Sentenza di Cassazione Civile Sez. L Num. 21917 Anno 2024
Civile Sent. Sez. L Num. 21917 Anno 2024
Presidente: COGNOME
Relatore: COGNOME
Data pubblicazione: 02/08/2024
SENTENZA
sul ricorso 21126-2021 proposto da:
COGNOME NOME, elettivamente domiciliata in ROMA, INDIRIZZO, presso lo studio dell’AVV_NOTAIO NOME COGNOME, che la rappresenta e difende unitamente all’AVV_NOTAIO NOME COGNOME;
– ricorrente –
contro
RAGIONE_SOCIALE, in persona dell’Amministratore Giudiziario pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMAINDIRIZZO INDIRIZZO, presso lo studio dell’AVV_NOTAIO NOME COGNOME, che la rappresenta e difende;
– controricorrente –
avverso la sentenza n. 2382/2021 della CORTE D’APPELLO di ROMA, depositata il 07/06/2021 R.G.N. 253/2021; udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 25/06/2024 dalla Consigliera NOME COGNOME;
Oggetto
R.G.N. 21126/2021
COGNOME.
Rep.
Ud. 25/06/2024
Rep.
Ud. 25/06/2024
PU
udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale AVV_NOTAIO NOME COGNOME, che ha concluso per il rigetto del ricorso; udito l’AVV_NOTAIO NOME COGNOME; udito l’AVV_NOTAIO NOME COGNOME.
Fatti di causa
La Corte d’appello di Roma ha respinto il reclamo di NOME COGNOME, confermando la sentenza di primo grado che, al pari dell’ordinanza emessa all’esito della fase sommaria, aveva rigettato la domanda volta alla declaratoria di illegittimità del licenziamento intimatole il 10 gennaio 2018 dalla RAGIONE_SOCIALE in amministrazione giudiziaria.
La Corte territoriale ha ritenuto che il tribunale avesse legittimamente esercitato i poteri officiosi per acquisire il provvedimento del giudice delegato di autorizzazione al recesso dal rapporto di lavoro con la RAGIONE_SOCIALE.
Ha esaminato le residue censure della appellante in ordine: a) alla assenza del citato provvedimento autorizzatorio del giudice delegato in quanto prodotto in modo incompleto, privo di motivazione e di autenticità; b) al mancato rispetto del termine sem estrale previsto dall’art. 56, del d.lgs. 159 del 2011, per la dichiarazione di subentro o risoluzione del rapporto di lavoro; c) alla violazione dell’art. 41 del citato decreto legislativo per il mancato rispetto dei termini e delle forme previsti dai commi 1bis e 1ter e per essere stato il recesso datoriale adottato senza la preventiva predisposizione della relazione e del piano di gestione dell’attività; d) alla illegittimità del licenziamento intimato per causali diverse da quelle tipizzate dalla legge, con conseguente diritto alla tutela reintegratoria o, in subordine, indennitaria.
La Corte d’appello ha respinto tali censure adottando le seguenti motivazioni: sulla censura di cui alla lett. a), ha
osservato che l’eccezione dell’appellante, riguardo alla mancanza del provvedimento autorizzatorio del giudice delegato, fosse stata valutata dal tribunale avendo questi disposto l’acquisizione ex officio del provvedimento medesimo e valutato lo stesso come valido ed autentico; sulla censura di cui alla lett. b), ha rilevato che l’art. 56 cit., nel testo vigente all’epoca dei fatti, non prevedeva il termine semestrale per la dichiarazione dell’amministratore giudiziario di subentro o risoluzione del rapporto; che pure considerata la modifica apportata dall’art. 20, comma 5, della legge n. 161 del 2017, immediatamente applicabile alle procedure pendenti, il termine semestrale introdotto doveva ritenersi decorrente dall’entrata in vigore della legge (19 novembre 2017) e, nel caso di specie, rispettato per essere stato il recesso intimato il 10 gennaio 2018; che, comunque, in base all’art. 56 cit., sia nella originaria versione e sia in quella modificata, l’omessa (tempestiva) dichiarazione dell’amministratore g iudiziario non determinava l’automatico subentro nel rapporto di lavoro ma attribuiva al contraente (lavoratore) la facoltà di mettere in mora l’amministratore, previa assegnazione di un termine (non superiore a sessanta giorni) da parte dal giudice delegato, trascorso il quale il contratto si sarebbe risolto; che nella specie l’appellante non ha aveva dedotto di aver messo in mora l’amministratore giudiziario; che, comunque, la mancata dichiarazione di quest’ultimo comportava la risoluzione del rapporto (e non il subentro nello stesso); sulla censura di cui alla lett. c), ha affermato che solo la dichiarazione di subentro o recesso determinata da ragioni produttive doveva rispettare le forme e i termini di cui all’art. 41, commi 1bis e 1ter cit. e che nel c aso in esame il giudice delegato, con provvedimento dell’11 dicembre 2017, aveva autorizzato il non subentro nel rapporto di lavoro con
la COGNOME per ragioni non di carattere produttivo bensì di ordine pubblico; sulla censura di cui alla lett. d), ha ritenuto che il richiamo alla procedura e al provvedimento autorizzatorio costituissero sufficiente specificazione dei motivi (di ordine pubblico) del recesso, dovendosi escludere sia l’applicabilità delle garanzie proprie del licenziamento disciplinare e sia qualsiasi ingerenza del giudice del lavoro nella verifica dei motivi di ordine pubblico già valutati dal giudice penale.
Avverso tale sentenza NOME COGNOME ha proposto ricorso per cassazione affidato a sei motivi, illustrati da memoria. La RAGIONE_SOCIALE in amministrazione giudiziaria ha resistito con controricorso.
Il Sostituto Procuratore Generale ha depositato conclusioni scritte chiedendo il rigetto del ricorso.
Ragioni della decisione
Con il primo motivo di ricorso si deduce violazione o falsa applicazione degli artt. 115, 421 e 437 c.p.c., nullità della sentenza o del procedimento ai sensi dell’art. 360, comma 1, n. 3 c.p.c., erroneità della decisione assunta dal giudice dell’opposi zione in merito alla acquisizione del provvedimento autorizzatorio del giudice delegato, erroneità della sentenza impugnata nella parte in cui si è basata esclusivamente su tale documento. La parte ricorrente premette di avere eccepito la mancata produzione del provvedimento autorizzatorio sia nella fase sommaria e sia nella fase di opposizione e che la controparte non solo non ha prodotto tale documento ma ha sostenuto la non necessità di una sua produzione, reputando sufficienti le dichiarazioni rese dai commissari aventi veste di pubblici ufficiali; rileva che la società era perciò decaduta dalla possibilità di una successiva produzione e che la decisione del tribunale, di ordinare l’esibizione del documento in
oggetto nonostante la decadenza della parte, vìola le disposizioni citate, costituendo peraltro l’autorizzazione del giudice delegato presupposto imprescindibile del recesso il cui onere di prova incombe sulla società.
Il motivo non è fondato.
Questa Corte ha più volte affermato come proprio per accelerare al massimo i tempi del processo del lavoro – cui sono in sostanza funzionalizzati i suoi caratteri individualizzanti – il legislatore del 1973 ha imposto l’onere di ciascuna parte di specificare nei primi rispettivi atti giudiziari (ricorso e memoria di costituzione) non solo i fatti posti a base delle rispettive richieste ma anche i mezzi di prova di cui intende avvalersi; nel che è stato ravvisato da alcuni studiosi un rigido e severo corollario del principio dell’allegazione dei fatti – contrariamente a quanto voluto dalla novella del 1990 attributiva di una conseguenzialità temporale fra la fase delle allegazioni dei fatti e quella delle attività istruttorie – mentre da altri una mera applicazione del c.d. principio dell’eventualità, proprio perché le parti sono tenute ad indicare i mezzi di prova prima di sapere se i fatti cui essi si riferiscono saranno contestati o meno dalla controparte (così Cass., S.U. n. 11535 del 2004, in motivazione).
Tale rigoroso sistema di preclusioni, che costringe l’attore a produrre ed articolare le prove prima di conoscere quali dei fatti allegati saranno contestati dalla controparte, trova, però, un contemperamento – ispirato alla esigenza della ricerca della verità materiale, cui è doverosamente funzionalizzato il rito del lavoro -nei poteri d’ufficio riconosciuti al giudice.
In particolare, con l’art. 421, comma 2, c.p.c., si è inteso affermare che è caratteristica precipua del rito speciale del lavoro il contemperamento del principio
dispositivo con le esigenze della ricerca della verità materiale di guisa che, allorquando le risultanze di causa offrano significativi dati di indagine, il giudice ove reputi insufficienti le prove già acquisite, non può limitarsi a fare meccanica applicazione della regola formale di giudizio fondata sull’onere della prova, ma ha il potere-dovere di provvedere d’ufficio agli atti istruttori sollecitati da tale materiale ed idonei a superare l’incertezza del fatti costitutivi dei diritti in contestazione, indipendentemente dal verificarsi di preclusioni o decadenze in danno delle parti (cfr. in tal senso Cass., S.U. n. 761 del 2002; S.U. n. 11353 del 2004; S.U. n. 8202 del 2005 e, più recentemente, Cass. n. 17683 del 2020).
Sono stati individuati quali presupposti per l’esercizio dei poteri istruttori del giudice, a prescindere dalla maturazione di preclusioni probatorie in capo alle parti, la ricorrenza di una semiplena probatio rispetto ad una data situazione controversa e l’emergenza ex actis di una pista probatoria (da ultimo v. Cass. n. 28134 del 2018; n. 22628 del 2019; n. 26597 del 2020).
Si è poi precisato che nel rito del lavoro, ai sensi di quanto disposto dagli artt. 421 e 437 c.p.c., l’uso dei poteri istruttori da parte del giudice non ha carattere discrezionale, ma costituisce un potere-dovere del cui esercizio o mancato esercizio il giudice è tenuto a dar conto (cfr. Cass. n. 14731 del 2006; n. 6023 del 2009; n. 25374 del 2017; n. 22628 del 2019).
A tali principi si è attenuta la sentenza impugnata nella parte in cui ha confermato la decisione del tribunale, di acquisizione d’ufficio del provvedimento autorizzatorio del giudice delegato, specificamente richiamato e individualizzato nelle difese della società e nei restanti
documenti prodotti e ritenuto indispensabile ai fini della decisione.
Con il secondo motivo di ricorso è dedotta violazione o falsa applicazione dell’art. 56, d.lgs. n. 159 del 2011, degli artt. 1, 2, 3, 4, 24, 35 e 111 Cost., nullità della sentenza e del procedimento ai sensi dell’art. 360, comma 1, n. 3 e n. 4 c.p.c., inefficacia o illegittimità del provvedimento di licenziamento per l’inesistenza dei presupposti necessari; in subordine, inefficacia o illegittimità del licenziamento. La ricorrente argomenta la violazione dell’art. 56 cit. per la mancanza (rectius, la non utilizzabilità) del provvedimento autorizzatorio del giudice delegato, solo tardivamente prodotto su ordine del tribunale e in una versione non integrale, quindi privo di motivazione; deduce, inoltre, la mancanza di motivazione del provvedimento espulsivo adottato il 10 gennaio 2018 quanto alle causali del licenziamento, non essendo sufficiente il generico riferimento fatto dai giudici di merito a ragioni di ordine pubblico, con conseguente lesione del diritto di difesa della lavoratrice.
Con il terzo motivo si deduce, ai sensi dell’art. 360, comma 1, n. 3, n. 4 e n. 5 c.p.c., violazione o falsa applicazione dell’art. 56, d.lgs. n. 159 del 2011, con riferimento alla prova del licenziamento, violazione del diritto di difesa della lavorat rice, di cui all’art. 24 Cost., difetto di motivazione. Si ribadisce che la ricorrente è stata licenziata sulla base di un provvedimento sfornito di motivazione e acquisito d’ufficio, senza avere avuto la possibilità di difendersi nonostante le istanze istruttorie formulate nei precedenti gradi di merito che, se ammesse, avrebbero dimostrato il comportamento della stessa nel rapporto di lavoro. Si rileva che la sentenza d’appello contiene un riferimento molto generico a presunte ‘condotte
all’interno dell’azienda’ che avrebbero legittimato l’allontanamento della dipendente, in assenza di qualsiasi ulteriore specificazione e sebbene l’onere di prova sul punto incombesse sulla parte datoriale.
Con il quarto motivo è dedotta, ai sensi dell’art. 360, comma 1, n. 3, n. 4 e n. 5 c.p.c., violazione o falsa applicazione dell’art. 56, d.lgs. n. 159 del 2011 con riferimento all’art. 41, commi 1bis e 1ter del medesimo decreto legislativo, violazione della procedura ivi prevista per il non subentro nel contratto di lavoro, difetto di motivazione. Si afferma che, già col ricorso introduttivo della lite, la lavoratrice aveva denunciato la violazione del procedimento descritto dall’art. 56 cit. che, per e vitare l’arbitrio degli amministratori giudiziari, richiede la preventiva autorizzazione giudiziale al recesso e il rispetto dei termini e delle forme di cui all’art. 41 cit., adempimenti nel caso di specie del tutto elusi. Difatti, l’autorizzazione del giudice delegato è stata acquisita tardivamente ex officio e in versione non completa; la dichiarazione di cessazione del rapporto con la ricorrente è intervenuta dopo il termine perentorio di sei mesi dalla immissione in possesso degli amministratori giudiziari e non è stata preceduta dalla relazione e dalla adozione del programma di gestione previsti dall’art. 41 cit.
I motivi di ricorso dal secondo al quarto possono essere trattati congiuntamente per la connessione logica delle censure poste. Essi non sono fondati.
Risultano anzitutto infondate, per le ragioni già esposte nell’esame del primo motivo, le deduzioni sulla irrituale acquisizione d’ufficio del provvedimento autorizzatorio del giudice delegato.
La società argomenta poi la violazione dell’art. 56 cit. sul rilievo della mancanza di motivazione sia del decreto
autorizzatorio, in quanto acquisito in una versione non integrale, e sia del provvedimento espulsivo adottato il 10 gennaio 2018, con conseguente compressione del diritto di difesa.
L’art. 56 del d.lgs. n. 159 del 2011 (recante il ‘Codice delle leggi antimafia e delle misure di prevenzione’), nel testo modificato dalla legge n. 161 del 2017 e applicabile ratione temporis, prevede:
‘ 1. Se al momento dell’esecuzione del sequestro un contratto relativo all’azienda sequestrata o stipulato dal proposto in relazione al bene in stato di sequestro deve essere in tutto o in parte ancora eseguito, l’esecuzione del contratto rimane sospesa fino a quando l’amministratore giudiziario, previa autorizzazione del giudice delegato, dichiara di subentrare nel contratto in luogo del proposto, assumendo tutti i relativi obblighi, ovvero di risolvere il contratto, salvo che, nei contratti ad effetti reali, sia già avvenuto il trasferimento del diritto. La dichiarazione dell’amministratore giudiziario deve essere resa nei termini e nelle forme di cui all’articolo 41, commi 1-bis e 1-ter, e, in ogni caso, entro sei mesi dall’immissione nel possesso.
Il contraente può mettere in mora l’amministratore giudiziario, facendosi assegnare dal giudice delegato un termine non superiore a sessanta giorni, decorso il quale il contratto si intende risolto.
Se dalla sospensione di cui al comma 1 può derivare un danno grave al bene o all’azienda, il giudice delegato autorizza, entro trenta giorni dall’esecuzione del sequestro, la provvisoria esecuzione dei rapporti pendenti. L’autorizzazione perde efficacia a seguito della dichiarazione prevista dal comma 1.
La risoluzione del contratto in forza di provvedimento del giudice delegato fa salvo il diritto al risarcimento del
danno nei soli confronti del proposto e il contraente ha diritto di far valere nel passivo il credito conseguente al mancato adempimento secondo le disposizioni previste al capo II del presente titolo ‘.
Occorre premettere che la disciplina dettata dal d.lgs. n. 159 del 2011 sottende una funzionale destinazione dell’azienda sotto sequestro di prevenzione all’esercizio dell’impresa. È infatti stabilito che ‘l’amministratore giudiziario provvede agli atti di ordinaria amministrazione funzionali all’attività economica dell’azienda…’ (art. 41, co. 2 d.lgs. 159/2011), avendo egli ‘il compito di provvedere alla custodia, alla conservazione e all’amministrazione dei beni sequestrati al fine di incrementare , se possibile, la redditività dei beni medesimi’ (art. 35, co. 5 d.lgs. cit.) e che soltanto ‘se mancano concrete possibilità di prosecuzione o di ripresa dell’attività’ il tribunale ‘acquisito il parere del pubblico ministero e dell’amministratore giudiziario dispone la messa in liquidazione dell’impresa. In caso di insolvenza, si applica l’art. 63, comma 1’, ossia la dichiarazione di fallimento (art. 41, co. 4 d.lgs. cit.).
Alla citata finalità di prosecuzione dell’impresa risponde la previsione del terzo comma dell’art. 56 cit. che consente, su autorizzazione del giudice delegato, la provvisoria esecuzione dei rapporti pendenti ‘se dalla sospensione di cui al comma 1 può derivare un grave danno all’azienda’. L’autorizzazione all’esecuzione provvisoria dei rapporti pendenti perde efficacia a seguito della decisione adottata dell’amministratore giudiziario ai sensi del comma 1 dell’art. 56, previa autorizzazione del giu dice delegato, di subentrare oppure di risolvere il contratto.
Come osservato dalla Corte territoriale (ultimo cpv. p. 8 sentenza), la normativa in esame ricalca sostanzialmente quella del fallimento e, in particolare, il regime dei rapporti
pendenti nell’esercizio provvisorio dell’impresa del fallito (cfr. art. 104, penult. co. l. fall., secondo cui ‘Durante l’esercizio provvisorio i rapporti pendenti proseguono, salvo che il curatore non intenda sospenderne l’esecuzione o scioglierli’, e ana logamente: art. 211, co. 8 CCII), essendosi affermata, in riferimento a questa parte di tutela dei terzi, di accertamento dei loro diritti e dei rapporti pendenti, una sorta di ‘fallimentarizzazione del giudice di prevenzione antimafia’.
25. Nel caso in esame, con provvedimento del giudice delegato del 28.6.2017 (§ 2, p. 4 della sentenza), su richiesta dall’amministratore giudiziario del 27.6.2017 (terz’ultimo cpv. p. 7 controricorso), è stata disposta la prosecuzione provvisoria dell’impresa (idest: l’esercizio provvisorio) in sequestro (per provvedimento 23.6.2017 del Tribunale Penale di Roma -sez. Misure di Prevenzione) per il periodo di sei mesi, prorogabile di altri sei, ‘al fine di vagliare l’opportunità di subentro nei rapporti’ pendenti (§ 2, p. 4 della sentenza). Detta prosecuzione provvisoria ha perso efficacia, per quanto rileva ai fini di causa, a seguito della decisione di risoluzione del rapporto di lavoro con la RAGIONE_SOCIALE per effetto del licenziamento.
26. È indiscussa la prosecuzione del rapporto della lavoratrice con la procedura (§ 2.17, p. 16 del ricorso), in esso subentrata ope legis , senza contestazione alcuna ed anzi come confermato dal tenore del licenziamento intimato ‘a decorrere dalla data odierna’ (e pertanto non da quella di apertura della procedura di prevenzione, come invece in caso di sospensione del rapporto di durata a prestazioni corrispettive, quale il rapporto di lavoro, in attesa di una determinazione dell’amministratore giudiziario, risolta con la scelta dello scioglimento, a norma dell’art. 72, co. 1 l. fall.: Cass. 14 aprile 2023, n. 10046, in motivaz. sub p.ti da
6.4 a 6.6, in specifico riferimento a contratto di agenzia), con la lettera dell’amministratore giudiziario del 10.1.2018, per effetto del provvedimento 11.12.2017 del G.D. di ‘non subentro con la conseguenza che detto rapporto deve pertanto ritenersi sciolto e cessato’ (come da trascrizione al 1° cpv. p. 14 sentenza).
Sulla natura dell’atto risolutivo, questa Corte, esaminando la previsione dell’art. 56 (sia pure nel testo originario), ha statuito che ‘In caso di sequestro dell’azienda operato ai sensi del d.lgs. n. 159 del 2011, è legittima la risoluzione del rapporto di lavoro disposta dall’amministratore giudiziario su ordine del giudice delegato ai sensi dell’art. 35 del d.lgs. n. 159 cit., trattandosi di disposizione di ordine pubblico applicabile a tutti i contratti relativi all’azienda sequestrata (e, dunque, anche a quelli di lavoro), sicché il licenziamento non ha natura disciplinare e non trovano applicazione le relative garanzie, ferma soltanto la necessità della specificazione dei motivi del recesso, che resta tuttavia soddisfatta dal richiamo alla procedu ra e al decreto del Tribunale’ (Cass. n. 14467 del 2015; n. 15041 del 2015; n. 10439 del 2017; n. 26478 del 2018).
In particolare, nei precedenti di legittimità si è sottolineato ‘il carattere speciale della normativa e la finalità di ordine pubblico, che non può che comprendere tutti i contratti relativi al bene e all’azienda sequestrata, nonché tutti i rapporti d i collaborazione con le persone indicate’, risultando la stessa applicabile ‘anche ai rapporti di lavoro, per i quali, quindi (al di là di quanto previsto dalla normativa ordinaria, che resta applicabile “ove non espressamente disposto”), è prevista, tra l’altro, una risoluzione del rapporto con recesso da parte dell’amministratore
giudiziario, autorizzato dal giudice, nei confronti dei soggetti indicati dall’art. 35’ (così Cass. n. 14467 del 2015 cit.).
Si è al riguardo ribadito che la ‘risoluzione del rapporto’ (così definita dall’art. 56 cit.) decisa dall’amministratore giudiziario non ha natura disciplinare, richiedendosi tuttavia che essa contenga la specificazione dei motivi di recesso, ‘costitue nte comunque principio generale in materia di licenziamenti’ (così Cass. n. 14467 del 2015), in consonanza, tra l’altro, con la Carta Sociale Europea (art. 24).
Ferma la necessità di motivazione sia del provvedimento autorizzatorio del giudice delegato e sia della decisione di risoluzione del rapporto, alla luce dei precedenti citati, la Corte d’appello ha ritenuto assolti entrambi tali obblighi.
Quanto al provvedimento autorizzatorio dell’11 dicembre 2017, come riprodotto nella sentenza impugnata (con doverosa omissione dell’istanza dell’amministratore giudiziario -in calce alla quale è stato redatto- riferita anche ad altri lavoratori, come desumibile dal numero plurale dei riferimenti), i giudici di appello hanno accertato come lo stesso disponesse l’allontanamento della COGNOME ‘per motivi di ordine pubblico, avuto riguardo ai suoi rapporti con i proposti e alla condotta indicata nell’istanza degli amministratori’; in particolare, in riferimento ad un comportamento poco propositivo e collaborativo suscettibile di alimentare nei colleghi sfiducia nei confronti della nuova gestione (‘la COGNOME si mostrava poco propositiva e collaborativa, contribuendo ad alimentare nei colleghi la sfiducia nei confronti della nuova gestione, comportamento tipicamente finalizzato a determinare l’interferenza occulta dei proposti sull’impresa sottoposta ad amministrazione giudiziaria’, sentenza, p. 12, quarto cpv.) .
Quanto alla lettera di licenziamento adottata nei confronti della lavoratrice, i giudici di appello hanno appurato come la stessa contenesse puntuale riferimento alla procedura di amministrazione giudiziaria e al provvedimento del giudice delegato che ha disposto il non subentro nel rapporto di lavoro e quindi ai motivi ‘di ordine pubblico’ ivi esplicitati ed hanno ritenuto tale motivazione esaustiva, alla luce dei precedenti di legittimità richiamati, secondo cui ‘la necessità della specificazione dei motivi del recesso resta tuttavia soddisfatta dal richiamo alla procedura e al decreto del Tribunale’ (così Cass. n. 14467 del 2015).
Alla luce di tali premesse, deve escludersi la violazione di legge come dedotta dalla attuale ricorrente, avendo i giudici di appello interpretato ed applicato l’art. 56 cit. in coerenza con i principi di diritto affermati da questa Corte in ordine all a ricorrenza dell’obbligo di motivazione dei provvedimenti adottati dal giudice delegato e dagli amministratori giudiziari e al contenuto di tale obbligo, sostanzialmente assorbito dalle valutazioni fatte in sede penale e poi dal giudice delegato, senza che in ciò possa ravvisarsi alcuna violazione del diritto di difesa.
Parimenti infondate sono le censure di mancato rispetto dei termini e delle forme di cui all’art. 41, commi 1bis e 1ter, d.lgs. n. 159 del 2011, per la dichiarazione di recesso.
L’art. 41, la cui rubrica concerne la ‘Gestione delle aziende sequestrate’, ai commi 1, 1bis e 1ter stabilisce:
‘ 1. Nel caso in cui il sequestro abbia ad oggetto aziende di cui agli articoli 2555 e seguenti del codice civile, anche per effetto del sequestro avente a oggetto partecipazioni societarie, l’amministratore giudiziario è scelto nella sezione di esperti in gestione aziendale dell’RAGIONE_SOCIALE degli
amministratori giudiziari. Dopo la relazione di cui all’articolo 36, comma 1, l’amministratore giudiziario, entro tre mesi dalla sua nomina, prorogabili a sei mesi per giustificati motivi dal giudice delegato, presenta una relazione, che trasmette anche all’Agenzia, contenente:
gli ulteriori dati acquisiti, integrativi di quelli già esposti nella relazione di cui all’articolo 36, comma 1;
l’esposizione della situazione patrimoniale, economica e finanziaria, con lo stato analitico ed estimativo delle attività;
una dettagliata analisi sulla sussistenza di concrete possibilità di prosecuzione o di ripresa dell’attività, tenuto conto del grado di caratterizzazione della stessa con il proposto e i suoi familiari, della natura dell’attività esercitata, delle modalità e dell’ambiente in cui è svolta, della forza lavoro occupata e di quella necessaria per il regolare esercizio dell’impresa, della capacità produttiva e del mercato di riferimento nonché degli oneri correlati al processo di legalizzazione dell’azienda. Nel caso di proposta di prosecuzione o di ripresa dell’attività è allegato un programma contenente la descrizione analitica delle modalità e dei tempi di adempimento della proposta, che deve essere corredato, previa autorizzazione del giudice delegato, della relazione di un professionista in possesso dei requisiti di cui all’articolo 67, terzo comma, lettera d), del regio decreto 16 marzo 1942, n. 267, e successive modificazioni, che attesti la veridicità dei dati aziendali e la fattibilità del programma medesimo, considerata la possibilità di avvalersi delle agevolazioni e delle misure previste dall’articolo 41-bis del presente decreto;
d) la stima del valore di mercato dell’azienda, tenuto conto degli oneri correlati al processo di legalizzazione della stessa;
l’indicazione delle attività esercitabili solo con autorizzazioni, concessioni e titoli abilitativi
1-bis. Le disposizioni del comma 4 dell’articolo 36 si applicano anche con riferimento a quanto previsto dalla lettera d) del comma 1 del presente articolo.
1-ter. Alla proposta di prosecuzione o di ripresa dell’attività l’amministratore giudiziario allega l’elenco nominativo dei creditori e di coloro che vantano diritti reali o personali, di godimento o di garanzia, sui beni ai sensi dell’articolo 57, comma 1, specificando i crediti che originano dai rapporti di cui all’articolo 56, quelli che sono collegati a rapporti commerciali essenziali per la prosecuzione dell’attività e quelli che riguardano rapporti esauriti, non provati o non funzionali all’attività d’impresa. L’amministratore giudiziario allega altresì l’elenco nominativo delle persone che risultano prestare o avere prestato attività lavorativa in favore dell’impresa, specificando la natura dei rapporti di lavoro esistenti nonché quelli necessari per la prosecuzione dell’attività; riferisce in ordine alla presenza di organizzazioni sindacali all’interno dell’azienda alla data del sequestro e provvede ad acquisire loro eventuali proposte sul programma di prosecuzione o di ripresa dell’attività, che tras mette, con il proprio parere, al giudice delegato ‘.
Le disposizioni trascritte prevedono che l’amministratore giudiziario raccolga una serie di dati sulla concreta possibilità di prosecuzione o ripresa dell’attività e su quanto a tal fine rilevante, anche per quanto concerne il personale dipendente e il numero delle persone necessarie alla prosecuzione dell’attività.
Deve anzitutto affermarsi, in assenza di una espressa previsione di legge in tal senso (art. 152, comma 2, c.p.c.), che il termine stabilito dall’art. 41 ha carattere ordinatorio e non perentorio.
38. Sulla necessità di una previa relazione, essa, come si evince dal contenuto dell’art. 41 che rinvia a considerazioni e valutazioni di carattere produttivo, è riferita a prospettive di ‘gestione dell’azienda’, secondo il chiaro tenore della rubrica dell ‘articolo medesimo, e non a fattori di ordine pubblico, suscettibili di provocare valutazioni e decisioni autonome e separate da quelle concernenti la complessiva gestione del bene aziendale.
39. Da ciò discende che l’amministratore giudiziario, ove rilevi motivi di ordine pubblico atti a fondare la decisione di risoluzione di uno o più rapporti di lavoro, possa procedere in tal senso, previa autorizzazione del giudice delegato, nel termine ul timo di sei mesi di cui all’art. 56 (‘La dichiarazione dell’amministratore giudiziario deve essere resa nei termini e nelle forme di cui all’articolo 41, commi 1-bis e 1-ter, e, in ogni caso, entro sei mesi dall’immissione nel possesso’) senza che tale decisione di non subentro debba necessariamente entrare a far parte della ‘relazione’ per la ‘gestione’ dell’azienda sequestrata.
40. La Corte d’appello ha correttamente interpretato le disposizioni in esame là dove ha ritenuto la prescrizione dettata dall’art. 56, comma 1, secondo cui ‘la dichiarazione dell’amministratore giudiziario deve essere resa nei termini e nelle forme di cui all’art. 41, commi 1bis e 1ter’, non vincolante per le decisioni di recesso ancorate a ragioni di ordine pubblico, restando queste ultime unicamente soggette al termine residuale ‘(in ogni caso’) di ‘sei mesi dall’immissione nel possesso’, termine nella s pecie rispettato.
41. Con il quinto motivo si chiede di sollevare questione di legittimità costituzionale dell’art. 56 cit., se interpretato nel modo seguito dai giudici di merito, per contrasto con gli articoli 1, 2, 3, 4, 24 e 25 Cost.
Le considerazioni finora svolte, in conformità ai principi di diritto enunciati da questa SRAGIONE_SOCIALE, portano ad escludere la sussistenza dei presupposti di non manifesta infondatezza necessari per porre la questione di legittimità costituzionale in relazione ai citati parametri.
Con il sesto motivo si denuncia violazione o falsa applicazione delle disposizioni in materia di licenziamento per giusta causa e giustificato motivo, di cui alle leggi n. 604 del 1966 e n. 300 del 1970, per essere stato il provvedimento espulsivo della lavoratrice assunto in assenza dei requisiti richiesti dai citati testi normativi.
Il motivo è infondato dovendosi ribadire quanto già affermato nei precedenti di legittimità sul carattere di norma speciale del decreto legislativo in esame, da cui discende l’inapplicabilità dei principi e delle norme che regolano, in via generale, il licenziamento per giusta causa o giustificato motivo.
Le considerazioni esposte conducono al rigetto del ricorso.
La regolazione delle spese del giudizio di legittimità segue il criterio di soccombenza, con liquidazione come in dispositivo.
Il rigetto del ricorso costituisce presupposto processuale per il raddoppio del contributo unificato, ai sensi dell’art. 13, comma 1 quater, del d.P.R. n. 115 del 2002 (cfr. Cass. S.U. n. 4315 del 2020).
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso.
Condanna la ricorrente alla rifusione delle spese del giudizio di legittimità che liquida in euro 5.000,00 per compensi professionali, euro 200,00 per esborsi, oltre spese forfettarie nella misura del 15% e accessori come per legge.
Ai sensi dell’art. 13, co. 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento da parte della ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso a norma del comma 1 bis dello stesso art.13, se dovuto.
Così deciso all’udienza del 25 maggio 2024