Ordinanza di Cassazione Civile Sez. L Num. 15033 Anno 2025
Civile Ord. Sez. L Num. 15033 Anno 2025
Presidente: NOME COGNOME
Relatore: COGNOME NOME
Data pubblicazione: 04/06/2025
ORDINANZA
sul ricorso 23579-2024 proposto da:
COGNOME rappresentata e difesa dagli avvocati NOMECOGNOME NOME COGNOME
– ricorrente –
contro
RAGIONE_SOCIALE in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentata e difesa dall’avvocato NOME COGNOME
– controricorrente –
avverso la sentenza n. 312/2024 della CORTE D’APPELLO di MILANO, depositata il 26/04/2024 R.G.N. 15/2024;
udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 23/04/2025 dal Consigliere Dott. NOME COGNOME
Oggetto
LICENZIAMENTO
DISCIPLINARE
R.G.N. 23579/2024 Cron. Rep. Ud. 23/04/2025 CC
RILEVATO CHE
Con la sentenza indicata in epigrafe la Corte di appello di Milano, confermando la pronuncia del giudice di prime cure, ha respinto la domanda di NOME di annullamento del licenziamento intimato dalla RAGIONE_SOCIALE in data 14.2.2023 per violazione dell’obbligo di indossare il gilet blu con il logo dell’azienda ai fini della visibilità per i clienti degli addetti al punto vendita.
La Corte territoriale ha ritenuto pienamente accertato sia l’obbligo per tutti gli addetti al punto vendita di indossare la divisa e il gilet blu sia il continuo rifiuto della lavoratrice, del tutto immotivato, di indossare il suddetto gilet blu, introdotto in azienda sin dal dicembre 2021; i giudici del merito hanno, altresì, accertato il pieno rispetto delle procedure indicate dal CCNL di settore, avendo il datore di lavoro applicato la sanzione della multa per le prime tre infrazioni disciplinari, poi -alla quarta contestazione ‘nell’anno solare’ (periodo di 365 giorni da far decorrere dalla prima contestazione disciplinare) -la sanzione della sospensione dal servizio e dalla retribuzione e successivamente, dopo aver applicato tre volte la sanzione della sospensione dal servizio e dalla retribuzione, la lavoratrice è stata licenziata (secondo una sequenza di gradualità delle sanzioni già valutata dalle parti sociali); infine, la Corte territoriale ha respinto la domanda di riconoscimento di una qualifica superiore, avendo escluso -in base al quadro istruttorio -lo svolgimento di mansioni con effettiva responsabilità esecutiva.
Per la cassazione della sentenza propone ricorso la lavoratrice con quattro motivi, illustrati da memoria; la società ha resistito con controricorso.
Al termine della camera di consiglio, il Collegio si è riservato il deposito dell’ordinanza nei successivi sessanta giorni.
CONSIDERATO CHE
Con il primo motivo di ricorso si denunzia, ai sensi dell’art. 360, primo comma, n. 3 c.p.c., violazione dell’art. 238 del CCNL settore Commercio avendo, la Corte territoriale, errato nel ritenere che, al fine di dar peso alle recidive, ‘l’anno solare’ debba decorrere dalla contestazione disciplinare (in specie dal 15.12.2022) e non dal primo giorno dell’anno (ossia dall’1.1.2023) allo scopo che la massima sanzione venga inflitta tenendo da conto condotte decontestualizzate.
Con il secondo motivo di ricorso si denunzia, ai sensi dell’art. 360, primo comma, n. 3 c.p.c., violazione ed errata applicazione dell’art. 2103 c.c. e dell’art. 116 del CCNL settore Commercio, essendo emerso in modo evidente lo svolgimento di mansioni riferibili alla figura di buyer .
Con il terzo motivo di ricorso si denunzia, ai sensi dell’art. 360, primo comma, n. 3 c.p.c., violazione e falsa applicazione dell’art. 113 del CCNL settore Commercio, risultando dalle prove orali, la grande autonomia di cui godeva la ricorrente nell’es pletamento delle mansioni assegnate.
Con il quarto motivo di ricorso si denunzia, ai sensi dell’art. 360, primo comma, n. 3 c.p.c., violazione dell’art. 115 c.p.c., errata percezione delle prove del giudizio di primo grado, difetto di motivazione ex art. 111 Cost., risultando dalle prove testimoniali, sia il notevole livello di autonomia dei buyer sia lo svolgimento di tale ruolo da parte della lavoratrice.
Il ricorso è inammissibile.
Il primo motivo è prospettato con modalità non conformi al principio di specificità dei motivi di ricorso per cassazione, secondo cui parte ricorrente avrebbe dovuto, quantomeno,
trascrivere nel ricorso il contenuto della clausola contrattuale di cui censura l’interpretazione, fornendo al contempo alla Corte elementi sicuri per consentirne l’individuazione e il reperimento negli atti processuali, potendosi solo così ritenere assolto il duplice onere, rispettivamente previsto a presidio del suddetto principio dagli artt. 366, primo comma, n. 6, e 369, secondo comma, n. 4, c.p.c.
La giurisprudenza di questa Corte è consolidata nell’affermare che ove vengano in rilievo atti processuali ovvero documenti o prove orali la cui valutazione debba essere fatta ai fini dello scrutinio di un vizio di violazione di legge, ex art. 360, primo comma n. 3, c.p.c., di carenze motivazionali, ex art. 360, primo comma, n. 5, c.p.c., o anche di un error in procedendo è necessario non solo che il contenuto dell’atto o della prova orale o documentale sia riprodotto in ricorso, ma anche che ne venga indi cata l’esatta collocazione nel fascicolo d’ufficio o in quello di parte, rispettivamente acquisito o prodotto in sede di giudizio di legittimità, senza che possa attribuirsi rilievo al fatto che nell’indice si indicano come allegati i fascicoli di parte di primo e secondo grado (Cass. SU n. 5698 del 2012; Cass. Sez. U. n. 22726 del 2011; da ultimo, Cass. n. 10992 del 2020).
Il ricorrente non offre quindi indicazioni specifiche sulla vicenda attraverso la riproduzione del contenuto degli atti rilevanti. Inoltre, concernendo la questione violazione di norme sul procedimento, non rispetta l’esigenza di localizzazione degli atti processuali, poiché non indica gli stessi come depositati né, utilizza la facoltà alternativa di cui a Cass. S.U. n. 22726 del 2011 (per ovviare all’esigenza di produzione di copie) facendo riferimento alla loro presenza nel fascicolo d’ufficio, né ottempera adeguatamente all’esigenza di specifica indicazione,
a pena di inammissibilità ex art. 366 c.p.c., n. 6, degli atti, dei documenti e dei dati necessari al reperimento degli stessi.
Gli altri motivi, formulati come violazione o errata applicazione di legge mirano, in realtà, alla rivalutazione dei fatti e del compendio probatorio operata dal giudice di merito non consentita in sede di legittimità. Come insegna questa Corte, il ricorso per cassazione non rappresenta uno strumento per accedere ad un terzo grado di giudizio nel quale far valere la supposta ingiustizia della sentenza impugnata, spettando esclusivamente al giudice di merito il compito di individuare le fonti del proprio convincimento, di controllarne l’attendibilità e la concludenza e di scegliere, tra le complessive risultanze del processo, quelle ritenute maggiormente idonee a dimostrare la veridicità dei fatti ad essi sottesi, dando così liberamente prevalenza all’uno o all’altro dei mezzi di prova acquisiti, salvo i casi tassativamente previsti dalla legge (cfr. Cass. n. 27686 del 2018; Cass., Sez. U, n. 7931 del 2013; Cass. n. 14233 del 2015; Cass. n. 26860 del 2014).
Inoltre, la nullità della sentenza per mancanza della motivazione, ai sensi dell’art. 132 c.p.c., è prospettabile quando la motivazione manchi addirittura graficamente, ovvero sia così oscura da non lasciarsi intendere da un normale intelletto. In particolare, il vizio di motivazione previsto dall’art. 132, comma 2, n. 4, c.p.c. e dall’art. 111 Cost. sussiste quando la pronuncia riveli una obiettiva carenza nella indicazione del criterio logico che ha condotto il giudice alla formazione del proprio convincimento, come accade quando non vi sia alcuna esplicitazione sul quadro probatorio, né alcuna disamina logicogiuridica che lasci trasparire il percorso argomentativo seguito (Cfr. Cass. n. 3819 del 2020), non essendo più ammissibili, a seguito alla riformulazione dell’art. 360, primo comma, n. 5,
c.p.c. (disposta dall’art. 54 del d.l. n. 83 del 2012, conv., con modif., dalla l. n. 134 del 2012), le censure di contraddittorietà e insufficienza della motivazione della sentenza di merito impugnata (Cass. n. 23940 del 2017).
In conclusione, il ricorso va dichiarato inammissibile e le spese di lite seguono il criterio della soccombenza dettato dall’art. 91 c.p.c..
Sussistono le condizioni di cui all’art. 13, comma 1 quater, d.P.R.115 del 2002.
P. Q. M.
La Corte dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese del presente giudizio di legittimità che liquida in euro 4.500,00 per compensi professionali e in euro 200,00 per esborsi, oltre spese generali al 15% ed accessori di legge.
Ai sensi dell’art. 13, comma 1 -quater, del d.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, nel testo introdotto dall’art. 1, comma 17, della legge 24 dicembre 2012, n. 228, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello previsto per il ricorso, a norma del comma 1-bis dello stesso art. 13, se dovuto.
Così deciso in Roma, nella camera di consiglio del 23 aprile 2025.
Il Presidente dott.ssa NOME COGNOME