Sentenza di Cassazione Civile Sez. L Num. 34339 Anno 2024
Civile Sent. Sez. L Num. 34339 Anno 2024
Presidente: NOME
Relatore: COGNOME
Data pubblicazione: 24/12/2024
SENTENZA
sul ricorso 9231-2024 proposto da:
COGNOME elettivamente domiciliato in ROMA, INDIRIZZO presso lo studio dell’avvocato NOME COGNOME rappresentato e difeso dall’avvocato NOME COGNOME;
– ricorrente –
contro
AZIENDA RAGIONE_SOCIALE, in persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, INDIRIZZO presso lo studio dell’avvocato NOME COGNOME rappresentata e difesa dall’avvocato NOME COGNOME;
– controricorrente –
Oggetto
Cessazione
rapporto pubblico impiego
R.G.N. 9231/2024
COGNOME
Rep.
Ud. 03/12/2024
PU
avverso la sentenza n. 3343/2023 della CORTE D’APPELLO di NAPOLI, depositata il 19/10/2023 R.G.N. 1314/2022; udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 03/12/2024 dal Consigliere Dott. NOME COGNOME udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. NOME COGNOME che ha concluso per il rigetto del ricorso; udito l’avvocato NOME COGNOME
FATTI DI CAUSA
Con ricorso depositato il 4 marzo 2020 il signor NOME COGNOME premesso di aver lavorato alle dipendenze dell’ASL di Caserta a far data dall’1° aprile 1992 con la qualifica di ‘Coadiuvatore Amministrativo Esperto’ presso l’ospedale di Sessa Aurunca, esponeva di essere stato licenziato il 2 settembre 2019, in seguito a contestazione d’addebito del 10 maggio 2019 che si riconnetteva a indagine penale e successiva ordinanza applicativa di misura cautelare emessa dal Gip presso il Tribunale di Santa Maria Capua Vetere per i fatti di cui al procedimento recante n. 11936/2016 r.g.
Evidenziata l’illegittimità del licenziamento, ne chiedeva l’annullamento con ordine all’ASL di reintegrarlo nel posto di lavoro.
Con sentenza n. 3257/2021 il Tribunale rigettava il ricorso e la Corte d’appello di Napoli, con decisione del 19 ottobre 2023, confermava tale statuizione.
La Corte territoriale riteneva, sulla scorta della specialità della disciplina sui licenziamenti e stante anche la previsione di un termine di decadenza per la loro impugnativa, insussistente la possibilità rilievo d’ufficio di cause di nullità del licenziamento, dovendo la “causa petendi” essere individuata nello specifico vizio dedotto in ricorso, in «quanto ciascuno dei molteplici vizi, dai quali
può derivare la illegittimità del recesso, discende da circostanze di fatto che è onere del ricorrente dedurre e allegare».
Aggiungeva che al lavoratore erano stati contestati numerosi episodi, anche in concorso con altri colleghi, di falsa attestazione di presenza in servizio mediante alterazione dei sistemi di rilevamento delle presenze, relativi al periodo febbraio 2017/giugno 2017, nonché il reato di truffa aggravata «commesso in Sessa Aurunca, da febbraio 2017 con condotta perdurante» (p. 7, I cpv., sentenza), e che la contestazione d’addebito era sufficientemente specifica, essendone consentita una formulazione per relationem con richiamo cioè all’ordinanza di applicazione di misure coercitive resa il 25.3.2019 dal Gip di S. Maria Capua Vetere, dalla quale si evinceva «un compendio indiziario granitico a suo carico» in relazione a condotte illecite «reiterate sistematicamente» e «di estrema gravità sul piano disciplinare», peraltro non contestate nella loro materialità in sede di introduzione del giudizio.
Si trattava, dunque, di un comportamento «sintomatico dell’inaffidabilità» del lavoratore e, come tale, idoneo a ledere in maniera «irreversibile» l’elemento fiduciario.
Il COGNOME ricorre per cassazione affidando le proprie difese a quattro motivi, assistiti da memoria, cui si oppone con controricorso l’ASL.
La Procura generale presenta memorie scritte e conclude per la reiezione del ricorso, confermando tale conclusione in udienza.
RAGIONI DELLA DECISIONE
Con il primo motivo si denuncia testualmente «violazione e falsa applicazione degli artt. 112, 115, 414, 416, 421 cod. proc. civ. e 1421 cod. civ.; violazione e falsa applicazione dell’art. 55 bis, comma 4, d.lgs. n. 165/2001, in relazione all’art. 360 n. 3 cod. proc. civ.».
Il ricorrente si duole che la sentenza impugnata, così come quella di primo grado, abbia ritenuto inammissibile, perché tardivamente effettuata solo con le note difensive per l’udienza di discussione di primo grado (art. 420 cod. proc. civ.), la deduzione sulla nullità del licenziamento per il mancato rispetto del termine di centoventi giorni dal 10 aprile 2019 (i.e., data di notifica al datore di lavoro della prima notizia dell’illecito, ossia l’ordinanza cautelare dell’ufficio Gip di S. Maria Capua Vetere cui seguiva la contestazione disciplinare) previsto per la conclusione del procedimento disciplinare ai sensi dell’art. 55 bis comma 4 del d.lgs. n. 165/2001.
A riguardo, osserva che il giudice del lavoro ha il potere/dovere di dare corso alle piste probatorie finalizzate a verificare se siano dimostrabili certi fatti decisivi laddove acquisiti al processo: nella specie, tali fatti erano stati accertati in atti, sicché il rilievo d’ufficio era doveroso.
1.1 Il motivo è infondato.
1.1.1 La sentenza impugnata, nel ritenere la tardività dell’eccezione sollevata dal lavoratore circa il mancato rispetto del termine perentorio di centoventi giorni per la conclusione del procedimento disciplinare, si pone in linea con il principio di diritto secondo cui la disciplina della invalidità del licenziamento è caratterizzata da specialità, rispetto a quella generale della invalidità negoziale, desumibile dalla previsione di un termine di decadenza per impugnarlo e di termini perentori per il promovimento della successiva azione di impugnativa, che resta circoscritta all’atto e non è idonea a estendere l’oggetto del processo al rapporto, non essendo equiparabile all’azione con la quale si fanno valere diritti autodeterminati; ne consegue che il giudice non può rilevare di ufficio una ragione di nullità del
licenziamento diversa da quella eccepita dalla parte (Cass., sez. lav., 5 aprile 2019, n. 9675).
Nella fattispecie del precedente ora richiamato, la Corte di legittimità aveva confermato la decisione che non aveva rilevato d’ufficio la violazione, dedotta tardivamente dalla parte, dell’art. 55 bis del d.lgs. n. 165 del 2001, norma che impone di concludere il procedimento disciplinare entro il termine di centoventi giorni dal dì della sua apertura: trattasi proprio l’ipotesi riscontrata nel procedimento in esame, in cui la parte aveva formulato tale eccezione nelle note difensive depositate per l’udienza di discussione.
Dà continuità a tale orientamento Cass. n. 20397/2021 e Cass. n. 35231/2022, la quale ultima richiama a sua volta Cass. n. 7687/2017, che si era diffusamente confrontata con i principi sanciti dalle Sezioni Unite di questa Corte (nelle sent. n. 26242 e n. 26243 del 2014), ma non in relazione al campo lavoristico del licenziamento invalido. L’orientamento qui ribadito si fonda, peraltro, su ampie considerazioni di ordine sistematico circa la speciale conformazione del regime di tutela, valevole per l’invalidità del licenziamento, il cui architrave è rappresentato dal rilievo di ordine letterale, sottolineato in Cass. n. 7687/2017, cit., che il giudice deve attenersi alla «domanda formulata dal lavoratore».
1.1.2 Obietta il ricorrente che la nullità sarebbe qui rilevabile d’ufficio perché basata su fatti ritualmente introdotti, o comunque ormai acquisiti agli atti di causa, secondo le regole che disciplinano, anche dal punto di vista temporale il loro ingresso nel processo e cita a supporto Cass., Sez. L, n. 36353/2021 (cui adde Cass., Sez. 3, n. 33030/2022).
In disparte ogni altra considerazione circa l’ambito e la portata applicativa dei principi evocati da parte ricorrente, nel caso in esame è sufficiente osservare, ai fini della risoluzione della questione, che
l’illecito contestato concerne comportamenti sia anteriori (fin dal febbraio 2017) sia posteriori («giugno 2017») alle modifiche introdotte all’art. 55-bis del d.lgs. 165/2001, con contestazione di «condotta perdurante» di cui al capo K dell’imputazione contenuta nella stessa ordinanza del Gip 25 marzo 2019, a sua volta richiamata nella comunicazione d’addebito 10 maggio 2019 (v. pag. 7, I cpv., sentenza impugnata), nell’ambito di un procedimento unitario riguardante false attestazioni di presenza in servizio. Pertanto, secondo quanto già ritenuto da questa S.C. e qui da confermare (Cass. 6 ottobre 2022, n. 29142) esso ricade nella disciplina procedimentale successiva e tuttora vigente, secondo cui (comma 9-ter) «la violazione dei termini e delle disposizioni sul procedimento disciplinare previste dagli articoli da 55 a 55-quater, fatta salva l’eventuale responsabilità del dipendente cui essa sia imputabile, non determina la decadenza dall’azione disciplinare né l’invalidità degli atti e della sanzione irrogata, purché non risulti irrimediabilmente compromesso il diritto di difesa del dipendente, e le modalità di esercizio dell’azione disciplinare, anche in ragione della natura degli accertamenti svolti nel caso concreto, risultino comunque compatibili con il principio di tempestività».
1.1.3 Vale altresì il consequenziale principio (Cass., Sez. L, n. 10284/2023) per cui in tema di illeciti disciplinari nel pubblico impiego privatizzato, a seguito delle modifiche apportate dal d.lgs. n. 75 del 2017 (cd. legge “Madia”) all’art. 55 bis del d.lgs. n. 165 del 2001, il termine per la conclusione del procedimento da parte dell’Ufficio per i procedimenti disciplinari non decorre più dalla conoscenza dell’illecito in capo al responsabile della struttura di appartenenza, ma da quando l’Ufficio predetto abbia effettuato la contestazione di tale illecito, sicché a tal fine i tempi intercorsi prima della comunicazione dell’illecito all’u.p.d. non hanno rilievo,
se non quando ne risulti irrimediabilmente compromesso il diritto di difesa del dipendente.
1.1.4 Perde quindi di ogni significativa incidenza l’allegazione del momento (10/4/2019) in cui sarebbe (in tesi) pervenuta alla ASL la ‘prima notizia dell’illecito’ (i.e., ordinanza di custodia cautelare dell’Ufficio Gip di S. Maria Capua Vetere cui seguiva la contestazione disciplinare), rilevando piuttosto, ai fini del dies a quo per la conclusione del procedimento disciplinare, la data della contestazione dell’addebito da parte dell’U.P.D., qui effettuata con nota prot. 94252/UPD del 26/4/2019, ricevuta il 10/5/2019, salvo che sia configurabile una situazione, nella specie neppure adombrata dal lavoratore, di compromissione del diritto di difesa dell’incolpato per effetto del tardivo avvio dell’iter disciplinare.
Con il secondo motivo si deduce «violazione e falsa applicazione dell’art. 7 e dell’art. 18 comma 4 della legge 20 maggio 1970 n. 300, in relazione all’art. 360 n. 3 cod. proc. civ.». Erroneamente la Corte di appello ha respinto l’eccezione di parte ricorrente afferente alla genericità del contenuto della comunicazione di contestazione di addebito, ritenendo esaustivo il testo riportato nella già menzionata comunicazione dove si faceva riferimento, al fine di indentificare la condotta oggetto di contestazione, al contenuto di altra documentazione, non riportata nella comunicazione stessa né a questa allegata.
2.1 Il motivo non è fondato.
La sentenza impugnata si pone in linea con il principio di diritto secondo cui in tema di sanzioni disciplinari a carico dei lavoratori subordinati, la contestazione dell’addebito ha lo scopo di consentire al lavoratore incolpato l’immediata difesa e deve, conseguentemente, rivestire il carattere della specificità, senza l’osservanza di schemi prestabiliti e rigidi, purché siano fornite al lavoratore le indicazioni
necessarie ed essenziali per individuare, nella sua materialità, il fatto o i fatti addebitati.
Ne consegue la piena ammissibilità della contestazione “per relationem”, mediante il richiamo agli atti del procedimento penale instaurato a carico del lavoratore, per fatti e comportamenti rilevanti anche ai fini disciplinari, ove le accuse formulate in sede penale siano a conoscenza dell’interessato, risultando rispettati, anche in tale ipotesi, i principi di correttezza e garanzia del contraddittorio (tra le tante, v. Cass., sez. lav., 15 maggio 2014, n. 10662; Cass., sez. lav., 6 dicembre 2017, n. 29240; Cass., sez. lav., 1° ottobre 2018, n. 23771).
Nel caso di specie, il lavoratore, per come accertato dal giudice del merito, è stato «messo in condizione di conoscere esattamente le ragioni che hanno spinto il datore di lavoro all’apertura del procedimento disciplinare nei suoi confronti e, pertanto, di difendersi compiutamente, poiché la contestazione disciplinare descrive dettagliatamente i fatti addebitati» (p. 8 sentenza impugnata) sia pure con richiamo degli atti del procedimento penale instauratosi a carico del medesimo (e a lui peraltro ben noti) per false attestazioni di presenza sul luogo di lavoro.
Ed è appena il caso di ribadire, quanto alla specificità della contestazione, che l’apprezzamento di tale requisito – da condurre secondo i canoni ermeneutici applicabili agli atti unilaterali – è riservato al giudice di merito, la cui valutazione è sindacabile in cassazione solo mediante precisa censura, senza limitarsi a prospettare, come nella specie, una lettura alternativa a quella svolta nella decisione impugnata (Cass., sez. lav., 30 maggio 2018, n. 13667).
Segue l’infondatezza del secondo motivo del ricorso.
3. Con il terzo mezzo si denuncia «violazione e falsa applicazione dell’art. 115 cod. proc. civ., dell’art. 2697 cod. civ., dell’art. 5 legge n. 604 del 15 luglio 1966, in relazione all’art 360 n. 3 cod. proc. civ.», per avere la Corte di merito erroneamente ritenuto provati i fatti addebitati, contravvenendo al principio di riparto dell’onere probatorio.
L’ASL non aveva assolto all’onere – a suo carico – di provare il verificarsi dei singoli comportamenti (presuntivamente e genericamente) addebitati al ricorrente posti a fondamento del provvedimento espulsivo. Non era onere del lavoratore dimostrare la sua estraneità ma della ASL provare in modo ‘inoppugnabile’ il verificarsi delle circostanze fattuali poste alla base del licenziamento intimato, che non erano suffragate dal quadro indiziario emerso in un processo penale non ancora concluso.
3.1 Il motivo è inammissibile.
Nel giudizio di legittimità, una censura relativa alla violazione e falsa applicazione degli artt. 115 e 116 cod. proc. civ. non può essere formulata per lamentare un’erronea valutazione del materiale istruttorio compiuta dal giudice di merito, perché la violazione della norma processuale può essere ravvisata solo qualora il ricorrente alleghi, e non è il caso di specie, che siano state poste a base della decisione prove non dedotte dalle parti, ovvero disposte d’ufficio al di fuori dei limiti legali, o che il giudice abbia disatteso delle prove legali, ovvero abbia considerato come facenti piena prova, recependoli senza apprezzamento critico, elementi di prova soggetti invece a valutazione (cfr. fra le più recenti Cass. n. 1229/2019, Cass. n. 23940/2017, Cass. n. 27000/2016).
Quanto alla denunciata violazione dell’art. 2697 cod. civ., essa può assumere rilievo, ex art. 360 n. 3 cod. proc. civ., solo qualora il giudice del merito, a fronte di un quadro probatorio incerto, abbia fondato la soluzione della controversia sul principio actore non probante reus
absolvitur ed abbia errato nella qualificazione del fatto, ritenendolo costitutivo della pretesa mentre, in realtà, lo stesso doveva essere qualificato impeditivo. In tale evenienza, infatti, l’errore condiziona la decisione, poiché fa ricadere le conseguenze pregiudizievoli dell’incertezza probatoria su una parte diversa da quella che era tenuta, secondo lo schema logico regola-eccezione, a provare il fatto incerto.
Diverso è, invece, il caso che si verifica allorquando il giudice, valutate le risultanze istruttorie, ritenga provata o non provata una determinata circostanza di fatto rilevante ai fini di causa perché in detta ipotesi la doglianza sulla valutazione espressa, in quanto estranea all’interpretazione della norma, va ricondotta al vizio di cui all’art. 360 n. 5 cod. proc. civ. e, quindi, può essere apprezzata solo nei limiti fissati dalla disposizione, nel testo applicabile ratione temporis e come interpretata dalla costante giurisprudenza di questa Corte che, a partire da Cass. S.U. n. 8053/2014, ha escluso ogni rilevanza dell’omesso esame di documenti o di risultanze probatorie ove il ‘fatto storico’ sia stato comunque apprezzato e valutato dal giudice del merito.
Nel caso in esame, la Corte territoriale non ha affatto disatteso il principio di riparto degli oneri probatori, ma ha, sulla base degli elementi probatori disponibili, e liberamente valutando gli atti processualmente acquisiti in sede penale, ritenuto provato l’addebito disciplinare contestato per falsa attestazione delle presenze sul luogo di lavoro.
Con la quarta, ed ultima, critica il ricorrente lamenta la «violazione e falsa applicazione dell’art. 2106 cod. civ. e dell’art. 55 ter del d.lgs. 30 marzo 2001, n. 165, in relazione all’art. 360 cod. proc. civ.». Si duole dell’erronea valutazione di proporzionalità tra la condotta contestata (che, seppure ‘disdicevole’, si connotava per
essere indirizzata a favore di un collega in difficoltà e per l’irrisorietà del danno erariale) e la sanzione del licenziamento senza preavviso.
4.1 Il motivo è inammissibile perché attinge a una pretesa erroneità di una valutazione tipicamente di merito, insindacabile in sede di legittimità («In tema di licenziamento per giusta causa, l’accertamento dei fatti ed il successivo giudizio in ordine alla gravità e proporzione della sanzione espulsiva adottata sono demandati all’apprezzamento del giudice di merito, che -anche qualora riscontri l’astratta corrispondenza dell’infrazione contestata alla fattispecie tipizzata contrattualmente – è tenuto a valutare la legittimità e congruità della sanzione inflitta, tenendo conto di ogni aspetto concreto della vicenda, con giudizio che, se sorretto da adeguata e logica motivazione, è incensurabile in sede di legittimità»: Cass. Sez. L, 17/10/2018, n. 26010).
Nella specie, la Corte d’appello, dopo aver analiticamente ricostruito i fatti ed i comportamenti addebitati, ha svolto un’ampia e motivata valutazione in ordine alla gravità delle condotte, anche sotto il profilo dell’elemento soggettivo, giungendo a formulare un giudizio prognostico negativo, posto a fondamento della ritenuta proporzionalità del recesso senza preavviso irrogato a lavoratore, non apprezzandosi – di conseguenza – margini per il sindacato di questa Corte, rimanendo escluso, peraltro, che i giudici di merito siano incorsi in un automatismo sanzionatorio.
4.2 Non poteva, peraltro, essere ritenuta d’ostacolo alla sanzione espulsiva la prospettata assenza di precedenti disciplinari, e ciò a fronte della gravità dei fatti contestati e tali, per tipologia e sistematicità delle condotte accertate, da mettere in dubbio l’affidamento riposto nel lavoratore circa il corretto adempimento delle obbligazioni future: v., sul punto, Cass., Sez. L, n. 27683/2022 e Cass., Sez. L, n. 5722/2023).
4.3 Come del pari ininfluente sarebbe la modesta entità del ‘danno erariale’: ed infatti, come questa Corte ha già affermato, la modesta entità del fatto addebitato non va riferita alla tenuità del danno patrimoniale subito dal datore di lavoro, dovendosi valutare la condotta del prestatore di lavoro sotto il profilo del valore sintomatico che può assumere rispetto ai suoi futuri comportamenti, nonché all’idoneità a porre in dubbio la futura correttezza dell’adempimento e ad incidere sull’elemento essenziale della fiducia, sotteso al rapporto di lavoro (cfr., Cass. 27683 del 2022, Cass., n. 16260 del 2004, n. 8816 del 2017).
Conclusivamente, per tutte le ragioni già indicate, il ricorso dev’essere rigettato. Le spese del presente giudizio di legittimità seguono la soccombenza.
P.Q.M.
La Corte: rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese di legittimità che liquida in €. 5.000,00 per compensi ed €. 200,00 per esborsi, oltre rimborso spese forfettario al 15% ed accessori di legge.
Ai sensi del d.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto, per il ricorso, a norma del cit. art. 13, comma 1-bis, se dovuto.
Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della Corte di