Ordinanza di Cassazione Civile Sez. L Num. 11746 Anno 2025
Civile Ord. Sez. L Num. 11746 Anno 2025
Presidente: COGNOME
Relatore: COGNOME NOME COGNOME
Data pubblicazione: 05/05/2025
ORDINANZA
sul ricorso 14972-2022 proposto da:
COGNOME elettivamente domiciliato in ROMA, INDIRIZZO presso lo studio dell’avvocato NOME COGNOME che lo rappresenta e difende unitamente agli avvocati NOME COGNOME NOME COGNOME;
– ricorrente –
contro
RAGIONE_SOCIALE in persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, INDIRIZZO presso lo studio dell’avvocato NOME COGNOME rappresentata e difesa dagli avvocati NOME COGNOME NOME COGNOME;
– controricorrente –
avverso la sentenza n. 15/2022 della CORTE D’APPELLO di ANCONA, depositata il 18/01/2022 R.G.N. 111/2021;
Oggetto
Licenziamento di dirigente
R.G.N. 14972/2022
COGNOME
Rep.
Ud. 03/12/2024
CC
udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 03/12/2024 dal Consigliere Dott. NOME COGNOME.
FATTI DI CAUSA
Con sentenza del 19.1.2021 il Tribunale di Ancona, in parziale accoglimento del ricorso proposto da COGNOME NOME, già dirigente della RAGIONE_SOCIALE, aveva condannato quest’ultima, convenuta dal lavoratore, a corrispondere in favore del Mond avi la somma complessiva di € 343.591,92, a titolo di indennità supplementare dirigenziale pari a 24 mesi, oltre interessi e rivalutazione come per legge.
Con la sentenza in epigrafe indicata, la Corte d’appello di Ancona rigettava l’appello principale proposto dal dirigente contro detta sentenza; accoglieva l’appello incidentale proposto dalla società contro la medesima sentenza e, in riforma della stessa, rigettava la domanda proposta in primo grado dal COGNOME.
Per quanto qui interessa, la Corte territoriale, nel ritenere fondato l’appello incidentale della società circa la legittimità del licenziamento, premetteva che la soluzione del caso di specie riposava sulla corretta interpretazione delle disposizioni del CCNL 25 novembre 2009 per i dirigenti delle Aziende Industriali, incontroversamente applicato al rapporto dedotto in causa, e prendeva in considerazione, quindi, la definizione dei dirigenti fornita dall’art. 1 del CCNL invocato, il successivo art. 3 ci rca il ‘Trattamento minimo complessivo di garanzia’, l’art. 19 in merito a quali condizioni il licenziamento possa qualificarsi ‘ingiustificato’, e il collegato art. 22, ai fini della corresponsione della indennità c.d. supplementare.
3.1. Svolta una serie di altre considerazioni, riteneva che alla luce di esse doveva essere letta la comunicazione del 4 gennaio 2019, in cui la società dava atto della soppressione del ruolo ricoperto dall’originario ricorrente, con tale espressione volendo evidentemente essa fare riferimento al significativo ridimensionamento del profilo della figura professionale, non smentito dai fatti.
3.2. Secondo la Corte di merito non poteva, quindi, definirsi pretestuosa l’esigenza della parte datoriale di mutare la fisionomia del proprio apparato dirigenziale, né era possibile sindacare l’intrinseca validità ed opportunità di tale mutamento.
Giudicava, pertanto, assorbiti i motivi dell’appello incidentale del lavoratore dirigente.
Avverso tale decisione COGNOME NOME ha proposto ricorso per cassazione, affidato a tre motivi.
L’intimata ha resistito con controricorso.
Il ricorrente ha depositato memoria.
MOTIVI DELLA DECISIONE
Con il primo motivo il ricorrente deduce: ‘Omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione fra le parti (art. 360, 1° comma, n. 5 c.p.c.) rappresentato dal contenuto della lettera di comunicazione dell’impugnato licenziamento’.
Con un secondo motivo denuncia: ‘Violazione e/o falsa applicazione dell’art. 112 c.p.c. (corrispondenza fra il chiesto e il pronunciato), dell’art. 24 della Costituzione della Repubblica Italiana (diritto di difesa) dell’art. 101 c.p.c. (principio del c ontraddittorio) e dell’art. 2697 c.c. (onere della prova), per
aver fondato la decisione su un principio non dedotto dalla resistente e basato su fatti in ordine ai quali il ricorrente non è stato chiamato a, né ha avuto la possibilità, di difendersi con la pretesa di accollargli un onere della prova che non gli compe te’.
Con un terzo motivo denuncia: ‘violazione e/o falsa applicazione degli artt. 22 e 19 del CCNL per i Dirigenti di Aziende Industriali nella parte in cui richiede che il licenziamento del dirigente sia assistito da giustificatezza, nell’accezione definita dalla giurisprudenza’.
Il primo motivo è inammissibile.
Secondo un ormai consolidato orientamento di questa Corte, l’omesso esame di un fatto decisivo deve riguardare un fatto, inteso nella sua accezione storico-fenomenica, principale (ossia costitutivo, impeditivo, estintivo o modificativo del diritto azionato) o secondario (cioè dedotto in funzione probatoria), la cui esistenza risulti dal testo della sentenza o dagli atti processuali e che abbia carattere decisivo (così ex plurimis Cass. n. 9483/2020).
Ebbene, come emerge chiaramente dallo svolgimento della censura in esame, il ricorrente non deduce l’omesso esame circa un fatto storico, principale o secondario, nel senso ora esposto.
Piuttosto, il ricorrente, riconoscendo -come già accennato in narrativa -che la Corte di merito aveva illustrato in che senso dovesse essere ‘letta la comunicazione del 4 gennaio 2019’, vale a dire, la nota datoriale con la quale il dirigente era stato licenziato, si duole del fatto che la Corte stessa si sarebbe lanciata ‘in una personale quanto inammissibile interpretazione della lettera di licenziamento e ne altera il contenuto, in verità
chiarissimo, allo scopo di renderlo coerente con il diverso principio’ dalla stessa, secondo il ricorrente, enunciato.
Dunque, il ricorrente nel primo motivo in realtà muove una critica nel merito all’interpretazione che la Corte distrettuale ha fornito di tale atto unilaterale della società datrice di lavoro.
E, secondo principi più volte enunciati da questa Corte (cfr., ad es., di recente nella motivazione Cass. n. 22436/2024), l’interpretazione degli atti negoziali e degli atti unilaterali implica un accertamento di fatto riservato al giudice di merito, che, come tale, può essere denunciato in sede di legittimità solo per violazione dei canoni legali di ermeneutica contrattuale (artt. 1362 e ss. cod. civ. in relazione all’art. 360 n. 3 c.p.c.) ovvero per vizio di motivazione (nei limiti del nuovo testo dell ‘art. 360 n. 5 c.p.c.), fermo l’onere per il ricorrente di indicare specificamente il modo in cui l’interpretazione data si discosti dai canoni di ermeneutica o la motivazione relativa risulti apparente; la censura in sede di legittimità non può limitarsi a prospettare una pur plausibile interpretazione alternativa degli atti richiamati.
Inoltre, sempre per un risalente indirizzo di legittimità, anche l’interpretazione dell’atto di licenziamento rientra tra gli accertamenti di fatto riservati al giudice del merito e non censurabili in sede di legittimità, se sostenuti da adeguata e corretta motivazione (cfr. Cass. n. 3522/1984, n. 5361/1983).
L’atto di licenziamento, infatti, indubbiamente è appunto atto unilaterale, rispetto al quale trovano applicazione i suesposti principi di diritto (cfr., tra le altre, Cass. n. 7973/2002), in particolare circa i canoni ermeneutici legali di
cui si può denunciare la violazione, per il tramite dell’art. 1324 c.c., nei modi innanzi pure specificati.
Nel motivo in esame, invece, il ricorrente, non denuncia un’anomalia motivazionale in proposito nei termini ancora consentiti in sede di legittimità, ma si duole nel merito dell’interpretazione data dalla Corte territoriale al contenuto della nota datoriale di licenziamento.
Anche da quest’ultimo punto di vista, tuttavia, lo stesso ricorrente non specifica quali canoni ermeneutici legali fossero da applicare nella specie e come la Corte di merito se ne sia discostata, limitandosi a prospettare quale sarebbe stato il contenuto di tale atto, a suo dire, chiaro (cfr. in particolare pag. 18 del ricorso).
Il secondo motivo è privo di fondamento, presentando profili d’inammissibilità.
Nota in tal senso il Collegio che in questa censura, che non è ricondotta dalla parte ad uno dei tassativi casi di cui all’art. 360, comma primo, c.p.c., il ricorrente deduce promiscuamente un error in procedendo (per violazione degli artt. 112 c.p.c., 24 Cost. e 101 c.p.c.), ma anche la violazione di una norma di diritto sostanziale (quale è l’art. 2697 c.c.).
Ciò rilevato, il nucleo di tali doglianze è costituito da un vizio di extrapetizione addebitato alla Corte d’appello ‘per avere fondato la decisione su un principio non dedotto dalla resistente e basato su fatti in ordine ai quali il ricorrente non è stato chiamato a, né ha avuto la possibilità di difendersi con la pretesa di accollargli un onere della prova che non gli compete’.
Le relative deduzioni del ricorrente devono essere disattese.
13.1. Secondo questa Corte, infatti, in tema di impugnazione, il giudice di appello incorre nel vizio di extrapetizione allorché pronunci oltre i limiti delle richieste e delle eccezioni fatte valere dalle parti, ovvero su questioni non dedotte e che non s iano rilevabili d’ufficio, attribuendo alle parti un bene della vita non richiesto o diverso da quello domandato. Non è precluso, invece, allo stesso giudice l’esercizio del potere -dovere di attribuire al rapporto controverso una qualificazione giuridica diversa da quella data in prime cure con riferimento alla individuazione della causa petendi , dovendosi riconoscere a detto giudice il poteredovere di definire l’esatta natura del rapporto dedotto in giudizio onde precisarne il contenuto e gli effetti, in relazione alle norme applicabili, con il solo limite di non esorbitare dalle richieste cont enute nell’atto di impugnazione e di non introdurre nuovi elementi di fatto nell’ambito delle questioni sottoposte al suo esame (così Cass., sez. II, 28.9.2022, n. 28181).
13.2. Ebbene, anche nel motivo di ricorso in esame non si considera anzitutto che la Corte territoriale era tenuta a pronunciarsi sul reclamo incidentale che investiva appunto la questione della legittimità del licenziamento del dirigente (cfr. tra la facc iata 2 e la facciata 3 dell’impugnata sentenza).
13.3. Come già accennato in narrativa, il punto di partenza del ragionamento decisorio della Corte è stato la considerazione di specifiche previsioni del CCNL Dirigenti aziende industriali, ritenuto pacificamente applicato al rapporto, e al quale, del
resto, faceva precipuo riferimento anche il lavoratore, allora reclamante principale (cfr. facciata 2 della stessa sentenza).
13.4. La Corte distrettuale – dopo aver considerato che, a mente dell’art. 22 di detto CCNL, il dirigente può chiedere la corresponsione dell’indennità supplementare, tra l’altro, ‘… ove non ritenga giustificata la motivazione addotta dall’azienda, …’ -in difetto di una definizione di giustificatezza contenuta in tale fonte collettiva, ha richiamato una serie di precedenti di questa Corte in tema appunto di giustificatezza del licenziamento del dirigente (v. in extenso facciate 3-5 della sua sentenza).
13.5. Dopo tali premesse su norme collettive e principi di diritto, ritenuti applicabili, la Corte ha anzitutto considerato che ‘gli esiti dell’istruttoria svolta in primo grado offrono sufficienti elementi per affermare che il recesso della Società convenuta dal rapporto di lavoro con il ricorrente risponda ad un’effettiva e non pretestuosa riorganizzazione di carattere strutturale che ha interessato l’impresa facente capo alla prima, come tale idonea a legittimare il cambio di dirigenza, anche attraverso l’assegnazione ad altri dei compiti già svolti dal ricorrente’, motivando tali valutazioni e l’ ‘accertamento di fatto’ operato (cfr. facciata 5).
Tra l’altro, ha considerato che ‘dai documenti e dal complesso degli elementi in atti emergono in tutta evidenza, né paiono seriamente contestate, l’effettività e la non pretestuosità dell’esigenza della Società convenuta, già reduce dall’attuazione di un piano di ristrutturazione aziendale, di adottare radicali modifiche degli assetti organizzativi, ispirate a criteri di maggiore economicità, anche attraverso l’affidamento di alcuni incarichi, già di competenza del ricorrente, all’amministratore delegato, e l’affiancamento a costui del
nuovo Dirigente (dr. COGNOME dal ridimensionato profilo, oltre che attraverso il cambio della politica di gestione del finanziamento e delle condizioni di contratto con i fornitori’.
13.6. La Corte, come si è visto nell’esaminare il primo motivo, si era anche pronunciata su come doveva essere ‘letta la comunicazione del 4 gennaio 2019’, ed ha pure considerato ‘la documentazione attestante l’offerta al ricorrente dell’opzione, da costui rifiutata, di ricollocarlo come Dirigente, alle medesime condizioni economiche, all’interno di altra Società del Gruppo facente capo alla RAGIONE_SOCIALE‘.
Dunque, dev’essere senz’altro escluso il vizio di extrapetizione sostenuto dal ricorrente; né può ritenersi offeso il diritto di difesa del lavoratore.
Inoltre, la Corte di merito non ha certamente posto ‘a fondamento della propria decisione una questione rilevata d’ufficio’, senza instaurare il contraddittorio a riguardo, nei termini delineati dall’art. 101, comma secondo, secondo periodo, c.p.c.
14.1. Infine, alcuna illegittima inversione dell’onere della prova, in violazione dell’art. 2697 c.c., è riscontrabile nell’impugnata sentenza, essendosi visto che essa si fonda sulla valutazione di fonti di prova (orale e documentale) indotte dalle parti.
15. E’ infine inammissibile il terzo motivo.
Secondo il ricorrente, ‘Il principio che scaturisce dalla impugnata sentenza è quello per il quale, dal momento che il dirigente percepisce normalmente uno stipendio generoso,
spesso incrementato attraverso bonus ed altre componenti variabili che danno il segno dello stretto vincolo che lega la sua attività alle strategie ed ai risultati dell’impresa, allora deve accettare anche il fatto che, nel momento in cui ‘non va più bene’ al datore di lavoro, possa essere licenziato e non solo, come è principio recetto, quando il suo incarico venga soppresso e le sue mansioni distribuite ad altri dipendenti o anche dirigenti esistenti in azienda ma anche, quando, più semplicemente, lo si voglia sostituire con altro dipendente, più ‘vicino’ alla nuova proprietà, per esempio, oppure facente parte del team del nuovo Amministratore Delegato’ (così a pag. 21 del ricorso).
16.1. Il ‘principio’, che il ricorrente così attribuisce alla Corte di merito, è, però, assolutamente estraneo all’effettiva ratio decidendi della stessa Corte, la quale, all’esito della disamina riassunta in narrativa e nello scrutinare i precedenti motivi di ricorso, ha piuttosto concluso che non poteva ‘definirsi pretestuosa l’esigenza della parte datoriale di mutare la fisionomia del proprio apparato dirigenziale, né in questa sede è possibile sindacare l’intrinseca validità ed opportunità di tale mutam ento’.
16.2. Del resto, la critica che muove il ricorrente al ragionamento decisorio della Corte territoriale in gran parte non si riferisce agli artt. 22 e 19 del CCNL applicato al rapporto (vale a dire, alle uniche norme collettive di cui è dedotta la violazione o falsa applicazione, da ricondurre al mezzo di cui all’art. 360, comma primo, n. 3), c.p.c.); piuttosto, s’incentra su una differente lettura di talune delle risultanze processuali (cfr. in particolare pagg. 21-22 del ricorso).
Il ricorrente, in quanto soccombente, dev’essere condannato al pagamento, in favore della controricorrente, delle spese di questo giudizio di legittimità, liquidate come in dispositivo, ed è tenuto al versamento di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello previsto per il ricorso, ove dovuto.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso. Condanna il ricorrente al pagamento, in favore della controricorrente, delle spese del giudizio di legittimità, che liquida in € 200,00 per esborsi ed € 8.000,00 per compensi professionali, oltre rimborso forfettario delle spese generali nella misura del 15%, IVA e CPA come per legge.
Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis, se dovuto.
Così dec iso in Roma nell’adunanza camerale del