Ordinanza di Cassazione Civile Sez. L Num. 21963 Anno 2025
Civile Ord. Sez. L Num. 21963 Anno 2025
Presidente: COGNOME
Relatore: COGNOME
Data pubblicazione: 30/07/2025
ORDINANZA
sul ricorso 13278-2024 proposto da:
COGNOME rappresentato e difeso dall’avvocato COGNOME
– ricorrente –
contro
RAGIONE_SOCIALE in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentata e difesa dall’avvocato NOME COGNOME
– controricorrente –
avverso la sentenza n. 1210/2023 della CORTE D’APPELLO di PALERMO, depositata il 18/12/2023 R.G.N. 758/2023; udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 06/05/2025 dalla Consigliera NOME COGNOME
Oggetto
Licenziamento disciplinare
R.G.N.13278/2024
COGNOME
Rep.
Ud. 06/05/2025
CC
Fatti di causa
La Corte d’appello di Palermo ha respinto l’appello proposto da NOME COGNOME confermando la sentenza di primo grado che aveva rigettato l’impugnativa del licenziamento intimatogli dalla RAGIONE_SOCIALE s.c.p.a. il 9 settembre 2021.
La Corte d’appello ha richiamato la relazione di servizio, redatta dalla Guardia di Finanza nell’ambito del procedimento penale avviato nei confronti del Chianello e di alcuni suoi colleghi, nella quale sono dettagliatamente descritti oltre quindici episodi di indebito allontanamento dal luogo di lavoro ove il predetto si recava unicamente per timbrare l’ingresso e l’uscita. Ha giudicato proporzionata la sanzione espulsiva adottata dalla società per la evidente slealtà connaturata alla condotta sopra descritta, ripetuta sistematicamente in un breve arco temporale, e capace di ledere definitivamente il vincolo fiduciario.
Avverso la sentenza NOME COGNOME ha proposto ricorso per cassazione affidato a quattro motivi. La dalla RAGIONE_SOCIALE ha resistito con controricorso.
Il Collegio si è riservato di depositare l’ordinanza nei successivi sessanta giorni, ai sensi dell’art. 380 bis.1 c.p.c., come modificato dal d.lgs. n. 149 del 2022.
Ragioni della decisione
Con il primo motivo di ricorso è dedotta, ai sensi dell’art. 360, comma 1, n. 3 e n. 4 c.p.c., la nullità della sentenza per difetto assoluto di motivazione sulla censura di tardività della contestazione di addebito disciplinare.
Il motivo, ove anche riqualificato in termini di omessa pronuncia su un motivo di appello, è infondato.
La sentenza di primo grado ha espressamente respinto la censura di tardività della contestazione disciplinare sul rilievo che ‘la resistente ha contestato i fatti disciplinarmente rilevanti nel momento in cui ne ha avuto effettiva e completa conoscenza, os sia solo dopo la comunicazione dell’ordinanza cautelare, sussistendo nella fase precedente il segreto istruttorio ed in ogni caso trattandosi di richieste di informazioni da parte degli organi competenti’. A fronte di tale statuizione, nel ricorso in appel lo (alla p. 6 indicata dall’attuale ricorrente) non vi è alcun cenno alla questione di ‘tardività della contestazione disciplinare’ ma nel titolo del par. II si denuncia unicamente il difetto di proporzionalità e di tempestività della sanzione irrogata, ci oè del licenziamento. Dall’esame degli atti processuali non risulta quindi articolato uno specifico motivo di appello sulla tardività della contestazione disciplinare e l’atto di appello non contiene alcuna critica alla statuizione adottata sul punto dal t ribunale, dal che discende l’infondatezza del motivo in esame.
Con il secondo motivo è dedotta, ai sensi dell’art. 360, comma 1, n. 3 e n. 5 c.p.c., violazione o falsa applicazione dell’art. 2119 c.c. nonché omesso esame su un fatto decisivo oggetto di discussione tra le parti per assenza di una giusta causa di licenziamento. Si assume che il datore di lavoro si è limitato a recepire acriticamente l’ordinanza di applicazione della misura cautelare in assenza di fatti materiali idonei ad incrinare il rapporto fiduciario (nessuna rimostranza era stata mossa verso il dipendente prima della conoscenza della citata ordinanza di custodia cautelare) e senza attendere l’esito del processo penale.
Con il terzo motivo è dedotta, ai sensi dell’art. 360, comma 1, n. 3 e n. 5 c.p.c., violazione o falsa applicazione degli artt.
2106 e 2119 c.c. per mancanza di proporzionalità della sanzione espulsiva. Si sottolinea come la condotta del dipendente non avesse creato alcun disservizio alla società datoriale, che non ha mai lamentato una carente prestazione da parte del predetto o dei suoi colleghi, e si evidenzia il modesto valore del vantaggio patrimoniale che il dipendente avrebbe conseguito (euro 198,58).
Con il quarto motivo è dedotta, ai sensi dell’art. 360, comma 1, n. 3 c.p.c., violazione o falsa applicazione dell’art. 2119 c.c. per licenziamento discriminatorio e disparità di trattamento rispetto alle sanzioni applicate ad altri dipendenti in relazione alla medesima condotta.
Il secondo e terzo motivo di ricorso, da trattare congiuntamente, non possono trovare accoglimento.
Anzitutto, devono giudicarsi inammissibili le censure formulate ai sensi dell’art. 360 n. 5 c.p.c. in ragione della disciplina cd. della doppia conforme, di cui all’art. 348 ter c.p.c. (ora art. 360, comma 4 c.p.c.).
Non è revisionabile in questa sede l’accertamento operato dai giudici di merito sulla sussistenza della condotta contestata, di fraudolenta assenza dal lavoro celata attraverso effettive timbrature del badge in entrata e in uscita; neppure è dubitabile l’u tilizzabilità da parte del giudice del lavoro delle prove atipiche raccolte in altri procedimenti (cfr. Cass., 2947 del 2023; n. 19521 del 2019), nella specie, la relazione di servizio e le allegate fotografie.
La Corte d’appello si è attenuta ai canoni giurisprudenziali attraverso cui sono state definite le nozioni legali di giusta causa (cfr. Cass. n. 18715 del 2016; n. 6901 del 2016; n. 21214 del 2009; n. 7838 del 2005) e di proporzionalità della misura espulsiva (cfr. Cass. 18715 del 2016; Cass. n. 21965 del 2007;
Cass., n. 25743 del 2007) ed ha motivatamente valutato la gravità e il disvalore sociale della condotta addebitata al dipendente; in particolare, ha sottolineato come i comportamenti addebitati ‘denotano per le modalità contenutistiche e temporali in cui si sono manifestati, una evidente slealtà nei confronti del datore di lavoro, destinata a incidere sensibilmente e direttamente sul vincolo fiduciario’ e risultano ‘connotati da disvalore etico e giuridico e appaiono idonei a certificare un consolidato spregio per il rispetto delle regole e della legalità’. A fronte di tale supporto motivazionale, il ricorrente neppure identifica i parametri integrativi della giusta causa che sarebbero stati violati dai giudici di merito, ma si limita a ribadire, in modo del tutto generico, l’insussistenza di una giusta causa di recesso. Anche per questo profilo, la sentenza impugnata non risulta efficacemente censurata.
6. La censura oggetto del quarto motivo è inammissibile. La sentenza d’appello ha richiamato i precedenti di legittimità secondo cui, ai fini della sussistenza della giusta causa o del giustificato motivo di licenziamento, qualora risulti accertato che l’inadempimento del lavoratore licenziato sia stato tale da compromettere irrimediabilmente il rapporto fiduciario, è di regola irrilevante che un’analoga inadempienza, commessa da altro dipendente, sia stata diversamente valutata dal datore di lavoro; nondimeno, l’identità delle situazioni riscontrate può essere valorizzata dal giudice per verificare la proporzionalità della sanzione adottata, privando, così, il provvedimento espulsivo della sua base giustificativa (Cass. n. 10550 del 2013). Ha appurato come l’appellante non avesse allegato né provato la coincidenza o sovrapponibilità tra le condotte al medesimo contestate e quelle addebitate alla collega COGNOME, sanzionata con misura conservativa. Il motivo di ricorso in
esame si limita a reiterare le asserzioni fatte in appello senza cogliere la ratio della decisione adottata dalla Corte territoriale e sostanzialmente sollecitando una inammissibile rivisitazione, nel merito, delle idoneità delle allegazioni e delle richieste probatorie svolte a supportare l’assunto di disparità di trattamento.
Le considerazioni svolte conducono al rigetto del ricorso.
La regolazione delle spese del giudizio di legittimità segue il criterio di soccombenza, con liquidazione come in dispositivo. Il rigetto del ricorso costituisce presupposto processuale per il raddoppio del contributo unificato, ai sensi dell’art. 13, comma 1 quater, del d.P.R. n. 115 del 2002 (cfr. Cass. S.U. n. 4315 del
2020).
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso. Condanna il ricorrente alla rifusione delle spese del giudizio di legittimità che liquida in euro 4.000,00 per compensi professionali, euro 200,00 per esborsi, oltre spese forfettarie nella misura del 15% e accessori come per legge.
Ai sensi dell’art. 13, co. 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento da parte del ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso a norma del comma 1 bis dello stesso art.13, se dovuto.
Così deciso nell’adunanza camerale del 6 maggio 2025