Ordinanza di Cassazione Civile Sez. L Num. 32147 Anno 2024
Civile Ord. Sez. L Num. 32147 Anno 2024
Presidente: COGNOME
Relatore: COGNOME NOME
Data pubblicazione: 12/12/2024
ORDINANZA
sul ricorso 80-2022 proposto da:
COGNOME, domiciliato in ROMA INDIRIZZO presso LA CANCELLERIA DELLA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE, rappresentato e difeso dall’avvocato NOME COGNOME
– ricorrente –
contro
RAGIONE_SOCIALE in persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, INDIRIZZO NOME COGNOME INDIRIZZO, presso lo studio legale RAGIONE_SOCIALE rappresentata e difesa dagli avvocati NOME COGNOME NOME COGNOME;
– controricorrente –
avverso la sentenza n. 142/2021 della CORTE D’APPELLO di CAMPOBASSO, depositata il 16/10/2021 R.G.N. 29/2021;
Oggetto
LICENZIAMENTO
DISCIPLINARE
R.G.N. 80/2022
COGNOME
Rep.
Ud. 26/11/2024
CC
udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 26/11/2024 dal Consigliere Dott. NOME COGNOME
RILEVATO CHE
Con la sentenza indicata in epigrafe, la Corte d’appello di Campobasso, confermando il provvedimento del giudice di primo grado, ha respinto la domanda proposta da NOME COGNOME nei confronti di RAGIONE_SOCIALE tesa alla declaratoria di illegittimità del licenziamento intimato il 12.4.2019 per avere, in occasione di un litigio, ‘gravemente offeso, minacciato e a lungo provocato il suo collega signor NOME COGNOME.
La Corte territoriale, ha rilevato che il quadro probatorio acquisito (dichiarazioni di alcuni dipendenti, confermate in sede di deposizione testimoniale) consentiva di verificare la ricorrenza di tutti i fatti oggetto di contestazione disciplinare: risultava, invero, accertato che -a seguito di osservazioni effettuate dal COGNOME al collega COGNOME che, in spregio ai divieti, fumava nell’area riservata alla timbratura del cartellino -era scoppiato un litigio tra i due nello spogliatoio dell’azienda, car atterizzato da offese reciproche e tentativo di venire alle mani, con atteggiamento aggressivo e offensivo, connotato da gravi minacce, da parte di ciascuno nei confronti dell’altro; la condotta era gravemente lesiva dei doveri del dipendenti nonché sussumibile tra i comportamenti sanzionati, dal CCNL applicato in azienda, con sanzione espulsiva (art. 67, n. 1, ‘gravi offese verso i compagni di lavoro’ e n. 10 ‘mancanze relative a doveri non specificatamente richiamati nel presente contratto, le quali siano così gravi da non consentire la prosecuzione nemmeno provvisoria del rapporto di lavoro’); la Corte territoriale rilevava, altresì, l’irrilevanza
dell’assunzione di ulteriori testimonianze, essendo stati chiaramente accertati i fatti.
Avverso tale sentenza il lavoratore ha proposto ricorso per cassazione, affidato a quattro motivi, illustrati da memoria. La società ha resistito con controricorso.
Al termine della camera di consiglio, il Collegio si è riservato il deposito dell’ordinanza nei successivi sessanta giorni.
CONSIDERATO CHE
Con il primo motivo di ricorso si denunzia, ai sensi dell’art. 360 cod.proc.civ., primo comma, nn. 3 e 4, violazione e falsa applicazione degli artt. 101, 115, 116 nonché nullità della sentenza, in quanto il Tribunale, assumendo le deposizioni di alcuni testimoni e dando atto che gli stessi avevano confermato le dichiarazioni già rese al datore di lavoro (prodotte in giudizio), non si è avveduto che, in realtà, le suddette deposizioni non solo erano divergenti dalle dichiarazioni extragiudiziali ma le smentivano; nel medesimo errore sarebbe incorsa anche la Corte territoriale.
Con il secondo motivo di ricorso si denunzia, ai sensi dell’art. 360 cod.proc.civ., primo comma, n. 5, omesso esame di un fatto decisivo oggetto di discussione tra le parti, avendo, la Corte territoriale, trascurato che le offese del COGNOME erano intervenute dopo che il COGNOME gli aveva puntato il coltello minacciando di ammazzarlo (come si legge nella deposizione del teste COGNOME).
Con il terzo motivo di ricorso si denunzia, ai sensi dell’art. 360 cod.proc.civ., primo comma, n. 3, violazione e falsa applicazione dell’art. 2119 c.c. posto che, se la Corte territoriale avesse valutato i fatti decisivi della controversia, la condotta del lavoratore non sarebbe stata sussumibile nell’art. 2119 c.c.
Con il quarto motivo di ricorso si denunzia, ai sensi dell’art. 360 cod.proc.civ., primo comma, n. 3, violazione e falsa applicazione degli artt. 24 e 111 Cost. 115, 116, 177, 188, 189, 244 c.p.c. avendo, la Corte territoriale, irragionevolmente escluso la prova testimoniale con il teste NOME, collega di lavoro.
Il ricorso è inammissibile.
Le censure formulate come violazione o falsa applicazione di legge o come omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio -vizio il cui esame peraltro risulta impedito dalla presenza di una « doppia conforme » – mirano, in realtà, alla rivalutazione dei fatti e del compendio probatorio operata dal giudice di merito non consentita in sede di legittimità.
6.1. Come insegna questa Corte, il ricorso per cassazione non rappresenta uno strumento per accedere ad un terzo grado di giudizio nel quale far valere la supposta ingiustizia della sentenza impugnata, spettando esclusivamente al giudice di merito il compito di individuare le fonti del proprio convincimento, di controllarne l’attendibilità e la concludenza e di scegliere, tra le complessive risultanze del processo, quelle ritenute maggiormente idonee a dimostrare la veridicità dei fatti ad essi sottesi, dando così liberamente prevalenza all’uno o all’altro dei mezzi di prova acquisiti, salvo i casi tassativamente previsti dalla legge (cfr. Cass. n. 27686 del 2018; Cass., Sez. U, n. 7931 del 2013; Cass. n. 14233 del 2015; Cass. n. 26860 del 2014).
Questa Corte ha da tempo consolidato il principio secondo cui una censura relativa alla violazione e falsa applicazione degli artt. 115 e 116 c.p.c., non può avere ad oggetto l’erronea valutazione del materiale istruttorio compiuta dal giudice di merito, ma solo il fatto che questi abbia posto a base della
decisione prove non dedotte dalle parti o disposte d’ufficio al di fuori dei limiti legali, ovvero abbia disatteso, valutandole secondo il suo prudente apprezzamento, delle prove legali, o abbia considerato come facenti piena prova, recependoli senza apprezzamento critico, elementi di prova soggetti invece a valutazione (cfr., Cass. S.U. n. 20867 del 2020; nello stesso senso, fra le più recenti, Cass. n. 6774 del 2022, Cass. nn. 1229 del 2019, 4699 e 26769 del 2018, 27000 del 2016), restando conseguentemente escluso che il vizio possa concretarsi nella censura di apprezzamenti di fatto difformi da quelli propugnati da una delle parti (Cass. n. 18665 del 2017) o, in più in generale, nella denuncia di un cattivo esercizio del potere di apprezzamento delle prove non legali, non essendo tale vizio inquadrabile nè nel paradigma dell’art. 360 c.p.c., n. 5, nè in quello del precedente n. 4, che, per il tramite dell’art. 132 c.p.c., n. 4, attribuisce rilievo unicamente all’anomalia motivazionale che si tramuti in violazione di legge costituzionalmente rilevante (Cass. n. 11892 del 2016).
7.1. Nel caso di specie, sia il Tribunale sia la Corte territoriale (che rileva come i motivi di appello coincidessero con le doglianze mosse all’ordinanza emessa all’esito della fase sommaria), hanno precisato che i testimoni escussi hanno ‘confermato le dichiarazioni rese allorquando furono sentiti dal datore di lavoro ‘ e che si è trattato di ‘dichiarazioni sostanzialmente coerenti con quelle rese in giudizio, ma più precise nella narrazione dei fatti, essendo state rese pochi giorni dopo gli accadimenti, anche sotto il profilo della successione cronologica degli stessi’ (pag. 7 della sentenza impugnata); i giudici di merito hanno, pertanto, valutato le prove (documentali e testimoniali) secondo il loro prudente apprezzamento, insindacabile in questa sede di legittimità.
8. Inoltre, l’attività di integrazione del precetto normativo di cui all’art. 2119 c.c. compiuta dal giudice di merito – mediante la valorizzazione o di principi che la stessa disposizione richiama o di fattori esterni relativi alla coscienza generale ovvero di criteri desumibili dall’ordinamento generale, a cominciare dai principi costituzionali ma anche dalla disciplina particolare, collettiva appunto, in cui si colloca la fattispecie è sindacabile in Cassazione a condizione, però, che la contestazione del giudizio valutativo operato in sede di merito non si limiti ad una censura generica e meramente contrappositiva o ad una denuncia di un’erronea ricognizione della fattispecie concreta, ma contenga, invece, una specifica denuncia di non coerenza del predetto giudizio rispetto agli standards , conformi ai valori dell’ordinamento, esistenti nella realtà sociale (cfr. Cass. n. 13534 del 2019; nello stesso senso, Cass. n. 985 del 2017; Cass. n. 5095 del 2011; Cass. n. 9266 del 2005), censura, quest’ultima, non avanzata dal ricorrente.
In conclusione, il ricorso va dichiarato inammissibile e le spese di lite seguono il criterio della soccombenza dettato dall’art. 91 cod.proc.civ.
Sussistono le condizioni di cui all’art. 13, comma 1 quater, d.P.R.115 del 2002;
P.Q.M.
La Corte dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese del presente giudizio di legittimità che si liquidano in Euro 200,00 per esborsi, nonché in Euro 4.000,00 per compensi professionali, oltre spese generali al 15% ed accessori di legge.
Ai sensi dell’art. 13, comma 1 -quater, del d.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, nel testo introdotto dall’art. 1, comma 17, della
legge 24 dicembre 2012, n. 228, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello previsto per il ricorso, a norma del comma 1-bis dello stesso art. 13, se dovuto.
Così deciso in Roma nella camera di consiglio del 26 novembre