Ordinanza di Cassazione Civile Sez. L Num. 17419 Anno 2025
Civile Ord. Sez. L Num. 17419 Anno 2025
Presidente: COGNOME
Relatore: COGNOME
Data pubblicazione: 28/06/2025
ORDINANZA
sul ricorso 10663-2024 proposto da:
RAGIONE_SOCIALE in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentata e difesa dagli avvocati NOME COGNOME, COGNOME;
– ricorrente –
contro
LI NOME COGNOME rappresentato e difeso dagli avvocati NOME COGNOME NOME COGNOME;
– controricorrente –
avverso la sentenza n. 1197/2023 della CORTE D’APPELLO di PALERMO, depositata il 19/02/2024 R.G.N. 23/2023; udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 15/04/2025 dalla Consigliera NOME COGNOME
Fatti di causa
1. La Corte d’appello di Palermo ha accolto l’appello di NOME COGNOME nei confronti della RAGIONE_SOCIALE e, in riforma
Oggetto
Licenziamento dirigente
R.G.N. 10663/2024
COGNOME
Rep.
Ud. 15/04/2025
CC
della sentenza di primo grado, ha dichiarato illegittimo il licenziamento per giusta causa intimato al dirigente COGNOME il 2 novembre 2018 ed ha condannato la società al pagamento dell’indennità sostitutiva del preavviso, oltre accessori di legge.
Avverso tale sentenza la RAGIONE_SOCIALE ha proposto ricorso per cassazione affidato a tre motivi. NOME COGNOME ha resistito con controricorso. Entrambe le parti hanno depositato memoria, ai sensi dell’art. 380 bis.1. c.p.c.
Il Collegio si è riservato di depositare l’ordinanza nei successivi sessanta giorni, ai sensi dell’art. 380 bis.1 c.p.c., come modificato dal d.lgs. n. 149 del 2022.
Ragioni della decisione
Con il primo motivo di ricorso è dedotta, ai sensi dell’art. 360, comma 1, n. 3 c.p.c., violazione o falsa applicazione dell’art. 7, comma 2, legge n. 300 del 1970, per avere la Corte territoriale errato nel giudicare intempestiva la contestazione disciplinare, senza tener conto delle complesse indagini svolte dalla società e della necessità di vincolare il decorso dei termini di contestazione alla effettiva conoscenza delle mancanze del direttore generale.
Con il secondo motivo è dedotta, ai sensi dell’art. 360, comma 1, n. 3 c.p.c., violazione o falsa applicazione degli artt. 2104, 2105, 1175, 1375, 2392, 2396 C.C., nonché dell’art. 35 dello Statuto societario e dell’art. 2119 c.c., per non avere la Cort e territoriale considerato il ruolo ricoperto dal direttore generale e, in base al disposto degli artt. 2392 e 2396 c.c., le effettive responsabilità del medesimo in azienda e per avere errato nel ritenere che quest’ultimo si limitasse ad eseguire le dispo sizioni e gli ordini impartiti da altri soggetti. Tale errato presupposto in fatto e in diritto ha condotto la Corte d’appello ad escludere la lesione del vincolo fiduciario alla base del rapporto di lavoro, ex
art. 2104 c.c. e l’integrazione della giusta causa del licenziamento ai sensi del disposto dell’art. 2119 c.c.
Con il terzo motivo di ricorso si imputa alla sentenza d’appello, ai sensi dell’art. 360, comma 1, n. 5 c.p.c., l’omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio, oggetto di discussione tra le parti, per avere la Corte territoriale omesso di considerare elementi documentali e fattuali espressamente oggetto di discussione tra le parti, che avrebbero condotto, ove congruamente valutati, ad una decisione opposta a quella adottata.
È preliminare in ordine logico lo scrutinio del secondo motivo di ricorso.
Sulla base di un ampio corredo istruttorio, la Corte d’appello ha accertato: che le decisioni in ordine alla gestione del personale sono state assunte, negli anni in contestazione, dal presidente della società cooperativa, signor NOME COGNOME in carica dal 2011 al novembre 2017, in base ai poteri conferitigli dallo statuto sociale e dalla procura speciale rilasciata il 21 marzo 2013 con atto notarile; che, secondo la gestione manageriale impressa dal citato presidente, le decisioni concernenti le assunzioni di personale dipendente, le variazioni del livello di inquadramento e il trattamento economico, divenute oggetto di contestazione disciplinare nei confronti del direttore generale NOME COGNOME sono state assunte dal citato presidente e condivise dal Consiglio di amministrazione in occasione della presentazione e approvazione del budget annuale e del progetto di bilancio; che nei mesi di giugno e novembre di ogni anno era presentato il budget annuale al Consiglio di amministrazione, comprendente non solo le voci di costo relative alle nuove assunzioni di personale ma anche quelle riguardanti le variazioni retributive dei dipendenti; che il Consiglio di amministrazione ha approvato
annualmente il progetto di bilancio, accompagnato dalla relazione del Collegio sindacale ove non sono mai stati esposti rilievi sulle scelte di gestione del personale dipendente; che tale incontestabile partecipazione dell’organo societario alle vicende gestionali oggetto di addebito non è smentita dalla modifica nella composizione del Consiglio di amministrazione, i cui singoli consiglieri sono rimasti sostanzialmente invariati durante tutto il periodo oggetto di indagine; che le assunzioni, le variazioni del livello di inquadramento o retributive comunicate dal COGNOME ai dipendenti non costituivano altro che esecuzione delle decisioni adottate dal Presidente della società e condivise dal Consiglio di amministrazione.
Sugli addebiti concernenti il rapporto con la società RAGIONE_SOCIALE e lo svolgimento di attività professionale privata da parte del Li Petri, la Corte d’appello ha evidenziato che non risulta dimostrata alcuna intromissione del direttore generale negli affari commerciali della RAGIONE_SOCIALE, affari gestiti dall’ufficio acquisti della Settesoli, e neppure risultano dimostrati concreti effetti pregiudizievoli derivati alla società datoriale dall’utilizzo della PEC aziendale da parte del Li Petri, con conseguente insussistenza del ventilato conflitto di interessi ed anche di qualsiasi violazione del vincolo fiduciario in relazione ai rapporti intrattenuti dal direttore generale con la citata RAGIONE_SOCIALE, comprensivi della tenuta delle scritture contabili di quest’ultima in qualità di commercialista; che lo svolgimento di attività professionale privata da parte del COGNOME era risalente nel tempo e ben noto alla società sin dalla costituzione del rapporto di lavoro e che la deduzione della COGNOME, di violazione dell’articolo 7 del contratto collettivo che richiede una preventiva autorizzazione, era inammissibile perché non
oggetto della contestazione disciplinare e peraltro dedotta tardivamente, solo nella memoria di costituzione in appello.
All’esito di una dettagliata analisi degli elementi di prova documentale e testimoniale, i giudici di appello hanno considerato insussistenti gli addebiti di cui ai punti da 1 a 9 della contestazione disciplinare e irrilevanti ai fini disciplinari i restanti addebiti, evidenziando anche il difetto di tempestività della contestazione.
Le censure ora mosse dalla società col secondo motivo di ricorso si rivelano inammissibili nella parte in cui deducono la violazione degli artt. 2392 e 2396 c.c. senza indicare e documentare in quali atti processuali e in che termini la questione ora sollevata sarebbe stata articolata nei precedenti gradi di merito, atteso che la sentenza non reca alcun cenno al riguardo (v. Cass. n. 23675 del 2013; n. 20703 del 2015; n. 18795 del 2015; n. 11166 del 2018; n. 20694 del 2018).
Le residue censure, nella parte in cui investono la ricostruzione in fatto sulle modalità di gestione, sui poteri del presidente e sulle concrete attività del Consiglio di amministrazione e del Collegio sindacale, sulla natura esecutiva del ruolo svolto dal direttore generale nella assunzione e promozione del personale, oltre che sui rapporti con la RAGIONE_SOCIALE e sull’attività professionale privata, sono inammissibili perché sollecitano una rivalutazione delle prove e una revisione del ragionamento decisorio precluse in questa sede di legittimità.
L’accertata sostanziale insussistenza delle condotte addebitate quale espressione di violazione dei doveri del dirigente e di malafede o conflitto di interessi esclude in radice la configurabilità di una giusta causa di recesso, pure considerata la particolare natura in cui essa si atteggia rispetto alla figura dirigenziale. Non vi è, di conseguenza, spazio alcuno per
ravvisare la violazione degli artt. 2014, 2015 e 2119 c.c. se non ripercorrendo, secondo la prospettiva adombrata dalla attuale ricorrente, il percorso valutativo di merito.
L’infondatezza del secondo motivo di ricorso e quindi la conferma di insussistenza, sotto il profilo oggettivo o soggettivo, degli addebiti disciplinari, porta a ritenere irrilevante il primo motivo di ricorso, risultando l’intempestività della contesta zione, pure accertata dalla Corte d’appello, elemento non essenziale ai fini della dichiarata illegittimità del licenziamento che si regge su una autonoma ratio decidendi.
Il terzo motivo di ricorso è inammissibile perché denuncia l’omesso esame di plurimi elementi istruttori, nessuno dei quali all’evidenza decisivo, risultando la censura estranea al perimento di cui all’art. 360 n. 5 c.p.c., come delineato dalle Sezioni Unite di questa Corte con le sentenze n. 8053 e n. 8054 del 2014).
Per le ragioni esposte il ricorso deve essere respinto. La regolazione delle spese del giudizio di legittimità segue il
criterio di soccombenza, con liquidazione come in dispositivo.
Il rigetto del ricorso costituisce presupposto processuale per il raddoppio del contributo unificato, ai sensi dell’art. 13, comma 1 quater, del d.P.R. n. 115 del 2002 (cfr. Cass. S.U. n. 4315 del 2020).
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso. Condanna la ricorrente alla rifusione delle spese del giudizio di legittimità che liquida in euro 5.500,00 per compensi professionali, euro 200,00 per esborsi, oltre spese forfettarie nella misura del 15% e accessori come per legge. Ai sensi dell’art. 13, co. 1 quater, dà atto della sussistenza dei il versamento da parte della presupposti processuali per ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato
pari a quello previsto per il ricorso a norma del comma 1 bis dello stesso art.13, se dovuto.
Così deciso nell’adunanza camerale del 15 aprile 2025