Ordinanza di Cassazione Civile Sez. L Num. 11150 Anno 2025
Civile Ord. Sez. L Num. 11150 Anno 2025
Presidente: NOME
Relatore: COGNOME NOME
Data pubblicazione: 28/04/2025
ORDINANZA
sul ricorso 17837-2024 proposto da:
COGNOME NOME COGNOME rappresentato e difeso dagli avvocati NOME COGNOME NOME COGNOME
– ricorrente –
contro
RAGIONE_SOCIALE in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentata e difesa dall’avvocato NOME COGNOME
– controricorrente –
avverso la sentenza n. 404/2024 della CORTE D’APPELLO di REGGIO CALABRIA, depositata il 04/06/2024 R.G.N. 434/2022; udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 09/04/2025 dal Consigliere Dott. NOME COGNOME
Oggetto
LICENZIAMENTO
DISCIPLINARE
R.G.N. 17837/2024
COGNOME
Rep.
Ud. 09/04/2025
CC
RILEVATO CHE
Con la sentenza indicata in epigrafe, la Corte d’appello di Reggio Calabria ha dichiarato inammissibile il reclamo proposto da NOME COGNOME nei confronti di RAGIONE_SOCIALE
La Corte territoriale ha rilevato che il reclamo proposto, ex art. 1, comma 58, della legge n. 92 del 2012, dal lavoratore esponeva le medesime questioni esaminate dal Tribunale (sia in sede sommaria sia in sede di opposizione), senza misurarsi con l’ampia motivazione fornita dal provvedimento impugnato; affrontando i motivi di reclamo, i giudici del merito hanno, dunque, sottolineato che -come già esposto -il fatto delineato nella lettera di contestazione disciplinare (ossia aver rappresentato, il COGNOME, il punto di riferimento delle cosche di ‘ndrangheta’ all’interno della società RAGIONE_SOCIALE, per la gestione di appalti e subappalti in materia di manutenzione stradale) era sufficientemente specifico e comprensibile e che non vi era stata nessuna violazione del principio di immutabilità della contestazione disciplinare; che il datore di lavoro aveva fornito la prova posta a base del licenziamento per giusta causa (sia in considerazione del principio di mancata contestazione dei fatti da parte del lavoratore, sia, in ogni caso, sulla base della disamina delle prove raccolte in sede penale); che era stato correttamente ritenuta assorbita la domanda circa il carattere ostativo del provvedimento assunto dal giudice delegatoSezione Misure di prevenzione; che il CCNL prevedeva la sanzione espulsiva per fatti che avevano rilevanza penale (a prescindere da un previo accertamento penale definitivo).
Avverso tale sentenza il lavoratore ha proposto ricorso per cassazione, affidato a cinque motivi. La società ha resistito con controricorso.
Al termine della camera di consiglio, il Collegio si è riservato il deposito dell’ordinanza nei successivi sessanta giorni.
CONSIDERATO CHE
Con il primo motivo di ricorso, si denunzia, ai sensi dell’art. 360 cod.proc.civ., primo comma, n. 4, nullità della sentenza per violazione e/o falsa applicazione degli artt. 434, 346, 115, 132 c.p.c., anche in relazione agli artt. 111, sesto comma, Cost. avendo, il reclamo proposto alla Corte di appello, affrontato in termini a dir poco serrati la ratio decidendi della sentenza di primo grado, ove, fra l’altro, si insisteva nella negazione totale dei fatti nella loro consistenza storica. L’atto di reclamo era del tutto ammissibile in quanto conteneva l’individuazione delle questioni e dei punti contestati della sentenza impugnata, senza che occorra un progetto alternativo della sentenza; i fatti non erano provati e la Corte territoriale non ha esaminato i verbali delle udienze istruttorie tenute in sede penale (unitamente alle note difensive ivi depositate), con ciò facendo una errata ricognizione del materiale probatorio acquisito; la motivazione del provvedimento impugnato è del tutto assente.
Con il secondo motivo di ricorso, si denunzia, ai sensi dell’art. 360 cod.proc.civ., primo comma, nn. 3 e 4, violazione e/o falsa applicazione degli artt. 2119 e 2697 c.c., 1 e 5 della legge n. 604 del 1966, 18 della legge n. 300 del 1970, 112 e 115 c.p.c., 27, secondo comma, Cost. avendo, la Corte territoriale: esaminato fatti che non erano descritti nella lettera di contestazione disciplinare; ritenuto provati i fatti descritti nel decreto del Tribunale penale-Sezione Misure di prevenzione che integrav ano ‘mere ipotesi di fatto che in astratto possono costituire reato’; invertito l’onere probatorio, richiedendo al lavoratore la prova del fatto negativo; trascurato che la società non aveva allegato in quali occasioni, luogo e data il lavoratore
aveva -in concreto -contribuito all’acquisizione di subappalti da parte di imprese legate alla criminalità organizzata.
Con il terzo motivo di ricorso, si denunzia, ai sensi dell’art. 360 cod.proc.civ., primo comma, n. 3, violazione e/o falsa applicazione degli artt. 7 e 18 della legge n. 300 del 1970, in relazione anche agli artt. 112 c.p.c. e 2106 c.c., avendo la Corte territoriale, erroneamente ritenuto che i fatti disciplinarmente contestati fossero quelli indicati nel decreto del Tribunale penale-Sezione Misure di prevenzione e non, invece, quelli indicati nella lettera di contestazione comunicata al lavoratore (ove si faceva riferimento a ‘fatti accaduti nel 2018’, così come appresi il giorno prima dall’avviso di conclusione delle indagini preliminari), con conseguente violazione del principio di immutabilità della contestazione; nella lettera di licenziamento viene aggiunto il fatto della ‘sussistenza di solidi legami’ con esponenti della criminalità organizzata, non presente nella lettera di contestazione, dizione che fa mutare i fatti cristallizzati nella suddetta lettera di contestazione.
Il primo, il secondo ed il terzo motivo, che possono essere trattati congiuntamente per la stretta connessione, sono inammissibile.
4.1. Le doglianze adombrano, nella loro essenza, un più appagante coordinamento dei riscontri probatori acquisiti e si risolvono nell’unilaterale contrapposizione di un diverso inquadramento dei dati di fatto, esaminati in modo parziale e atomistico, e nella reiterazione di rilievi già disattesi dalla Corte d’appello, con motivato e plausibile apprezzamento.
4.2. Le argomentazioni concernenti la ricostruzione degli elementi oggettivi e soggettivi della condotta tenuta dal lavoratore sollecitano, ad onta dei richiami normativi in esso contenuti, una rivisitazione nel merito della vicenda e delle
risultanze processuali affinché se ne fornisca un diverso apprezzamento: si tratta di operazione non consentita in sede di legittimità, ancor più ove si consideri che in tal modo il ricorso finisce con il riprodurre (peraltro in maniera irrituale: cfr. Cass. S.U. n. 8053 del 2014) sostanziali censure ex art. 360, primo comma, n. 5, cod. proc. civ., a monte non consentite dall’art. 348-ter, commi 4 e 5, cod. proc. civ., essendosi in presenza di doppia pronuncia conforme di merito basata sulle medesime ragioni di fatto circa la gravità del comportamento adottato dal lavoratore.
4.3. La Corte territoriale, dopo aver dato atto della riproduzione ‘parola per parola’ del ricorso in sede di opposizione ex art.1. comma 51, della legge n. 92 del 2012, ha -in ogni caso -esaminato le questioni riproposte in sede di reclamo, e (confermando, analiticamente, la decisione impugnata) ha rilevato che il lavoratore non aveva contestato i fatti addebitati e che, comunque, il materiale probatorio depositato dal datore di lavoro (e formatosi in sede penale, ossia intercettazioni, dichiarazioni rese dai collaboratori di giustizia, documentati contatti con esponenti della criminalità organizzata) consentiva di ritenere provato che il COGNOME aveva svolto il ruolo di elemento di raccordo tra le cosche mafiose e la società datorialeò.
Con il quarto motivo di ricorso, si denunzia, ai sensi dell’art. 360 cod.proc.civ., primo comma, n. 3, violazione e/o falsa applicazione degli artt. 18 della legge n. 300 del 1970, 99 e 100 del CCNL settore edile, avendo la Corte territoriale errato nel l’interpretazione della contrattazione collettiva che riconduce, tra le ipotesi di recesso, fatti che integrino reati definiti tali con sentenza passata in giudicato (e, nel caso di specie, allo stato, non è stata accertata, in sede penale, la commissione di alcun
reato): quindi, la condotta contestata al lavoratore non è riconducibile ad alcuna di quelle punite con la sanzione espulsiva dal CCNL.
5.1. Il quarto motivo di ricorso non è fondato.
5.2. C ome questa Corte ha affermato, l’attività di integrazione del precetto normativo di cui all’art. 2119 c.c. compiuta dal giudice di merito – mediante la valorizzazione o di principi che la stessa disposizione richiama o di fattori esterni relativi alla coscienza generale ovvero di criteri desumibili dall’ordinamento generale, a cominciare dai principi costituzionali ma anche dalla disciplina particolare, collettiva appunto, in cui si colloca la fattispecie -‘ è sindacabile in Cassazione a condizione, però, che la contestazione del giudizio valutativo operato in sede di merito non si limiti ad una censura generica e meramente contrappositiva, ma contenga, invece, una specifica denuncia di non coerenza del predetto giudizio rispetto agli standards, conformi ai valori dell’ordinamento, esistenti nella realtà sociale ‘ (cfr. Cass. n. 13534 del 2019; nello stesso senso, Cass. n. 985 del 2017; Cass. n. 5095 del 2011; Cass. n. 9266 del 2005), denuncia che non è stata in alcun modo esposta dal ricorrente.
5.3. Nel caso in esame, la Corte d’appello ha condotto la sua valutazione in conformità ai principi di diritto richiamati ed ha ancorato la gravità della condotta e la connessa proporzionalità della sanzione espulsiva ad una duplice caratteristica: l’essersi la condotta concretizzata nella violazione di norme poste a tutela del regolare e legale svolgimento di attività economiche, in particolare, in materia di aggiudicazione di appalti per pubblici servizi, per lo svolgimento di opere edili e la manutenzione delle strade provinciali di Reggio Calabria; il rilievo penale della condotta oggetto dell’accertamento penale, a seguito del quale sono stati emessi provvedimento (n. 1/2020) del Tribunale di
Reggio Calabria-Sezione Misure di prevenzione di amministrazione giudiziaria della società nonché comunicazione di conclusione delle indagini tenute dalla Procura della Repubblica presso il Tribunale di Reggio Calabria-Direzione distrettuale antimafia.
5.4 . La Corte territoriale ha, inoltre, rilevato che l’unica differenza tra la lettera di contestazione disciplinare e la lettera di licenziamento consiste nell’aggiunta (in questa ultima comunicazione) della interruzione del vincolo fiduciario, oltre al danno derivante alla società concernente il certificato antimafia, argomentazione (già sviluppata dalla sentenza adottata in sede di primo grado) che non è stata censurata dal ricorrente.
Con il quinto motivo di ricorso, si denunzia, ai sensi dell’art. 360 cod.proc.civ., primo comma, n. 3, violazione e/o falsa applicazione degli artt. 6, 14, 17 della CEDU nonché 2119 e 2697 c.c., 1 e 5 della legge n. 604 del 1966, 7 e 18 della legge n. 300 del 1970 avendo la Corte territoriale trascurato che gli amministratori giudiziari della società non hanno mai dato esecuzione al provvedimento di allontanamento per motivi di ordine pubblico disposto dal giudice delegato con il provvedimento del 12.10.2020 (successivo, di 3 mesi, all’intimazione del licenziamento disciplinare), mentre non sussiste alcun rapporto causale impeditivo tra gli effetti del licenziamento disciplinare e quelli del successivo provvedimento di allontanamento; in specie, il provvedimento di allontanamento adottato dal giudice delegato della prevenzione renderebbe definitivamente impossibile il ripristino del rapporto di lavoro in sede giudiziale.
6.1. Il quinto motivo di ricorso è inammissibile.
6.2. Difetta, nel caso di specie, la necessaria riferibilità delle censure alla motivazione della sentenza impugnata, in quanto la
Corte territoriale (al pari del Tribunale) ha ritenuto assorbito il profilo della dedotta incompatibilità del provvedimento di allontanamento (adottato dal giudice delegato della prevenzione) con il ripristino del rapporto di lavoro in sede giudiziale in c onsiderazione dell’accertata legittimità del licenziamento (intimato 3 mesi prima del provvedimento giudiziale): sul punto, nessuna censura è stata proposta; la statuizione -in considerazione del principio di economia processuale -è corretta, posto che il ripristino del rapporto di lavoro risulta, in concreto, impedito dall’accertata legittimità del provvedimento espulsivo adottato dal datore di lavoro, restando, pertanto, del tutto astratta e priva di alcun collegamento al caso di specie la trattazione delle ripercussioni di una pronuncia di illegittimità del licenziamento sul provvedimento di allontanamento adottato dal giudice delegato. 7. In conclusione, il ricorso va rigettato e le spese di lite seguono il criterio della soccombenza dettato dall’art. 91 c.p.c.
Sussistono le condizioni di cui all’art. 13, comma 1 quater, d.P.R.115 del 2002.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle spese del presente giudizio di legittimità che si liquidano in Euro 200,00 per esborsi, nonché in Euro 4.000,00 per compensi professionali, oltre spese generali al 15% ed accessori di legge. Ai sensi dell’art. 13, comma 1 quater del D.P.R. n. 115 del 2002, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma del comma 1-bis dello stesso articolo 13, ove dovuto.
Così deciso in Roma nella camera di consiglio del 9 aprile 2025.