronea valutazione del materiale istruttorio compiuta dal giudice di merito, ma solo il fatto che questi abbia posto a base della decisione prove non dedotte dalle parti o disposte d’ufficio al di fuori dei limiti legali, ovvero abbia disatteso, valutandole secondo il suo prudente apprezzamento, delle prove legali, o abbia considerato come facenti piena prova, recependoli senza apprezzamento critico, elementi di prova soggetti invece a valutazione (cfr., fra le tante, Cass. nn. 1229 del 2019, 4699 e 26769 del 2018, 27000 del 2016, Cass. n. 24395 del 2020). Resta conseguentemente escluso che il vizio possa concretarsi nella censura di apprezzamenti di fatto difformi da quelli propugnati da una delle parti (Cass. n. 18665 del 2017) o, in più in generale, nella denuncia di un cattivo esercizio del potere di apprezzamento delle prove non legali, non essendo tale vizio inquadrabile né nel paradigma dell’art. 360 n. 5 c.p.c., né in quello del precedente n. 4, che, per il tramite dell’art. 132, n. 4, c.p.c., attribuisce rilievo unicamente all’anomalia motivazionale
che si tramuti in violazione di legge costituzionalmente rilevante (Cass. n. 11892 del 2016, Cass. n. 25192 del 2016).
Conclusivamente il ricorso deve essere rigettato.
Ai sensi dell’art. 13, comma 1 quater, del DPR n. 115/02, nel testo risultante dalla legge 24.12.2012 n. 228, deve provvedersi, ricorrendone i presupposti processuali, sempre come da dispositivo.
PQM
La Corte rigetta il ricorso.
Condanna la ricorrente al pagamento, in favore del controricorrente, delle spese del presente giudizio di legittimità che liquida in euro 5.000,00 per compensi, oltre alle spese forfettarie nella misura del 15 per cento, agli esborsi liquidati in euro 200,00 ed agli accessori di legge.
Ai sensi dell’art. 13, comma 1 quater, del DPR n. 115/02 dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello previsto per il ricorso, a norma del comma 1 bis dello stesso art. 13, se dovuto.
Così deciso in Roma nella camera di consiglio, il 18 dicembre 2024
La Presidente Dott.ssa NOME COGNOME