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Licenziamento accessi abusivi: onere della prova

La Cassazione dichiara inammissibile il ricorso di un ente pubblico contro l’annullamento di un licenziamento per accessi abusivi ai database. Decisiva la mancata prova da parte del datore di lavoro della illiceità delle condotte e della loro riferibilità al dipendente, confermando che il riesame dei fatti è precluso in sede di legittimità.

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Pubblicato il 3 dicembre 2025 in Diritto del Lavoro, Giurisprudenza Civile, Procedura Civile

Licenziamento per accessi abusivi: quando la prova non basta

Il tema del licenziamento per accessi abusivi ai sistemi informatici aziendali è sempre più attuale nel panorama del diritto del lavoro. Una recente sentenza della Corte di Cassazione, la n. 18698/2024, offre spunti fondamentali sull’importanza dell’onere della prova a carico del datore di lavoro. Il caso analizzato riguarda un dipendente di un ente previdenziale licenziato per aver, secondo l’accusa, effettuato accessi non autorizzati alle banche dati istituzionali. La decisione della Suprema Corte conferma la sentenza di secondo grado che aveva annullato il licenziamento, ritenendo le prove fornite dall’ente del tutto insufficienti a sostenere l’addebito.

I Fatti di Causa

Un dipendente di un importante ente previdenziale veniva licenziato in via disciplinare con l’accusa di aver compiuto accessi non autorizzati alle banche dati dell’istituto, asseritamente senza alcuna giustificazione lavorativa. Il lavoratore impugnava il licenziamento, ottenendo in secondo grado, dalla Corte d’Appello, una sentenza di annullamento. La Corte territoriale aveva rilevato numerose e significative incongruenze tra le accuse mosse dall’ente e le prove raccolte. In particolare, era emerso che:

* Non vi era prova che gli accessi contestati riguardassero utenti non rientranti nell’ambito di competenza dell’agenzia del dipendente.
* L’ente non aveva dimostrato l’esistenza di una norma, un ordine di servizio o una circolare interna che vietasse esplicitamente quel tipo di accessi.
* In alcuni dei giorni in cui sarebbero avvenuti gli accessi, il dipendente risultava assente dal servizio.
* Gli accessi potevano essere riconducibili a legittime richieste da parte di utenti presentatisi allo sportello.

Sulla base di queste criticità, la Corte d’Appello aveva ritenuto l’addebito disciplinare infondato nel merito, dichiarando illegittimo il licenziamento.

Il Ricorso in Cassazione dell’Ente e il problema del licenziamento per accessi abusivi

L’ente previdenziale, non accettando la decisione, proponeva ricorso per Cassazione, lamentando principalmente una scorretta valutazione delle prove da parte dei giudici di merito. Secondo il datore di lavoro, la Corte d’Appello avrebbe errato nel considerare inidonee le risultanze istruttorie, travisando i fatti e omettendo di valutare elementi che, a suo dire, sarebbero stati decisivi per confermare la responsabilità del dipendente. In sostanza, il ricorso mirava a ottenere una nuova valutazione del materiale probatorio, contestando il convincimento a cui era pervenuta la Corte territoriale.

Le Motivazioni della Decisione

La Corte di Cassazione ha dichiarato il ricorso dell’ente inammissibile, fornendo una motivazione chiara e basata su principi consolidati del processo civile. I giudici supremi hanno spiegato che tutti i motivi di ricorso, sebbene formulati come violazioni di legge, miravano in realtà a una sola cosa: confutare la valutazione dei fatti e delle prove operata dalla Corte d’Appello e sollecitarne un riesame. Questo tipo di richiesta, tuttavia, è precluso in sede di legittimità. Il ruolo della Cassazione non è quello di un terzo grado di giudizio nel merito, ma quello di verificare la corretta applicazione delle norme di diritto e la coerenza logica della motivazione della sentenza impugnata. Nel caso specifico, la Suprema Corte ha ritenuto che la valutazione della Corte d’Appello fosse immune da vizi. La decisione di secondo grado aveva infatti ampiamente e logicamente motivato l’incongruità tra l’accusa e le prove, evidenziando i numerosi dubbi sulla sussistenza stessa del fatto illecito, sulla sua riferibilità al lavoratore e, in generale, sulla sua qualificabilità come infrazione disciplinare.

Le Conclusioni

La sentenza ribadisce un principio cardine: nel giudizio di legittimità non è ammessa una riconsiderazione delle prove. Le censure del datore di lavoro si sono risolte in una mera contrapposizione della propria valutazione a quella, motivata e congrua, del giudice di merito. La decisione sottolinea che l’onere di provare in modo rigoroso e inequivocabile la condotta illecita del dipendente grava interamente sul datore di lavoro. In assenza di prove certe, precise e concordanti sull’illiceità degli accessi, sulla loro attribuibilità al lavoratore e sulla violazione di specifiche disposizioni, il licenziamento disciplinare non può che essere considerato illegittimo. Per le aziende, ciò significa che non è sufficiente rilevare un’anomalia; è necessario costruire un quadro probatorio solido, capace di superare ogni ragionevole dubbio, prima di procedere con la sanzione espulsiva.

Su chi ricade l’onere di provare l’illegittimità degli accessi informatici in un procedimento disciplinare?
L’onere della prova ricade interamente sul datore di lavoro. Secondo la sentenza, spetta all’azienda (in questo caso l’Istituto) dimostrare non solo l’avvenuto accesso, ma anche la sua illiceità, la sua riferibilità al dipendente e la violazione di specifiche norme o procedure aziendali.

È possibile chiedere alla Corte di Cassazione di riesaminare le prove e i fatti già valutati dal giudice di merito?
No, la Corte di Cassazione ha ribadito che non è possibile chiedere un riesame nel merito della vertenza. Il suo compito è verificare la corretta applicazione della legge e la logicità della motivazione della sentenza impugnata, non effettuare una nuova valutazione delle prove. I ricorsi che mirano a questo scopo sono dichiarati inammissibili.

Quali elementi possono rendere infondata un’accusa di accessi abusivi a un database aziendale?
Sulla base della decisione, l’accusa può risultare infondata a causa di numerose incongruenze, come la mancanza di prova che gli accessi riguardassero dati non pertinenti all’attività, l’assenza di una norma interna che vietasse specificamente tali operazioni, l’impossibilità di attribuire con certezza gli accessi al lavoratore (ad esempio perché assente in quei giorni) e la plausibilità che gli accessi fossero stati effettuati per legittime richieste dell’utenza.

La selezione delle sentenze e la raccolta delle massime di giurisprudenza è a cura di Carmine Paul Alexander TEDESCO, Avvocato a Milano, Pesaro e Benevento.

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