Sentenza di Cassazione Civile Sez. L Num. 25118 Anno 2025
Civile Sent. Sez. L Num. 25118 Anno 2025
Presidente: NOME COGNOME
Relatore: COGNOME NOME COGNOME
Data pubblicazione: 12/09/2025
Oggetto
Impresa soggetta a sequestro preventivo finalizzato a confisca ex art. 322 ter c.p. Recesso dal rapporto di lavoro
R.G.N. 19589/2024
COGNOME
Rep.
Ud. 02/07/2025
PU
SENTENZA
sul ricorso 19589-2024 proposto da: COGNOME, rappresentato e difeso dagli avvocati NOME COGNOME NOME COGNOME, NOME COGNOME; – ricorrente –
contro
RAGIONE_SOCIALE in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentata e difesa dall’avvocato NOME COGNOME
– controricorrente –
nonché contro
RAGIONE_SOCIALE (già RAGIONE_SOCIALE già RAGIONE_SOCIALE), in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentata e difesa dagli avvocati NOME COGNOME, NOME COGNOME;
– controricorrente –
avverso la sentenza n. 455/2024 della CORTE D’APPELLO di BOLOGNA, depositata il 16/07/2024 R.G.N. 32/2024; udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 02/07/2025 dal Consigliere Dott. NOME COGNOME udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. NOME COGNOME che ha concluso per il rigetto del ricorso; udito l’avvocato NOME COGNOME udito l’avvocato NOME COGNOME udito l’avvocato NOME COGNOME per delega avvocato
NOME COGNOME
FATTI DI CAUSA
Con la sentenza in epigrafe indicata la Corte d’appello di Bologna rigettava sia l’appello principale di COGNOME COGNOME che gli appelli incidentali della RAGIONE_SOCIALE e della RAGIONE_SOCIALE proposti contro la sentenza del Tribunale di Parma n. 478/2023, con la quale era stato respinto il ricorso per impugnativa del proprio licenziamento proposto da detto lavoratore nei confronti di entrambe le società.
Per quanto qui interessa, la Corte territoriale premetteva che il Tribunale aveva rigettato l’eccezione d’improcedibilità del ricorso non ritenendo che la domanda del ricorrente di impugnativa del licenziamento potesse rientrare nell’ambito dell’art. 52 , comma 1, d.lgs. n. 159/2011, ma aveva giudicato infondata detta domanda, richiamando la giurisprudenza di questa Corte che aveva considera to applicabile l’art. 56 d.lgs. n. 159/2011 anche ai contratti di lavoro e ritenuto tale disciplina speciale prevalente sulla normativa ordinaria in materia di licenziamento.
La Corte, dopo aver disatteso gli appelli incidentali, giudicava infondate le censure dell’appellante principale in relazione all’acquisizione documentale disposta dalla stessa Corte, e riteneva infondati i motivi dell’appello del lavoratore.
Avverso tale decisione COGNOME NOME ha proposto ricorso per cassazione affidato a nove motivi.
Resistono le due società intimate con distinti controricorsi.
Il P.M. in requisitoria scritta ha concluso per il rigetto del ricorso; il ricorrente e la RAGIONE_SOCIALE hanno depositato memoria, tanto in vista dell’adunanza camerale del 25.2.2025 .
All’esito di quest’ultima è stata fissata pubblica udienza e il P.M., il ricorrente per cassazione e la ST hanno depositato ulteriori memorie.
RAGIONI DELLA DECISIONE
Con il primo motivo il ricorrente deduce ‘Nullità della sentenza, pronunciata in violazione dell’art. 132 c.p.c., per omessa o solo apparente motivazione in ordine al dedotto contrasto con gli artt. 410, 421 e 434 c.p.c. dell’ordinanza collegiale del 4.4.2024, invece confermata (art. 360 cpv. c.p.c. n. 5)’. Assume che egli ‘già nel ricorso di primo grado, ha rilevato che numerose e davvero rilevanti circostanze sono state affermate dalle convenute confusamente e senza offrirne valida prova. Tanto che la Corte d’Appello (evidentemente, condividendo i rilievi del ricorrente), con ordinanza in data 4.4.2024, ha disposto la acquisizione di numerosi documenti.
Nel fare ciò, però, ha violato le norme sopra richiamate, non considerando le decadenze verificatesi. Per questo motivo il ricorrente si è fermamente opposto all’acquisizione documentale e ha chiesto la revoca dell’ordinanza. Ciò nonostante le argomentazio ni svolte dall’ing. Nobili a sostegno di questa richiesta, sono state del tutto ignorate nella sentenza impugnata e, dunque, la decisione di non revocare l’ordinanza 4.4.2024 è rimasta del tutto sfornita di adeguata motivazione’.
Con un secondo motivo denuncia ‘Violazione dell’art. 112 c.p.c. e conseguente nullità della sentenza per essersi la stessa pronunciata ultra petita (art. 360 c.p.c. n. 4)’. Lamenta che ‘Nella sentenza impugnata, in più occasioni, viene affermata la ‘correttezza e buona fede’ che avrebbe guidato il comportamento delle convenute pur se in dipendenza di questo, alcuna domanda era stata proposta dall’ing . COGNOME; sicché la Corte d’Appello di Bologna è andata ultra petita in violazione dell’art. 112 c.p.c.’.
Con un terzo motivo denuncia: ‘In caso diverso, nullità della sentenza per violazione dell’art. 132 c.p.c. derivante dall’omessa o solo apparente motivazione in ordine alla esistenza, tempestività e giustificatezza della pretesa proroga del termine di s ei mesi fissato dall’art. 56 CAM in relazione solo alla meramente asserita complessità dell’incarico e alla pure essa indimostrata valutazione positiva del comportamento tenuto dalla convenuta e dal giudice (art. 360 cpv. n. 4 c.p.c.)’. Deduce che: ‘L’art. 56 del d.lgs. n. 159/2011 stabilisce che l’Amministratore Giudiziario, entro il termine di sei mesi dalla sua immissione nel possesso della società, ha l’onere di dichiarare se intende proseguire o risolvere i contratti di cui la società sia parte. L’ing. COGNOME da anni dipendente a tempo
indeterminato di ST, ha eccepito la avvenuta violazione di questo termine in relazione al suo contratto di lavoro subordinato (con tutte le conseguenze che ne derivano). La Corte d’Appello di Bologna non ha condiviso le argomentazioni del ricorrente, dando invece rilievo ad una serie di circostanze fattuali genericamente affermate e pretesamente idonee a giustificare il ritardo nell’assunzione del provvedimento espulsivo. Epperò questi fatti vengono affermati del tutto apoditticamente, mancando totalmente s ia l’indicazione delle prove acquisite al proposito, sia la spiegazione del perché avrebbero legittimato la violazione del termine predetto’.
Con il quarto motivo denuncia ‘Violazione di norme di diritto (artt. 35, 41 e 56 del d.lgs. n. 159/2011, art. 3 L. n. 604/1966, art. 18 L. n. 300/1970 e norme connesse); art. 360, n. 3, c.p.c.’. Deduce che: ‘La sentenza impugnata sostiene che l’art. 56 del d.lgs. n. 159/2011 prevarrebbe su tutte le altre norme e dunque, per quanto qui rileva, permetterebbe di non applicare tutte le regole in materia di risoluzione del contratto di lavoro, dicendo dunque legittimo il licenziamento irrogato all’ing. COGNOME pur mancando totalmente, nella lettera di licenziamento, la specificazione dei motivi che lo hanno determinato. Tanto ha fatto nonostante la contrarietà di simile interpretazione, oltre che alla ratio legis , all’art. 41, comma 4, dello stesso d.lgs. n. 159/2011, il quale stabilisce che i rapporti giuridici connessi all’amministrazione dell’azienda sono regolati dalle norme del codice civile (includendo, implicitamente, anche tutta la normativa in materia di lavoro subordinato)’.
Con il quinto motivo denuncia ‘Violazione dell’art. 56 d.lgs. n. 159/2011 (art. 360, 2° comma, n. 3, c.p.c.)’. Sostiene che: ‘La Corte d’Appello ha affermato che il termine di sei mesi
previsto dall’art. 56 del d.lgs. n. 159/2011 non sarebbe perentorio, ma meramente acceleratorio. Una simile conclusione, però, contravviene a tutte le regole fissate in materia di interpretazione delle leggi ed è contraria alla ratio legis ‘.
Con un sesto motivo denuncia ‘Violazione e falsa applicazione di norme di legge: art. 1 e art. 2, c. 2, L. n. 604/1966, come modificato dall’art. 1 L. n. 92/2012; artt. 1362 e segg. c.c. (art. 360, 2° c., n. 3 c.p.c.)’. Rileva che: ‘La sentenza impugnata ha affermato che, ai fini della specificazione dei motivi del licenziamento imposta dall’art. 2, comma 2, L. n. 604/1966 (come modificato dall’art. 1 L. n. 92/2012), sarebbe sufficiente il mero richiamo operato dalla lettera di licenziamento inviata all’ ing. Nobili alla procedura di amministrazione giudiziaria in corso, al decreto del Tribunale (in essa bensì citato, ma noti mai trasmesso) e all’art. 56 del D.lgs. n. 159/2011′; secondo il ricorrente ‘la tesi, però, è palesemente contraria a quanto voluto dall’art. 2, c. 2, L. n. 604/1966, il cui obiettivo è garantire che il destinatario della lettera di licenziamento sia posto subito nella condizione di intendere i motivi dello stesso’.
Con un settimo motivo denuncia ‘Violazione di norme di legge (art. 2087 c.c.; artt. 1 e 3 L. n. 604/1966; art. 41 e 56 del d.lgs. n. 159/2011 e norme connesse): art. 360 n. 3 c.p.c.’. Deduce che: ‘La Corte d’Appello di Bologna, sul presupposto per cui a l licenziamento dell’ing. COGNOME si applicherebbe non già la disciplina ordinaria ma esclusivamente l’art. 56 del d.lgs. n. 159/2011, ha concluso nel senso che alcun obbligo di repechage gravava sulle società convenute. Al contrario: applicandosi integralmente la normativa in materia di licenziamento, tale
obbligo risulta violato; altrettanto è a dirsi per l’art. 2087 c.c., con tutte le conseguenze che da ciò derivano’.
Con l’ottavo motivo denuncia ‘Violazione di norme di legge (art. 2112 c.c., art. 1343, 1344 e 1418 c.c.): art. 360 n. 3 c.p.c.’. Sostiene che: ‘Nei loro atti difensivi le convenute hanno riconosciuto che il licenziamento dell’ing. COGNOME è correlato alla cessione del ramo di azienda da RAGIONE_SOCIALE (già RAGIONE_SOCIALE, già RAGIONE_SOCIALE) a RAGIONE_SOCIALE; da ciò non può non derivare che l’atto espulsivo è stato posto in essere in palese violazione dell’art. 2112 c.c. ed è quindi nullo . Tuttavia, la Corte d’Appello di Bologna, nuovamente e irrazionalmente, ha affermato che l’art. 56 del d.lgs. n. 159/2011 consentirebbe di derogare anche alle regole di cui all’art. 2112 c.c.’.
Con il nono motivo denuncia ‘Violazione dell’art. 56 CAM e dell’art. 41 della Carta dei diritti fondamentali dell’UE (art. 360 cpv., n. 3, c.p.c.); in altra ipotesi: nullità della sentenza per violazione dell’art. 132 c.p.c. (art. 360 cpc., n. 4, c.p.c.)’. Assume di aver ‘altresì rilevato come il licenziamento irrogatogli dall’amministratore giudiziario, si ponga in aperto contrasto con l’art. 41 della Carta dei diritti fondamentali dell’UE, che, nel garantire la ‘buona amministrazione’ prevede il diritt o di ciascuno ad essere ascoltato prima che nei suoi confronti venga adottata una decisione e l’obbligo per l’amministrazione di motivare le sue decisioni. La Corte d’Appello di Bologna a torto ha ritenuto che tale principio non si applicherebbe al caso de quo in quanto riguardante i soli provvedimenti amministrativi (mentre, invece, l’amministratore Giudiziario avrebbe agito iure privatorum ). La risposta contraria era però imposta dal fatto che l’Amministratore Giudiziario ha agito come un soggetto pubblico
e in ogni caso dal fatto che alle regole fissate dall’art. 41 va attribuita valenza generale. Da qui la nullità della sentenza. In altra ipotesi, la sentenza è nulla per essere solo apparentemente motivata’.
Il primo motivo, che presenta profili d’inammissibilità, è comunque infondato.
E’ noto che la riformulazione dell’art. 360, primo comma, n. 5), c.p.c. deve essere interpretata, alla luce dei canoni ermeneutici dettati dall’art. 12 delle preleggi, come riduzione al minimo costituzionale del sindacato di legittimità sulla motivazione. Pertanto, è denunciabile in cassazione solo l’anomalia motivazionale che si tramuta in violazione di legge costituzionalmente rilevante, in quanto si riferisce all’esistenza della motivazione in sé, purché il vizio risulti dal testo della sentenza impugnata, a prescindere dal confronto con le risultanze processuali. Anomalia che si esaurisce nella mancanza assoluta di motivi sotto l’aspetto materiale e grafico, nella motivazione apparente, nel contrasto tra affermazioni inconciliabili e nella motivazione perplessa ed obiettivamente incomprensibile, esclusa qualunque rilevanza del semplice difetto di sufficienza della motivazione (così, ex plurimis , Cass., sez. un., 21.12.2022, n. 37406).
Ebbene, anzitutto la censura difetta di autosufficienza, perché il ricorrente non trascrive in ricorso le precise deduzioni in base alle quali aveva censurato l’ordinanza della Corte territoriale resa il 4.4.2024 dopo la sua emissione.
In ogni caso, l’anomalia motivazionale denunciata non sussiste assolutamente perché in sentenza la motivazione resa
a riguardo dalla Corte, non solo è graficamente presente, ma non è certamente apparente.
13.1. In particolare, la Corte aveva osservato ‘che le censure dell’appellante in relazione all’acquisizione documentale disposta dalla Corte d’appello sono infondate in quanto trattandosi di atti del procedimento penale, soprattutto in primo grado, poteva esserci il problema della loro ostensibilità, e, del resto, nonostante l’acquisizione disposta, parte degli stessi è stata omissata. Inoltre si tratta, pur sempre, di documenti acquisibili ex art. 213 cpc e ex art. 437 cpc con la conseguenza che non si potrebbe, comunque, ritenere che siano maturate in relazione agli stessi delle decadenze.
Peraltro il documento n. 11 di parte appellante dimostra la difficoltà di acquisizione della documentazione e, tenuto conto delle motivazioni del rigetto dell’istanza, conferma che il giudice aveva proceduto ad autorizzare il licenziamento con provvedimento in data 9 dicembre 2020 il cui contenuto è indicato nella lettera di licenziamento’.
13.2. Ebbene, la massima parte delle considerazioni svolte dal ricorrente nello svolgimento della censura in esame è estranea al piano della denunciata anomalia motivazionale negli stretti limiti in cui ora la stessa può essere fatta valere in sede di legittimità, ma costituisce una critica delle considerazioni svolte dai giudici di secondo grado.
Il secondo motivo è privo di qualsiasi di fondamento.
Rilevato preliminarmente che, diversamente rispetto alla su riportata sintesi di questa censura proposta dallo stesso ricorrente (a pag. 3 del ricorso), nella quale si asserisce che:
‘Nella sentenza impugnata, in più occasioni, viene affermata la ‘correttezza e buona fede’ che avrebbe guidato il comportamento delle convenute’, nello svolgimento della stessa censura (alle pagg. 21-22 del ricorso) ci si duole in realtà del solo passaggio motivazionale, nel quale la Corte aveva considerato che: ‘Il termine di sei mesi indicato dall’art. 56 d.lgs. n. 159/2011 non è, quindi, termine di decadenza, ma ha valore acceleratorio e può, se del caso, essere valorizzato sia per valutare il comportame nto tenuto dall’amministratore giudiziario nei confronti dei terzi sia conforme a buona fede e correttezza sia dal giudice delegato per decidere in ordine all’autorizzazione’.
15.1. Ebbene, premesso che tali considerazioni fanno parte della motivazione resa dalla Corte territoriale per disattendere il primo motivo d’appello (con il quale il lavoratore ‘sosteneva che sulla base del combinato disposto degli artt. 56 e 41 del d.lgs . n. 159/2011 si dovesse ritenere che l’amministratore giudiziario potesse recedere solo entro 6 mesi da quando era stato immesso nel possesso dell’azienda e che il licenziamento dello stesso era avvenuto ben oltre tale termine, e, cioè, quando non poteva più essere adottato’: cfr. pag. 5 dell’impugnata sentenza), esse non contengono assolutamente un’affermazione di ‘correttezza e buona fede’ delle società convenute.
Si tratta, piuttosto, di osservazioni volte a spiegare la natura acceleratoria del termine semestrale stabilito dall’art. 56 d.lgs. n. 159/2011 (al comma 1) e in tale chiave tese a sostenere che esso, in generale e non in ordine alla fattispecie concreta, poteva, ‘se del caso, essere valorizzato sia per valutare se il comportamento tenuto dall’amministratore
giudiziario nei confronti dei terzi sia conforme a buona fede e correttezza sia dal giudice per decidere in ordine all’autorizzazione’.
Va, perciò, escluso qualsivoglia vizio di ultrapetizione in argomentazioni volte a dare risposta sul terreno giuridico ad uno specifico motivo d’impugnazione dell’attuale ricorrente, quale appellante.
L’esame congiunto di tutti gli ulteriori motivi di ricorso, tra loro connessi, rende opportune le seguenti considerazioni.
E’ pacifico, oltre che documentato, che la società da cui dipendeva il Nobili, ossia, la RAGIONE_SOCIALE.c.p.aRAGIONE_SOCIALE (poi RAGIONE_SOCIALE), era stata attinta, non da sequestro (o da confisca) di prevenzione, bensì da sequestro preventivo ex art. 321, comma 2, c.p.p., funzionale alla confisca diretta o per equivalente ex art. 322 ter c.p., sicché trovava applicazione l’art. 104 -bis disp. att. c.p.p., che rimanda alle previsioni apposite di cui al d.lgs. n. 159/2011, tra le quali quelle discusse in causa dalle parti.
18.1. Ebbene, l’art. 56 d.lgs. n. 159/2011 (recante il ‘Codice delle leggi antimafia e delle misure di prevenzione’), nel testo modificato dalla legge n. 161/2017 e applicabile ratione temporis , recita nei commi che rilevano in causa:
‘1. Se al momento dell’esecuzione del sequestro un contratto relativo all’azienda sequestrata o stipulato dal proposto in relazione al bene in stato di sequestro deve essere in tutto o in parte ancora eseguito, l’esecuzione del contratto rimane sospesa fin o a quando l’amministratore giudiziario, previa autorizzazione del giudice delegato, dichiara di subentrare nel contratto in luogo del proposto, assumendo tutti
i relativi obblighi, ovvero di risolvere il contratto, salvo che, nei contratti ad effetti reali, sia già avvenuto il trasferimento del diritto. La dichiarazione dell’amministratore giudiziario deve essere resa nei termini e nelle forme di cui all’articolo 41, commi 1-bis e 1ter, e, in ogni caso, entro sei mesi dall’immissione nel possesso.
Il contraente può mettere in mora l’amministratore giudiziario, facendosi assegnare dal giudice delegato un termine non superiore a sessanta giorni, decorso il quale il contratto si intende risolto.
Se dalla sospensione di cui al comma 1 può derivare un danno grave al bene o all’azienda, il giudice delegato autorizza, entro trenta giorni dall’esecuzione del sequestro, la provvisoria esecuzione dei rapporti pendenti. L’autorizzazione perde efficacia a seguito della dichiarazione prevista dal comma 1.
La risoluzione del contratto in forza di provvedimento del giudice delegato fa salvo il diritto al risarcimento del danno nei soli confronti del proposto e il contraente ha diritto di far valere nel passivo il credito conseguente al mancato adempimento secondo le disposizioni previste al capo II del presente titolo.
5. (omissis) ‘.
18.2. E questa Corte, con sent. 2.8.2024, n. 21917, di recente è nuovamente intervenuta sull’interpretazione della disciplina dettata dal d.lgs. n. 159 del 2011 che rileva in causa (cfr. anzitutto i §§ 22-24 della decisione ora cit.).
18.3. Per quanto qui interessa, circa la natura dell’atto risolutivo previsto in essa, è stato inoltre considerato che: .
18.4. Sempre in Cass. n. 21917/2024 sono state considerate anche le disposizioni contenute nei commi 1, 1 bis e 1 ter dell’art. 41 d.lgs. n. 159/2011.
In particolare, è stato rilevato che esse .
18.4. Ai precedenti di questa Corte richiamati nella motivazione di Cass. n. 21917/2024, si devono aggiungere Cass. n. 21166/2018 (la quale, in caso di licenziamento di lavoratore dipendente di un’azienda sottoposta a sequestro di prevenzione, dovuto alla sua collusione con il prevenuto, aveva ribadito la sola necessità dell’obbligo di adeguata motivazione dell’atto di risoluzione del rapporto) e Cass. n. 32404/2018 (per la quale la decisione sulla prosecuzione di tali rapporti può tenere conto degli eventuali collegamenti del dipendente con il contesto illecito nel quale operava l’azienda prima della misura).
18.5. Occorre, inoltre, porre in luce che la sent. n. 14467/2015 di questa Corte, all’origine dell’indirizzo di legittimità sin qui illustrato, aveva ritenuto che l’organo della procedura non è tenuto ‘ad esporre analiticamente e dettagliatamente tutti gli elementi di fatto e di diritto posti a base del recesso’.
Ebbene, ritiene il Collegio che la sentenza impugnata risulti conforme a tutti i principi di diritto sin qui esposti.
In particolare, il terzo motivo riguarda la medesima questione del termine semestrale ex art. 56, comma primo, d.lgs. n. 159/2011, deducendosi, però, in proposito una motivazione omessa o solo apparente.
Per disattendere tale censura allora è sufficiente, sulla base dei principi di diritto richiamati in precedenza sub § 11, rilevare che la Corte territoriale ha senz’altro diffusamente argomentato a riguardo (v. tra la pag. 10 e quella 11 della sua sentenza).
Di tanto è indiretta, ma chiara conferma il quinto motivo, che parimenti riguarda la medesima questione, ma critica nel merito giuridico la soluzione adottata dalla Corte distrettuale in base a ragioni senz’altro esposte.
Ebbene, detto quinto motivo è privo di fondamento.
In particolare, condivisibilmente la Corte territoriale ha osservato che il termine semestrale dall’immissione nel possesso previsto dall’art. 56, primo comma, ult. periodo, d.lgs. n. 159/2011, ‘non è indicato espressamente dalla norma come termine di decadenza’, e che non ‘vi sono elementi decisivi nella suddetta normativa, compresa la sua interpretazione sistematica e la sua ratio per poter ritenere che si tratti di termine di decadenza, istituto che è, peraltro, di stretta interpretazione’.
Invero, una natura perentoria del termine entro il quale l’amministrazione giudiziaria deve rendere la dichiarazione in questione, di subentro in un determinato contratto (anche di lavoro) oppure di risoluzione dello stesso, non può trarsi soltanto dall’uso della locuzione ‘in ogni caso’, in assenza di
qualsiasi conseguenza che sia fatta discendere nella stessa previsione o in altre dal superamento anche di tale termine.
Soggiunge il Collegio che sempre in Cass. n. 21917/2024 cit. si è ritenuta .
Nel caso in esame, invece, la Corte di merito non ha assolutamente constatato che la dichiarazione di risoluzione dipendesse da ragioni di ordine pubblico, legate segnatamente ai rapporti del lavoratore con le persone soggette alle indagini del procedimento penale in cui era stato emanato il provvedimento di sequestro preventivo che aveva attinto la RAGIONE_SOCIALE (la massima parte dei precedenti di legittimità sopra richiamati, compresa Cass. n. 21917/2024 cit., riguardava casi di lavoratori indicati come in rapporti di collusione o di collegamento con le persone proposte per le misure di prevenzione).
Piuttosto, in base alle acquisizioni documentali, la Corte ha, invece, considerato che, a seguito di un’istanza dell’amministrazione giudiziario, giudicata ‘completa ed esaustiva’, rivolta al giudice procedente, il licenziamento del lavoratore, autorizzato da detto giudice, rientrava ‘nelle scelte operate dall’amministratore giudiziario per la gestione dell’azienda’, e non per ragioni di ordine pubblico del genere sopra visto; ragioni cui, secondo l’accertamento dei giudici dei
giudici del doppio grado di merito, nella nota di risoluzione del rapporto non si faceva il benché minimo cenno (cfr. tra la pag. 11 e la pag. 12 dell’impugnata sentenza).
In base ai principi di diritto espressi nelle decisioni di questa Suprema Corte in precedenza richiamati risultano privi di fondamento il quarto, il sesto ed il settimo motivo di ricorso.
In particolare, la Corte d’appello correttamente ha condiviso la motivazione del primo giudice, il quale aveva considerato che nella lettera di recesso il richiamo alla procedura ed al decreto del Tribunale, oltre che il rimando al disposto dell’art. 56 d.lgs. n. 159/2011, fosse senz’altro sufficiente ai fini della specificazione dei motivi del licenziamento, riportando una serie di pertinenti precedenti di legittimità in proposito (cfr. pagg. 11-13).
Essendo inapplicabili nella specie i principi e le norme che regolano, in via generale, il licenziamento per giusta causa o giustificato motivo, condivisibilmente i giudici di secondo grado avevano respinto anche il quinto motivo d’appello, relativo al la dedotta violazione dell’obbligo di repechage , nonché il sesto motivo con il quale si assumeva che il licenziamento fosse stato intimato in violazione degli obblighi di sicurezza gravanti sulla società.
E’ inammissibile l’ottavo motivo di ricorso, con il quale è censurata la parte di motivazione nella quale la Corte di merito aveva giudicato infondato ‘il settimo motivo d’appello relativo ad una deviazione causale degli scopi del licenziamento per essersi asseritamente fatta carico la RAGIONE_SOCIALE in violazione dell’art. 2112 c.c. di scelte della società RAGIONE_SOCIALE
La non chiara tesi di una ‘deviazione causale’ del comportamento dell’amministratore giudiziario (secondo il ricorrente, ‘non rilevata dal giudice delegato’) è riproposta in questa sede di legittimità essenzialmente sulla base di taluni passaggi di una memoria difensiva di Steel Tech e sull’assunto che non sarebbe stato dimostrato ‘che effettivamente l’ing. COGNOME abbia ricevuto un simile incarico, che possedesse i relativi titoli, che abbia davvero svolto tale funzione’, ossia, quella già svolta dal Nobili (cfr. pagg. 33-34 del ricorso).
In definitiva, la censura s’incentra su una valutazione di determinate risultanze processuali, non corrispondente all’accertamento fattuale operato dai giudici di merito, e che, quindi, non può trovare ingresso in questa sede di legittimità.
33. E’ infine infondato il nono motivo di ricorso.
Condivisibilmente, difatti, la Corte distrettuale, nel respingere il secondo motivo d’appello del lavoratore, aveva concluso che l’art. 41 della Carta dei diritti fondamentali della UE, sotto la rubrica ‘Diritto ad una buona amministrazione’, ‘si riferisce ad altro ambito di applicazione e cioè alla buona amministrazione e ai provvedimenti amministrativi, mentre nel caso di specie vengono in rilievo rapporti di diritto privato su cui si innesta per motivi pubblicistici una disciplina di carattere penale ‘.
Invero, la dichiarazione di risoluzione del rapporto lavorativo promanava nella specie dal legale rappresentante pro tempore della società attinta dal sequestro preventivo, a seguito di apposito provvedimento autorizzativo del G.I.P. del Tribunale di Parma, vale a dire, di un giudice penale, sulla base di quanto richiesto dall’ amministratore giudiziario, e, cioè, da organo
ausiliare di detto giudice procedente e dallo stesso nominato, in base a normativa apposita del d.lgs. n. 159/2011 che, come in precedenza premesso, trovava applicazione al subprocedimento di sequestro preventivo adottato nel corso di un procedimento penale.
Si tratta, quindi, di atti che sul piano oggettivo e soggettivo, nonché del rapporto tra privati su cui andavano ad incidere, si pongono completamente al di fuori dell’ambito della pubblica amministrazione e non costituiscono atti amministrativi, rispetto ai quali possano trovare applicazione i principi fissati dall’art. 41 della Cart a dei diritti fondamentali dell’UE.
Ricorrono gravi ed eccezionali ragioni, analoghe a quelle previste dall’art. 92, comma secondo, c.p.c. novellato (come risultante a seguito della sent. della Corte costituzionale n. 77/2018), per compensare integralmente tra le parti le spese del giudizio di cassazione, tenendo conto dell’ evidente complessità delle varie questioni trattate, talune delle quali nuove almeno in parte, come segnatamente la questione, di rilievo nomofilattico, della natura (perentoria o meno) del termine semestrale di cui all’art. 56 , comma primo, ult. periodo, d.lgs. n. 159/2011 in relazione a fattispecie, quale quella in esame, in cui il recesso non è legato a ragioni di ordine pubblico. Nondimeno il ricorrente è tenuto al versamento di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello previsto per il ricorso, ove dovuto.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso. Compensa interamente tra le parti le spese del giudizio di legittimità.
Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis, se dovuto.
Così deciso in Roma nella camera di consiglio camerale del 3 luglio 2025.
Il Consigliere estensore NOME COGNOME
La Presidente
NOME COGNOME