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Licenziamento collettivo e potere di firma: il caso

Un lavoratore ha impugnato il suo licenziamento nell’ambito di una procedura di licenziamento collettivo, contestando sia il potere di rappresentanza del direttore che ha gestito la procedura, sia la legittimità dei criteri di scelta dei dipendenti. La Corte di Cassazione ha respinto il ricorso, confermando la validità del recesso. I giudici hanno stabilito che la valutazione del potere del rappresentante e della non fungibilità dei profili professionali sono apprezzamenti di fatto, correttamente motivati dalla corte di merito e non riesaminabili in sede di legittimità.

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Pubblicato il 7 dicembre 2025 in Diritto del Lavoro, Giurisprudenza Civile, Procedura Civile

Licenziamento collettivo: quando la firma del direttore è valida?

La gestione di un licenziamento collettivo è una delle procedure più delicate nel diritto del lavoro, carica di implicazioni sociali ed economiche. Una recente ordinanza della Corte di Cassazione ha offerto importanti chiarimenti su due aspetti cruciali: i poteri di rappresentanza di chi gestisce la procedura per l’azienda e la corretta individuazione dei lavoratori da licenziare. Analizziamo la decisione per capire i principi affermati dai giudici.

I fatti del caso

Una società operante in un terminal portuale avviava una procedura di licenziamento collettivo a causa di una riduzione del volume di lavoro. Al termine della procedura, un dipendente veniva licenziato. Quest’ultimo decideva di impugnare il licenziamento, ottenendo inizialmente una sentenza favorevole dal Tribunale. Tuttavia, la Corte d’Appello ribaltava la decisione, ritenendo il licenziamento legittimo.

Il lavoratore, non soddisfatto, ricorreva alla Corte di Cassazione, basando il suo appello su due motivi principali:
1. Carenza di potere del rappresentante aziendale: Sosteneva che il Direttore Generale, che aveva condotto le trattative sindacali e firmato gli atti, non avesse i poteri formali per rappresentare la società in tale procedura.
2. Errata applicazione dei criteri di scelta: Contestava la decisione dell’azienda di suddividere il personale in esubero in tre profili professionali distinti (“gruisti”, “carrellisti” e “operatori di mezzi bassi”), limitando così la platea di confronto. A suo avviso, le mansioni erano fungibili e si sarebbe dovuta creare un’unica graduatoria.

La gestione del licenziamento collettivo in Cassazione

La Suprema Corte ha esaminato entrambi i motivi di ricorso, dichiarandoli entrambi inammissibili e rigettando le pretese del lavoratore. Vediamo nel dettaglio il ragionamento seguito dai giudici.

Sulla rappresentanza aziendale

Riguardo al primo punto, la Cassazione ha sottolineato che la valutazione sulla sussistenza dei poteri di rappresentanza del Direttore Generale era un apprezzamento di merito, compiuto in modo approfondito dalla Corte d’Appello. Quest’ultima aveva basato la sua decisione su una serie di elementi concreti: le cariche ricoperte dal direttore, la sua firma congiunta con il Presidente sulla lettera di avvio della procedura, le previsioni dello statuto societario e persino una successiva ratifica formale dell’operato da parte del Consiglio di Amministrazione. Secondo la Cassazione, tentare di smontare questa ricostruzione fattuale in sede di legittimità è inammissibile, poiché il suo compito non è rivalutare le prove, ma verificare la corretta applicazione della legge.

Sulla suddivisione dei profili professionali

Anche il secondo motivo è stato giudicato inammissibile per ragioni simili. La Corte ha stabilito che la questione della fungibilità delle mansioni e la legittimità della suddivisione in diversi profili professionali sono valutazioni di fatto, di competenza esclusiva del giudice di merito. La Corte d’Appello aveva motivato la sua scelta evidenziando i diversi livelli di inquadramento contrattuale e la necessità di una specifica formazione per passare da un ruolo all’altro, concludendo che non vi era piena fungibilità. Il lavoratore, inoltre, non aveva dimostrato che l’inclusione in un’unica graduatoria gli avrebbe permesso di conservare il posto di lavoro.

Le motivazioni della Corte

La decisione della Corte di Cassazione si fonda su un principio cardine del processo di legittimità: il divieto di una nuova valutazione dei fatti. I giudici hanno chiarito che il ricorso per cassazione non è un “terzo grado” di giudizio dove si può ridiscutere l’intera vicenda. Il loro ruolo è limitato a controllare che la legge sia stata applicata correttamente e che la motivazione della sentenza impugnata sia logica e non contraddittoria.

Nel caso specifico, la Corte d’Appello aveva fornito una motivazione solida e basata su molteplici elementi probatori (plurime rationes decidendi) sia per affermare il potere del rappresentante aziendale, sia per giustificare la suddivisione del personale. Il ricorso del lavoratore, invece di contestare violazioni di legge, tentava di proporre una diversa interpretazione delle prove, attività preclusa in sede di legittimità. Inoltre, la Corte ha ribadito che la disciplina del falsus procurator (art. 1399 c.c.) e la possibilità di ratifica con effetto retroattivo si applicano anche agli atti unilaterali come il licenziamento, sanando eventuali difetti di rappresentanza originari.

Conclusioni

L’ordinanza conferma due principi fondamentali in materia di licenziamento collettivo. Primo, la prova del potere di rappresentanza di chi conduce la procedura per l’azienda non richiede necessariamente una procura scritta per ogni singolo atto, ma può emergere da un complesso di elementi fattuali che il giudice di merito ha il compito di valutare. Secondo, la scelta dell’azienda di limitare la platea dei lavoratori interessati a specifici profili professionali è legittima se basata su effettive ragioni tecnico-organizzative e su una reale non fungibilità delle mansioni. La contestazione di tali scelte da parte del lavoratore deve essere supportata da prove concrete, non potendo trasformare il giudizio di legittimità in una nuova analisi dei fatti.

Chi può rappresentare l’azienda in una procedura di licenziamento collettivo?
Non è sempre necessaria una procura scritta formale per ogni atto. La Corte ha stabilito che il potere di rappresentanza può essere dimostrato da un insieme di elementi, come le cariche ricoperte dal dirigente, le previsioni dello statuto, l’uso della carta intestata e la successiva ratifica dell’operato da parte dell’organo amministrativo. La valutazione di questi elementi spetta al giudice di merito.

È possibile sanare a posteriori gli atti di un licenziamento collettivo firmati da un rappresentante senza poteri?
Sì. La Corte ha confermato che la disciplina del cosiddetto falsus procurator (rappresentante senza poteri) si applica anche in questo contesto. L’azienda può ratificare, anche a posteriori, l’operato del suo rappresentante, rendendo gli atti validi ed efficaci sin dal momento in cui sono stati compiuti.

L’azienda può suddividere i lavoratori in diversi gruppi durante un licenziamento collettivo?
Sì, l’azienda può limitare la platea dei lavoratori da comparare a specifici profili o settori, ma solo se ci sono comprovate ragioni tecnico-organizzative e se le mansioni dei diversi gruppi non sono pienamente fungibili (cioè intercambiabili). Spetta al lavoratore che contesta tale suddivisione dimostrare la fungibilità e che un confronto più ampio gli avrebbe evitato il licenziamento.

La selezione delle sentenze e la raccolta delle massime di giurisprudenza è a cura di Carmine Paul Alexander TEDESCO, Avvocato a Milano, Pesaro e Benevento.

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