Ordinanza di Cassazione Civile Sez. L Num. 21961 Anno 2025
Civile Ord. Sez. L Num. 21961 Anno 2025
Presidente: COGNOME
Relatore: COGNOME
Data pubblicazione: 30/07/2025
ORDINANZA
sul ricorso 6525-2024 proposto da:
COGNOME NOME COGNOME rappresentato e difeso dall’avvocato COGNOME
– ricorrente –
contro
RAGIONE_SOCIALE in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentata e difesa dall’avvocato NOME COGNOME
– controricorrente –
avverso la sentenza n. 641/2023 della CORTE D’APPELLO di PALERMO, depositata il 05/09/2023 R.G.N. 47/2023; udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del
06/05/2025 dalla Consigliera NOME COGNOME
Oggetto
Licenziamento disciplinare
R.G.N.6525/2024
COGNOME
Rep.
Ud. 06/05/2025
CC
Fatti di causa
La Corte d’appello di Palermo ha respinto l’appello proposto da NOME COGNOME confermando la sentenza di primo grado che aveva rigettato l’impugnativa del licenziamento intimatogli dalla RAGIONE_SOCIALE Palermo s.c.p.a. con lettera del 24.8.2021.
La Corte d’appello ha premesso che il COGNOME, addetto alla custodia dei cantieri culturali della Zisa di Palermo, era stato sottoposto alla misura cautelare degli arresti domiciliari perché accusato di una pluralità di condotte finalizzate ad agevolare l’a ssenteismo sul lavoro; in particolare, erano stati accertati 156 episodi di utilizzo indebito, da parte del predetto, dei badge aziendali in dotazione a diversi dipendenti della società.
Avverso la sentenza NOME COGNOME ha proposto ricorso per cassazione affidato a tre motivi. La RAGIONE_SOCIALE ha resistito con controricorso.
Il Collegio si è riservato di depositare l’ordinanza nei successivi sessanta giorni, ai sensi dell’art. 380 bis.1 c.p.c., come modificato dal d.lgs. n. 149 del 2022.
Ragioni della decisione
Con il primo motivo di ricorso è dedotta, ai sensi dell’art. 360, comma 1, n. 3 e n. 5 c.p.c., violazione o falsa applicazione dell’art. 2119 c.c. nonché omesso esame su un fatto decisivo oggetto di discussione tra le parti per assenza di una giusta causa di licenziamento. Si assume che il datore di lavoro si è limitato a recepire acriticamente l’ordinanza applicativa della misura cautelare in assenza di fatti materiali idonei ad incrinare il rapporto fiduciario (nessuna rimostranza era stata mossa verso il dipendente prima della conoscenza della citata ordinanza di custodia cautelare) e senza attendere l’esito del processo penale.
Con il secondo motivo è dedotta, ai sensi dell’art. 360, comma 1, n. 3 e n. 5 c.p.c., violazione o falsa applicazione degli artt. 2106 e 2119 c.c. nonché omesso esame su un fatto decisivo oggetto di discussione tra le parti per mancanza di proporzionalità della sanzione espulsiva. Si sottolinea come la condotta del dipendente non aveva creato alcun disservizio alla società datoriale, che non ha mai lamentato una carente prestazione da parte del Magnis o dei suoi colleghi, e si evidenzia il modesto valore del vantaggio patrimoniale che il dipendente avrebbe conseguito (euro 40,62).
Con il terzo motivo è dedotta, ai sensi dell’art. 360, comma 1, n. 3 c.p.c., violazione o falsa applicazione dell’art. 2119 c.c. per licenziamento discriminatorio e disparità di trattamento rispetto alle sanzioni applicate ad altri dipendenti in relazione alla medesima condotta.
I primi due motivi di ricorso, da trattare congiuntamente, non possono essere accolti.
Anzitutto, devono giudicarsi inammissibili le censure formulate ai sensi dell’art. 360 n. 5 c.p.c. in ragione della disciplina cd. della doppia conforme, di cui all’art. 348 ter c.p.c. (ora art. 360, comma 4 c.p.c.).
Non è revisionabile in questa sede l’accertamento operato dai giudici di merito sulla sussistenza della condotta contestata, consistita nell’utilizzo illecito dei badge aziendali in oltre un centinaio di occasioni e al fine di agevolare l’abusiva assenza dal lavoro; neppure è dubitabile l’utilizzabilità da parte del giudice del lavoro delle prove atipiche (cfr. Cass., 2947 del 2023; n. 19521 del 2019) rappresentate nella specie, non solo dall’ordinanza di custodia cautelare ma, specialmente, dalle ‘risultan ze dei servizi di videosorveglianza predisposti dalla Guardia di finanza’ che ‘hanno consentito al G.L. di raggiungere
il corretto convincimento circa la fondatezza dell’azione disciplinare…’ (sentenza, p. 3, ultimo cpv.).
La Corte d’appello si è attenuta ai canoni giurisprudenziali attraverso cui sono state definite le nozioni legali di giusta causa (cfr. Cass. n. 18715 del 2016; n. 6901 del 2016; n. 21214 del 2009; n. 7838 del 2005) e di proporzionalità della misura espulsiva (cfr. Cass. 18715 del 2016; Cass. n. 21965 del 2007; Cass., n. 25743 del 2007) ed ha motivatamente valutato la gravità e il disvalore sociale della condotta addebitata al dipendente; in particolare, ha sottolineato la grave violazione del dovere fondamentale di fedeltà realizzata attraverso una ‘attività criminosa seriale’ e ‘l’apprezzabile pregiudizio economico procurato alla datrice di lavoroobbligata alla restituzione delle somme alla stessa corrisposte dal Comune di Palermo per le retribuzioni dei dipendenti infedeli’ (p. 4), quali elementi idonei a dimostrare l’esistenza della giusta causa e la proporzionalità della sanzione espulsiva. A fronte di tale supporto motivazionale, il ricorrente neppure identifica i parametri integrativi della giusta causa che sarebbero stati violati dai giudici di merito, ma si limita a ribadire, in modo del tutto generico, l’insussistenza di una giusta causa di recesso. Anche per questo profilo, la sentenza impugnata non risulta efficacemente censurata.
La censura oggetto del terzo motivo è inammissibile. La sentenza d’appello si è attenuta ai precedenti di legittimità secondo cui, ai fini della sussistenza della giusta causa o del giustificato motivo di licenziamento, qualora risulti accertato che l’inadempimento del lavoratore licenziato sia stato tale da compromettere irrimediabilmente il rapporto fiduciario, è di regola irrilevante che un’analoga inadempienza, commessa da altro dipendente, sia stata diversamente valutata dal datore di
lavoro; nondimeno, l’identità delle situazioni riscontrate può essere valorizzata dal giudice per verificare la proporzionalità della sanzione adottata, privando, così, il provvedimento espulsivo della sua base giustificativa (Cass. n. 10550 del 2013). Nella motivazione della sentenza è opportunamente evidenziato il numero esiguo di condotte addebitate ad altra collega rispetto al numero elevatissimo di violazioni poste in essere al Magnis, quale giustificazione logica del diverso metro sanzionatorio applicato nei confronti dei due dipendenti.
Le considerazioni svolte conducono al rigetto del ricorso.
La regolazione delle spese del giudizio di legittimità segue il criterio di soccombenza, con liquidazione come in dispositivo. Il rigetto del ricorso costituisce presupposto processuale per il raddoppio del contributo unificato, ai sensi dell’art. 13, comma 1 quater, del d.P.R. n. 115 del 2002 (cfr. Cass. S.U. n. 4315 del 2020).
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso. Condanna il ricorrente alla rifusione delle spese del giudizio di legittimità che liquida in euro 4.000,00 per compensi professionali, euro 200,00 per esborsi, oltre spese forfettarie nella misura del 15% e accessori come per legge.
Ai sensi dell’art. 13, co. 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento da parte del ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso a norma del comma 1 bis dello stesso art.13, se dovuto.
Così deciso nell’adunanza camerale del 6 maggio 2025