Ordinanza di Cassazione Civile Sez. L Num. 10865 Anno 2025
Civile Ord. Sez. L Num. 10865 Anno 2025
Presidente: NOME
Relatore: COGNOME NOME
Data pubblicazione: 24/04/2025
ORDINANZA
sul ricorso 16686-2024 proposto da:
RAGIONE_SOCIALE in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentata e difesa dagli avvocati NOME COGNOME NOME COGNOME, COGNOME;
– ricorrente –
contro
COGNOME rappresentato e difeso dagli avvocati NOME COGNOME NOME COGNOME;
– controricorrente –
avverso la sentenza n. 2484/2024 della CORTE D’APPELLO di NAPOLI, depositata il 11/06/2024 R.G.N. 2428/2023; udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del
09/04/2025 dal Consigliere Dott. NOME COGNOME
Oggetto
R.G.N. 16686/2024
COGNOME
Rep.
Ud. 09/04/2025
CC
RILEVATO CHE
Con sentenza in data 23 maggio 2024 , la Corte d’Appello di Napoli, in accoglimento del reclamo proposto dal lavoratore, ha condannato RAGIONE_SOCIALE alla reintegrazione nel posto di lavoro di NOME COGNOME ed al pagamento in favore di quest’ultimo di una indennità risarcitoria commisurata all’ultima retribuzione globale di fatto, dal giorno del licenziamento a quello dell’effettiva reintegrazione, nel limite delle dodici mensilità della retribuzione globale di fatto, oltre versamento dei contributi previdenziali ed assistenziali e spese di lite.
La Corte, in particolare, nell’andare di contrario avviso rispetto all ‘iter decisorio del giudice di primo grado, non solo ha ritenuto, con riguardo al licenziamento intimato in data 3 febbraio 2022, trattarsi di un licenziamento ontologicamente disciplinare, ma ha escluso la sussistenza della giusta causa sia con riguardo all’assenza di animus decipiendi in ordine alla condotta ascritta sia con riguardo alle imputate richieste di rimborsi per spese insussistenti, nonché, infine, per l’intrinseca lievità delle violazioni, in aggiunta alla assenza di precedenti e di un legittimo affidamento da parte del datore di lavoro.
Ha reputato, quindi, il Collegio, la sussistenza di tutti gli elementi qualificatori della fattispecie individuati nella sentenza di questa Corte n. 11665 del 2022 chiarendo che laddove una fattispecie punita con una sanzione conservativa sia delineata dalla norma collettiva, come nel caso de quo, attraverso una clausola generale, graduando la condotta con riguardo alla sua gravità, resta compito del giudice riempire di contenuto la clausola.
Per la cassazione della sentenza propone ricorso assistito da memoria RAGIONE_SOCIALE affidandolo a tre motivi.
Resiste, con controricorso, NOME COGNOME.
CONSIDERATO CHE
1.Con il primo motivo di ricorso si censura la decisione impugnata deducendosi la violazione e falsa applicazione degli artt. 434 e 342 cod. proc. civ. con riguardo all’art. 360 n. 4.
Deduce, in particolare, la ricorrente l’assenza di specificità dei motivi anche alla luce di quanto previsto al riguardo dalla c.d. riforma Cartabia.
Con il secondo motivo di ricorso si allega la violazione o falsa applicazione degli artt. 1362, 1363, 1364, 1365, 2106, 2118 e 219 cod. civ., oltre che dell’art. 18 l. n. 300/70 e degli artt. 9 e 10, sez. IV, titolo VII CCNL addetti industria metalmeccanica.
Afferma, al riguardo, parte ricorrente l’erronea automatica riconduzione della complessiva condotta illecita posta in essere dal lavoratore ad una generica previsione conservativa del contratto collettivo e la conseguente ritenuta punibilità mediante sanzione conservativa di un fatto gravissimo sulla scorta della reputata equivalenza tra la nozione di giusta causa e la presenza di artifizi e raggiri che avrebbero consentito di sussumere la condotta in una fattispecie astratta di rilievo penale.
Con il terzo motivo si deduce la violazione o falsa applicazione degli artt. 1175, 1375, 2094, 2104, 2105, 2735 e 2119 cod. civ., oltre che degli artt. 3 L. n. 604/1966 e 18 L. n. 300/70, nonché degli artt. 9 e 10 sez. IV, titolo VII CCNL addetti industria metalmeccanica.
Rileva, al riguardo, parte ricorrente l’illogica equiparazione della nozione di giusta causa a quella di fattispecie di reato alla luce della gravità della condotta posta in essere anche in considerazione del ruolo di Supervisore aziendale rivestito dal ricorrente.
1.1. Il primo motivo è infondato.
Come chiarito dal Supremo Collegio (V. SU n. 36481 del 2022) gli artt. 342 e 434 c.p.c., nel testo formulato dal d.l. n. 83 del 2012, conv. con modif. dalla l. n. 134 del 2012, vanno interpretati nel senso che l ‘ impugnazione deve contenere, a pena di inammissibilità, una chiara individuazione delle questioni e dei punti contestati della sentenza impugnata e, con essi, delle relative doglianze, affiancando alla parte volitiva una parte argomentativa che confuti e contrasti le ragioni addotte dal primo giudice, senza che occorra l’utilizzo di particolari forme sacramentali o la redazione di un progetto alternativo di decisione da contrapporre a quella di primo grado, tenuto conto della permanente natura di ‘revisio prioris instantiae’ del giudizio di appello, il quale mantiene la sua diversità rispetto alle impugnazioni a critica vincolata.
Tale principio va riaffermato anche in seguito all’entrata in vigore della c.d. ‘riforma Cartabia’, e, d’altro canto, la Corte d’appello ha correttamente osservato come il gravame contenesse motivi sufficientemente specifici e tali da permettere di determinare i capi della sentenza censurati e di consentire un pieno esercizio del diritto di difesa della controparte, la quale ha, infatti ampiamente dedotto sulle asserzioni di parte reclamante.
Il secondo ed il terzo motivo, da esaminarsi congiuntamente per ragioni logico -sistematiche, sono inammissibili.
Giova premettere, al riguardo, che l’interpretazione del regolamento contrattuale è attività riservata al giudice di merito, pertanto sottratta al sindacato di legittimità salvo che per il caso della violazione delle regole legali di ermeneutica contrattuale, la quale, tuttavia, non può dirsi esistente sul semplice rilievo che il giudice di merito abbia scelto una piuttosto che un’altra tra le molteplici interpretazioni del testo negoziale, sicchè, quando di una clausola siano possibili due o più interpretazioni, non è consentito alla parte, che aveva proposto l’interpretazione disattesa dal giudice, dolersi in sede di legittimità del fatto che ne sia stata privilegiata un’altra (sul punto, ex plurimis, Cass. n. 11254 del 10/05/2018).
Va poi rilevato che, secondo l’insegnamento di questa Corte ( fra le più recenti, Cass. n. 13534 del 2019 nonché, in terminis, Cass. n. 7838 del 2005 e Cass. n. 18247 del 2009), il modulo generico che identifica la struttura aperta delle disposizioni di limitato contenuto ascrivibili alla tipologia delle cd. clausole generali, richiede di essere specificato in via interpretativa, allo scopo di adeguare le norme alla realtà articolata e mutevole nel tempo. La specificazione può avvenire mediante la valorizzazione o di principi che la stessa disposizione richiama o di fattori esterni relativi alla coscienza generale ovvero di criteri desumibili dall’ordinamento generale, a cominciare dai principi costituzionali ma anche dalla disciplina particolare, collettiva, come nel caso in esame, in cui si colloca la fattispecie. Tali specificazioni del parametro normativo hanno natura giuridica e la loro errata individuazione è deducibile in sede di legittimità come violazione di legge ( ex plurimis, Cass. n. 13453 del 2019 cit., Cass. n. 6901 del 2016; Cass. n. 6501 del 2013; Cass. n. 6498 del 2012; Cass. n. 25144 del 2010). Conseguentemente, non si sottrae al controllo di questa Corte il profilo della correttezza del metodo seguito nell’individuazione dei parametri integrativi, perché, pur essendo necessario compiere opzioni di valore su regole o criteri etici o di costume o propri di discipline e/o di ambiti anche extragiuridici,
“tali regole sono tuttavia recepite dalle norme giuridiche che, utilizzando concetti indeterminati, fanno appunto ad esse riferimento” (per tutte v. Cass. n. 434 del 1999), traducendosi in un’attività di interpretazione giuridica e non meramente fattuale della norma stessa (cfr. Cass. n. 13453 del 2019 cit., Cass. n. 5026 del 2004; Cass. n. 10058 del 2005; Cass. n. 8017 del 2006).
Nondimeno, va sottolineato che l’attività di integrazione del precetto normativo di cui all’art. 2119 c.c. compiuta dal giudice di merito è sindacabile in cassazione a condizione, però, che la contestazione del giudizio valutativo operato in sede di merito non si limiti ad una censura generica e meramente contrappositiva, ma contenga, invece, una specifica denuncia di non coerenza del predetto giudizio rispetto agli standards, conformi ai valori.
Sul diverso piano del giudizio di fatto, demandato al giudice del merito, opera l’accertamento della concreta ricorrenza, nella fattispecie dedotta in giudizio, degli elementi che integrano il parametro normativo e sue specificazioni e della loro attitudine a costituire giusta causa di licenziamento. Quindi occorre distinguere: è solo l’integrazione a livello generale e astratto della clausola generale che si colloca sul piano normativo e consente una censura per violazione di legge; mentre l’applicazione in concreto del più specifico canone integrativo così ricostruito, rientra nella valutazione di fatto devoluta al giudice del merito, “ossia il fattuale riconoscimento della riconducibilità del caso concreto nella fattispecie generale e astratta” (in termini ancora Cass. n. 18247/2009 e n. 7838/2005 citate).
Questa Corte precisa, pertanto, che “spettano inevitabilmente al giudice di merito le connotazioni valutative dei fatti accertati nella loro materialità, nella misura necessaria ai fini della loro riconducibilità – in termini positivi o negativi – all’ipotesi normativa” (così, in motivazione, Cass. n.
15661 del 2001, nonché la giurisprudenza ivi citata).
2.1. Tale distinzione operante per le clausole generali condiziona la verifica dell’errore di sussunzione del fatto nell’ipotesi normativa, ascrivibile, per risalente tradizione giurisprudenziale (v. in proposito Cass. SS.UU. n. 5 del 2001), al vizio di cui al n. 3 dell’art. 360, comma 1, c.p.c. (di recente si segnala Cass. n. 13747 del 2018).
E’, infatti, solo l’integrazione a livello generale e astratto della clausola generale che si colloca sul piano normativo e consente una censura per violazione di legge: l’applicazione in concreto del più specifico canone integrativo così ricostruito, rientra nella valutazione di fatto devoluta al giudice del
merito, “ossia il fattuale riconoscimento della riconducibilità del caso concreto nella fattispecie generale e astratta” (sul punto, fra le altre, Cass. n.18247 del 2009 e n. 7838 del 2005).
3. Nel caso di specie, appare evidente che la censura, veicolata per il tramite dell’art. 360 n. 3 cod. proc. civ., in realtà corre lungo i binari della censura fattuale in quanto mira ad una diversa ricostruzione della fattispecie oltre che ad una inammissibile diversa valutazione delle risultanze istruttorie di primo grado.
Parte ricorrente, infatti, pur denunciando, apparentemente, una violazione di legge, chiede in realtà alla Corte di pronunciarsi sulla valutazione di fatto compiuta dal giudice in ordine alle conclusioni raggiunte con riguardo alla insussistenza di comportamenti così rilevanti sul piano disciplinare da scuotere irrimediabilmente la fiducia della società datrice.
Sotto tale profilo, l’astratta riconducibilità della fattispecie all’ambito penale non costituisce il core dell’ iter decisorio, ma viene utilizzata come strumento per l’analisi, in concreto, della sostanza dell’attività decipiente posta in essere, priva, ad avviso della Corte, di quei connotati propri degli artifizi e raggiri che avrebbero indotto a reputare adeguata la massima sanzione espulsiva.
Al contrario, in base ad una valutazione immune da vizi logici e, per il resto, sottratta al sindacato di legittimità, il giudice di secondo grado ha, piuttosto, ritenuto rilevante l’assenza di nocumento morale o materiale per l’azienda – che emerge come uno dei connotati distintivi al fine di graduare le sanzioni -unitamente all’assenza di rilievo penale che, pure, ha escluso di ravvisare nelle condotte, onde ricondurre le stesse nell’ambito della più congrua cornice della sanzione conservativa.
Ha osservato, infatti, il giudice di legittimità, come dovesse escludersi qualsivoglia rilievo determinante, nella definitiva lesione del vincolo fiduciario, con riguardo alla richiesta di rimborsi chilometrici per viaggi di rientro mai effettuati, simulan do l’utilizzo della propria auto, a fronte dell’uso di auto aziendali imputabili ad altro dipendente.
La Corte ha, quindi, escluso, con approfondite argomentazioni l’assenza di infrazioni tali da indurre il venir meno definitivo della fiducia della società ricorrente.
Alla luce delle suesposte argomentazioni, il ricorso deve essere respinto.
4.1. Le spese seguono la soccombenza e si liquidano come in dispositivo.
S ussistono i presupposti processuali per il versamento, dalla parte ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello previsto per il ricorso, a norma dell’art. 1 -bis dell’ articolo 13 comma 1 quater del d.P.R. n. 115 del 2002, se dovuto.
PQM
La Corte respinge il ricorso. Condanna la parte ricorrente alla rifusione, in favore della parte controricorrente, delle spese di lite, che liquida in complessivi euro 5.000,00 per compensi e 200,00 per esborsi, oltre spese generali al 15% e accessori di legge, da distrarsi in favore dei procuratori, dichiaratisi antistatarii. Ai sensi dell’art. 13 comma 1 quater del d.P.R. n. 115 del 2002, da atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a tito lo di contributo unificato, pari a quello previsto per il ricorso, a norma dell’art. 1 -bis dello stesso articolo 13, se dovuto.
Così deciso nella Adunanza camerale del 9 aprile 2025.
Il Presidente
NOME COGNOME