Ordinanza di Cassazione Civile Sez. L Num. 2825 Anno 2024
Civile Ord. Sez. L Num. 2825 Anno 2024
Presidente: COGNOME NOME
Relatore: COGNOME NOME
Data pubblicazione: 30/01/2024
ORDINANZA
sul ricorso 25054-2020 proposto da:
COGNOME NOME, elettivamente domiciliato in ROMA, INDIRIZZO, presso lo studio dell’avvocato AVV_NOTAIO DI S. IPPOLITO, che lo rappresenta e difende;
– ricorrente –
contro
RAGIONE_RAGIONE_SOCIALEALE, in persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in INDIRIZZO, (RAGIONE_RAGIONE_SOCIALEALE) presso lo studio dell’avvocato NOME COGNOME
Oggetto
Licenziamento disciplinare per giusta causa
R.G.N. 25054/2020
COGNOME.
Rep.
Ud. 06/12/2023
CC
NOME COGNOME, che la rappresenta e difende;
– controricorrente –
avverso la sentenza n. 2302/2020 della CORTE D’APPELLO di NAPOLI, depositata il 31/07/2020 R.G.N. 3098/2019;
udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 06/12/2023 dal Consigliere AVV_NOTAIO. AVV_NOTAIO COGNOME.
FATTI DI CAUSA
Con la sentenza in epigrafe indicata, la Corte d’appello di Napoli respingeva il reclamo proposto da COGNOME NOME contro la sentenza n. 4681/2019 del Tribunale di Napoli Nord che pure aveva respinto la sua opposizione all’ordinanza di quello stesso Tribunale che, nella fase sommaria del procedimento ex lege n. 92/2012, aveva rigettato il suo ricorso relativo all’impugnativa del licenziamento disciplinare per giusta causa intimatogli dalla datrice di lavoro RAGIONE_RAGIONE_SOCIALEALE in data 31.5.2017.
Per quanto qui interessa, la Corte territoriale premetteva che la sanzione espulsiva era giunta all’esito di una complessa attività d’indagine avviata da RAGIONE_RAGIONE_SOCIALEALE di RAGIONE_RAGIONE_SOCIALEALE, riguardante diversi uffici e diverse risorse, nell’ambito della quale indagine due ispettori (poi sentiti come testimoni dal Tribunale) avevano svolto accertamenti circa le responsabilità del ricorrente, da ultimo operatore di sportello senior C, assegnato all’UP di Villaricca, sulla non corretta operatività in merito alla riscossione di 10 buoni fruttiferi postali,
pagati presso gli Uffici postali di Villaricca (NA) e di Sant’Antimo (NA); buoni tutti emessi presso il diverso Ufficio Postale di Macerata Campania (CE) da una medesima impiegata; quest’ultima, all’esito degli accertamenti, a sua volta, era stata ritenuta responsabile di avere compiuto operazioni di dubbia legittimità riguardanti emissione di buoni postali fruttiferi con negoziazione di assegni, per la maggior parte, provenienti da rimborsi assicurativi (con sospetto di frodi in danno di compagnie assicurative), per essere poi rimborsati, trascorsi i tempi di accredito delle somme di cui agli assegni negoziati. A seguito del suddetto accertamento, detta impiegata era stata licenziata e i fatti erano stati denunciati alla competente A.G. Per quanto riguarda specificamente la posizione del lavoratore attuale ricorrente, in sintesi allo stesso era contestato di aver provveduto più volte, senza l’utilizzo del c.d. gestore code , alla stampa di buoni postali fruttiferi con contestuale accettazione di assegni bancari e, poi sempre in violazione delle norme regolamentari interne, di aver provveduto a cambiare buoni e vaglia cambiari senza l’utilizzo del suddetto codice, nonché di aver attivato, sempre senza codice, una carta RAGIONE_SOCIALEpay intestata a persona, risultata agli arresti domiciliari, che poi aveva disconosciuto l’operazione, sporgendo denuncia. La Corte, riesaminati in dettaglio tali addebiti e la tesi difensiva del lavoratore, evidenziava, tra l’altro, che le singole operazioni addebitate al COGNOME, eseguite senza utilizzare il gestore code in relazione a tali buoni fruttiferi, erano state precedute e seguite da diverse operazioni, non relative ad essi, nelle quali invece il ticket relativo al gestore code era
stato utilizzato, e che apposita regola interna all’epoca dei fatti vietava la stampa di buoni fruttiferi postali emessi a seguito della negoziazione di assegni bancari in un ufficio diverso da quello di emissione, vale a dire, nella specie, l’Ufficio di Macerata Campania. La Corte, quindi, concordava con quanto ritenuto dal giudice di prime cure in ordine alla prova della sussistenza del fatto materiale e alla ricorrenza dell’elemento psicologico, disattendendo quanto sostenuto dalla difesa del lavoratore circa l’assenza di dolo e l’applicabilità di una sanzione conservativa. Tenendo, quindi, conto delle disposizioni del CCNL in data 14.4.2011, richiamate dalla società datrice di lavoro nel provvedimento espulsivo (ossia, l’art. 54, VI co., lett. c) e k) e l’art. 80 lett. e) del CCNL), la stessa Corte, anche sulla scia di Cass. 9.7.2015, n. 14324, riteneva che l’elemento doloso richiesto dall’art. 54, VI comma, di detto CCNL fosse esclusivamente un dolo generico, e che il pregiudizio che rilevava ai fini della valutazione è anche solo potenziale. Concludeva, pertanto, che la condotta posta in essere dal lavoratore consisteva in fatti e atti dolosi compiuti in costanza di rapporto di lavoro di gravità tale da non consentire la prosecuzione nemmeno provvisoria del rapporto stesso, e che i fatti stessi posti a base del licenziamento integravano una testuale fattispecie per cui il CCNL applicato prevede la sanzione del licenziamento senza preavviso; sicché il licenziamento inflitto all’appellante era sorretto da g iusta causa.
Avverso tale decisione, COGNOME NOME ha proposto ricorso per cassazione, affidato a tre motivi.
L’intimata ha resistito con controricorso e
RAGIONI DELLA DECISIONE
1. Con il primo motivo il ricorrente denuncia ‘Violazione e/o falsa applicazione dell’articolo 2119 c.c., nonché dell’articolo 3 L. n. 604 del 1966, in relazione all’articolo 360, co. I, n. 3 c.p.c., con riferimento alla sussunzione nella fattispecie contemplata dall’articolo 2119 del concreto comportamento posto in essere dal dipendente’. Premettendo che è sempre possibile il controllo di legittimità sull’applicazione delle c.d. norme elastiche, il ricorrente assume che ha errato la Corte di appello nel ritenere esistente il dolo, in relazione al quale non rileva la finalità della condotta mirata a conseguire un determinato profitto, dovendosi invece avere riguardo all’elemento psichico, al fine di stabilire se la condotta stessa sia stata volutamente e consapevolmente irresponsabile e tale da far prevedere, presumibilmente, per il futuro analoghi comportamenti. Secondo il ricorrente, nel caso di specie, occorreva accertare il grado d’intenzionalità dell’azione, indipendentemente dalla sussistenza o meno di uno scopo di lucro ovvero di arrecare danno a ll’azienda; ciò che rilevava, e non era stato adeguatamente valorizzato dalla Corte di merito, quindi, era la mancata sussistenza di una condotta lesiva del vincolo fiduciario e che incidesse negativamente sull’aspettativa di un futuro adempimento della prestazione di lavoro, nonché sull’osservanza degli obblighi di correttezza e buona fede. Sempre per il ricorrente, dall’istruttoria della fasi di merito era emerso
che il COGNOME non conoscesse le procedure relative alla negoziazione dei buoni e che, come affermato dal teste COGNOME all’udienza del 23 maggio 2018 , nell’ufficio ove prestava servizio il COGNOME, a causa del sovraffollamento, accadeva spesso che le procedure fossero elastiche, con rimbalzo di clienti da uno sportellista ad un altro. E ciò avrebbe dovuto condurre la Corte territoriale a non ritenere integrata la nozione di dolo generico per mancanza di coscienza e volontà del COGNOME nel compiere determinate azioni dolose. Sempre secondo il ricorrente, gli addebiti di cui alla lettera di contestazione, lungi dall’integrare gli estremi di violazioni dolose di leggi e regolamenti o dei doveri di ufficio o delle altre ipotesi contemplate dall’articolo 54 del suddetto contratto collettivo, erano in realtà annoverabili tra le meno gravi infrazioni, originate anche da abituale negligenza o inosservanza di leggi, regolamenti, obblighi di servizio, in presenza delle quali risultavano applicabili, per espressa previsione pattizia, sanzioni conservative progressivamente individuabili nella multa e nella sospensione dal servizio con privazione della retribuzione nella multa e nella sospensione dal servizio con privazione della retribuzione nei casi più gravi fino a 10 giorni.
Con un secondo motivo deduce ‘Omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio ex art. 360 comma primo n. 5 c.p.c. Con riferimento alla mancata ammissione dei mezzi di prova articolati, ed in particolare all’esame testimoniale dei titolari dei buoni fruttiferi indicati nel sommario, nell’opposizione e nel reclamo’.
Con un terzo motivo denuncia: ‘Error in
procedendo. Nullità della sentenza per violazione e falsa applicazione, ai sensi dell’art. 360, comma 1, n. 4 cod. proc. civ., dell’art. 221, comma 4, della legge 17 luglio 2020, n. 77 (di conversione al d.l. ‘Rilancio’). Sotto altro profilo (sotto-motivo) violazione e/o falsa applicazione degli artt. 24 e 111 Cost., ai sensi dell’art. 360 co. 1 n. 3 cpc, per avere la Corte di appello, con la gravata sentenza, violato i principi costituzionali di difesa e del giusto processo del lavoratore’. Deduce testualmente il ricorrente: ‘La Corte territoriale ha infatti dapprima fissato una udienza di trattazione scritta (all 11 ordinanza di fissazione di udienza comunicata al ricorrente in data 11 giugno 2020) senza rispettare i termini di trenta giorni per la comunicazione previsti dall’art. 221, comma 4, della legge 17 giugno 2020, n. 77 nei confronti dell’odierno ricorrente, ed ha poi disposto il giorno 25 giugno 2020, senza comunicare la relativa ordinanza al COGNOME, ma inviando solo un elenco generico di cause, un rinvio d’ufficio al 21 luglio 2020 (all 12 al presente ricorso) solo dopo aver fatto scadere i termini per il deposito di note scritte, rispettato nel frattempo dal COGNOME, una udienza orale successiva, giustificando il rinvio con una mancanza di prova della costituzione del contraddittorio che era del tutto falsa, dal momento che RAGIONE_RAGIONE_SOCIALEALE si era regolarmente costituita in data 18 giugno 2020, come da comparsa che si allega (all 13 costituzione in appello di poste italiane), così come ovviamente anche il ricorrente, avendo quindi la Corte già fissato l’udienza del 30 giugno, ciò prima che fosse stabilito il termine del primo luglio per un diverso rito. Inoltre il reclamo in appello era invece stato notificato perché altrimenti la Corte avrebbe dichiarato improcedibile
l’appello, mentre RAGIONE_RAGIONE_SOCIALEALE, come si è visto si era regolarmente costituita in termini. E, in ogni caso con riferimento all’attuale formulazione dell’art. 164 c.p.c., la giurisprudenza di legittimità è ormai costante nel ritenere che la sanatoria è integralmente applicabile all’atto introduttivo del giudizio di appello, inclusi i commi 2 e 3, in base ai quali i vizi attinenti alla c.d. vocatio in ius sono sanati. Quindi, il contradditorio era stato regolarmente costituito, la Corte d’appello ha scritto ciò che non era mai accaduto e ha concesso a RAGIONE_RAGIONE_SOCIALEALE di depositare ben oltre i termini originari e in un procedimento che, tra l’altro, non prevede note scritte, trattandosi di udienza non scritta, violando così il principio della par condicio processuale (p 33 del presenta ricorso), perché la stessa aveva invece obbligato il lavoratore a precipitarsi a depositare note scritte fissando una diversa udienza solo dopo la scadenza del termine per il deposito delle memorie’.
Il primo motivo è infondato.
Come già accennato in narrativa, la Corte distrettuale ha motivatamente ritenuto che in particolare le previsioni di cui all’art. 54, VI comma, lett. c) e k), del CCNL del 14.4.2011, si riferiscano a comportamenti in ordine ai quali è necessario, ma sufficiente il dolo c.d. generico.
D’altronde, il ricorrente, da un lato, non deduce la violazione o falsa applicazione dell’art. 54, comma VI, o di altra disposizione del suddetto CCNL ex art. 360, comma primo, n. 3), c.p.c., e, dall’altro, neppure specifica quali diverse disposizioni del medesimo contratto collettivo
fossero in ipotesi applicabili al caso di specie.
5.1. In ogni caso, diversamente da quanto sostiene il ricorrente, la Corte territoriale si è diffusamente espressa sull’elemento psicologico. Infatti, ha ritenuto ‘un dato pacifico, perché dallo stesso espressamente riconosciuto ed ammesso, che il COGNOME abbia sistematicamente violato le procedure aziendali in tema di Buoni Postali Fruttiferi’, ed ha concluso che ‘tale reiterazione delle condotte illecite appare sintomo di un comportamento del tutto intenzionale’ (cfr. in extenso pag. 9 della sua sentenza).
Restando sullo stesso tema, ha tra l’altro considerato ‘evidente che i fatti contestati al COGNOME siano connotati dalla volontarietà di chi li ha posti in essere, ossia dalla consapevolezza che le operazioni che si stavano compiendo, al di là di un possibile intento fraudolento, violassero i doveri di ufficio cui va improntata la condotta dell’impiegato addetto ad operazioni finanziarie, con ricadute sulla perdita di fiducia nel corretto adempimento futuro della prestazione lavorativa’. Ha aggiunto la stessa Corte che: ‘La gravità e la pluralità dei comportam enti illegittimi e l’assenza di alcuna verosimile giustificazione esprimono, con ragionevole certezza, la volontarietà e coscienza dei comportamenti. Come pure è chiaro che questi stessi comportamenti siano incompatibili con la nozione di disattenzione, trascuratezza, imperizia che, viceversa connotano l’elemento giuridico della colpa su cui il CCNL costruisce le fattispecie punite con sanzioni conservative’ (cfr. in extenso pag. 10 della sentenza).
5.2. Infine, il primo motivo in parte si fonda su una
differente lettura delle risultanze processuali, dove vi si deduce che dall’istruttoria delle fasi di merito sarebbe emerso che il COGNOME non conoscesse le procedure relative alla negoziazione dei buoni e che, nell’ufficio ove egli prestava servizio, a causa del sovraffollamento, accadeva spesso che le procedure fossero elastiche. Si tratta, infatti, di aspetti fattuali sui quali la Corte di merito si è ampiamente espressa (cfr. in extenso pagg. 8-9 della sua sentenza), in base ad un apprezzamento alla stessa riservato.
6. Inammissibile è il secondo motivo.
Occorre, infatti, ricordare che, per questa Corte, ricorre l’ipotesi di c.d. ‘doppia conforme’, ai sensi dell’art. 348 ter, commi 4 e 5, c.p.c., con conseguente inammissibilità della censura di omesso esame di fatti decisivi ex art. 360, comma 1, n. 5), c.p.c., non solo quando la decisione di secondo grado è interamente corrispondente a quella di primo grado, ma anche quando le due statuizioni siano fondate sul medesimo iter logicoargomentativo in relazione ai fatti principali oggetto della causa, non ostandovi che il giudice di appello abbia aggiunto argomenti ulteriori per rafforzare o precisare la statuizione già assunta dal primo giudice (in tal senso, ex multis , Cass. civ., sez. VI, 9.3.2022, n. 7724).
E’ stato, inoltre, specificato che, nell’ipotesi di ‘doppia conforme’ prevista dal quinto comma dell’articolo 348 -ter del c.p.c., il ricorrente per cassazione, per evitare l’inammissibilità del motivo di cui al n. 5 dell’articolo 360 del c.p.c., deve indicare le ragioni di fatto poste a base della decisione di primo grado e quelle poste a base della
sentenza di rigetto dell’appello, dimostrando che esse sono tra loro diverse (così, tra le altre, Cass. civ., sez. II, 14.12.2021, n. 39910; id., sez. III; 3.11.2021, n. 31312; id., sez. III, 9.11.2020, n. 24974).
7.1. Nel caso in esame, la sentenza di secondo grado e quella che ha definito il primo grado sono del tutto conformi.
7.2. Ebbene, il ricorrente non ha allegato se ed in che parti le motivazioni delle due sentenze in questione fossero significativamente difformi.
Inoltre, il ricorrente comunque non specifica su quali capitoli di prova intendesse far ascoltare quali testi NOME, COGNOME NOME e COGNOME.
Parimenti inammissibile è il terzo motivo.
Premesso che il ricorso per cassazione deve essere redatto in conformità ai principi di chiarezza e sinteticità espositiva (cfr. Cass., sez. un., 30.11.2021, n. 37552), le non perspicue deduzioni del ricorrente paiono riferirsi al fatto che il giudizio d’appello con la fissazione di una udienza a trattazione scritta fissata per il 30 giugno, con deposito di note fino a 5 giorni prima, poi trasformata in udienza orale del luglio’ (così a pag. 25 del ricorso in esame in sede di sommaria esposizione dei fatti di causa).
Ebbene, tali deduzioni non trovano anzitutto riscontro nel testo dell’impugnata sentenza: nell’intestazione di quest’ultima, infatti, si legge che la Corte d’appello nella composizione collegiale indicata si era ‘riunita in camera di consiglio, a seguito della trattazione scritta del giudizio, ai
sensi dell’art. 83 lettera h del d.l. 18/2020 convertito in legge 28/2020′ e che aveva ‘pronunciato in grado di appello all’udienza del 21.7.2020’ la sentenza stessa; analogamente, nel seguente svolgimento del processo (a pag. 3) è scritto che: ‘Fissata la trattazione scritta del giudizio, una volta pervenute le note di trattazione da entrambe le parti, all’odierna udienza, la causa è stata riservata’.
Quindi, la sentenza d’appello, nella quale non si dà conto di una discussione della causa c.d. in presenza o della fissazione di un’ulteriore udienza c.d. orale di luglio, risulta essere stata emessa a seguito di c.d. trattazione scritta.
Del resto, l’art. 221, comma 4, d.l. 19.5.2020, n. 34, convertito, con modificazioni, in L. 17.7.2020, n. 77, cui si riferisce il ricorrente in maniera per la verità imprecisa, deducendone la violazione e falsa applicazione, pure regola un’ipotesi di trattazione scritta del procedimento.
Infine, non si comprende il riferimento ad una presunta mancata costituzione della convenuta, non avendo in ogni caso il ricorrente dedotto quale attività difensiva, ormai asseritamente preclusa, sarebbe stata svolta dalla controparte, né quale sarebbe stato il pregiudizio al proprio diritto di difesa.
Il ricorrente, pertanto, di nuovo soccombente, dev’essere condannato al pagamento, in favore della controricorrente, delle spese di questo giudizio di legittimità, liquidate come in dispositivo, ed è tenuto al versamento di un ulteriore importo a titolo di contributo unifica9to, pari a quello previsto per il ricorso, ove dovuto.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso. Condanna il ricorrente al pagamento, in favore della controricorrente, delle spese del giudizio di legittimità, che liquida in € 200,00 per esborsi e in € 5.500,00 per compensi professionali, oltre rimborso forfetario delle spese generali nella misura del 15%, I.V.A. e C.P.A. come per legge.
Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis, se dovuto.
Così dec iso in Roma nell’adunanza camerale del