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Licenziamento accesso abusivo: il danno non conta

Un dipendente di banca, licenziato per aver acceduto senza autorizzazione a numerosi dati di clienti, era stato reintegrato dai giudici di merito perché l’istituto di credito non aveva provato un danno concreto. La Corte di Cassazione ha annullato tale decisione, stabilendo che per il licenziamento per accesso abusivo è sufficiente la grave violazione degli obblighi di fedeltà e diligenza che mina il rapporto di fiducia, a prescindere dalla causazione di un pregiudizio effettivo.

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Pubblicato il 14 settembre 2025 in Diritto del Lavoro, Giurisprudenza Civile

Licenziamento per accesso abusivo: irrilevante la prova del danno

Il licenziamento per accesso abusivo ai sistemi informatici aziendali è legittimo anche senza la prova di un danno concreto per l’azienda o per terzi. Ciò che conta è la gravità della condotta del dipendente, che incrina in modo irreparabile il rapporto di fiducia. È questo il principio fondamentale ribadito dalla Corte di Cassazione, Sezione Lavoro, con l’ordinanza n. 4945/2025, che cassa la decisione di merito favorevole a un lavoratore.

I Fatti di Causa

Un dipendente con la qualifica di area manager di un noto istituto di credito veniva licenziato per giusta causa. Le contestazioni disciplinari erano due: la prima, e più rilevante, riguardava l’accesso indebito e reiterato a circa 70 schede di clienti per motivi extralavorativi, in palese violazione della privacy; la seconda concerneva presunti comportamenti dispotici e vessatori nei confronti dei colleghi.

Il lavoratore impugnava il licenziamento. Il Tribunale, in prima istanza, dopo una fase istruttoria, accoglieva il ricorso, ordinando la reintegrazione del dipendente. Secondo il giudice, la contestazione relativa agli accessi abusivi era tardiva e, per le altre condotte, la banca non aveva fornito prove sufficienti.

La Corte d’Appello confermava la decisione, rigettando il reclamo della banca. Pur riconoscendo la violazione della normativa sulla privacy, la Corte territoriale riteneva il licenziamento sproporzionato, in quanto l’istituto di credito non aveva dedotto né provato l’esistenza di danni conseguenti alla condotta del manager. In assenza di un pregiudizio concreto, la sanzione espulsiva era stata giudicata eccessiva.

La Decisione della Corte di Cassazione e il licenziamento per accesso abusivo

Investita della questione, la Corte di Cassazione ha ribaltato completamente la prospettiva dei giudici di merito. Accogliendo il motivo di ricorso principale della società, la Suprema Corte ha affermato che la Corte d’Appello ha errato nel ritenere decisiva l’assenza di un danno conseguenziale per escludere la giusta causa di licenziamento.

Le Motivazioni

Il ragionamento della Cassazione si fonda su un consolidato orientamento giurisprudenziale. In materia di licenziamento disciplinare, la valutazione della gravità della condotta non può essere limitata alla verifica delle sue conseguenze patrimoniali. L’elemento centrale da considerare è il valore sintomatico del comportamento del lavoratore rispetto ai suoi futuri adempimenti e, soprattutto, la sua idoneità a ledere l’elemento fiduciario, che è alla base del rapporto di lavoro.

L’accesso non autorizzato a dati sensibili di clienti, di per sé, costituisce una gravissima violazione degli obblighi di diligenza e fedeltà, a prescindere dal fatto che da tale accesso derivi un danno economico o di immagine per l’azienda o per i clienti stessi. La condotta è intrinsecamente grave perché dimostra l’inaffidabilità del dipendente e la sua noncuranza verso le più elementari norme di comportamento e di tutela della privacy, fondamentali in un settore delicato come quello bancario.

La Corte ha precisato che fattori come la modesta entità del danno o l’assenza di un vantaggio per il lavoratore possono essere considerati nella valutazione complessiva, ma non sono sufficienti, da soli, a escludere la rilevanza disciplinare del fatto. La rottura del vincolo di fiducia, una volta avvenuta, giustifica la sanzione espulsiva.

Le Conclusioni

La pronuncia ha importanti implicazioni pratiche. Per i datori di lavoro, viene confermato che non è necessario attendere o provare un danno effettivo per poter procedere con un licenziamento per giusta causa di fronte a una grave violazione delle policy aziendali, specialmente in materia di trattamento dei dati. La semplice commissione del fatto, se idonea a minare la fiducia, è sufficiente.

Per i lavoratori, questo rappresenta un monito sulla serietà degli obblighi legati alla gestione delle informazioni aziendali. L’accesso a dati per curiosità personale o per motivi non legati all’attività lavorativa è una condotta che può costare il posto di lavoro, anche se non si intende arrecare alcun danno.

Per giustificare un licenziamento per accesso abusivo a dati informatici, è necessario che l’azienda dimostri di aver subito un danno concreto?
No. Secondo la Corte di Cassazione, l’assenza di danni conseguenziali o di vantaggi per il lavoratore non esclude di per sé la giusta causa di licenziamento. Ciò che rileva è la gravità della condotta nel minare il rapporto di fiducia con il datore di lavoro.

La violazione delle norme sulla privacy da parte di un dipendente può costituire giusta causa di licenziamento?
Sì. L’accesso indebito a dati sensibili, come quelli dei clienti di una banca, rappresenta una grave violazione degli obblighi del lavoratore e può compromettere irrimediabilmente il vincolo fiduciario, legittimando la sanzione espulsiva.

Cosa si intende per ‘valore sintomatico’ della condotta del lavoratore?
Si intende che il comportamento del dipendente viene valutato non solo per le sue conseguenze immediate, ma anche come indicatore (sintomo) della sua affidabilità futura e della sua capacità di rispettare gli obblighi contrattuali. Una condotta grave può far dubitare della futura correttezza del lavoratore, giustificando la fine del rapporto.

La selezione delle sentenze e la raccolta delle massime di giurisprudenza è a cura di Carmine Paul Alexander TEDESCO, Avvocato a Milano, Pesaro e Benevento.

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