Ordinanza di Cassazione Civile Sez. 2 Num. 7362 Anno 2025
Civile Ord. Sez. 2 Num. 7362 Anno 2025
Presidente: NOME COGNOME
Relatore: NOME COGNOME
Data pubblicazione: 19/03/2025
ORDINANZA
sul ricorso 4258-2024 proposto da:
CONSIGLIO DELL’ORDINE DEGLI PSICOLOGI DEL LAZIO, in persona del Presidente Dott. NOME COGNOME, elettivamente domiciliato in ROMA, INDIRIZZO presso lo studio dell’avvocato NOME COGNOME (C.F. CODICE_FISCALE, da cui è rappresentato e difeso giusta procura in calce al ricorso;
-ricorrente –
contro
COGNOME, elettivamente domiciliata in ROMA, INDIRIZZO presso lo studio dell’avvocato COGNOME (C.F.
CODICE_FISCALE che la rappresenta e difende per procura in calce al controricorso;
-controricorrente –
nonché
PROCURATORE GENERALE DELLA REPUBBLICA PRESSO LA CORTE D’APPELLO DI ROMA;
-intimato – avverso la sentenza della CORTE DI APPELLO di ROMA n. 5254 del 2023, depositata il 20 luglio 2023;
lette le conclusioni scritte ed udito il Pubblico Ministero, nella persona del Sostituto Procuratore Generale, dott. NOME COGNOME che ha chiesto dichiararsi inammissibile il ricorso; lette le memorie della controricorrente;
udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 6 marzo 2025 dal Consigliere Dott. NOME COGNOME
MOTIVI IN FATTO DELLA DECISIONE
1. La Dott.ssa COGNOME Cecilia impugnava, davanti al Tribunale di Roma, la delibera consiliare dell’Ordine degli Psicologi del Lazio ( breviter : ‘OPL’) n. 207 del 2021, con cui le era stata inflitta, ai sensi dell’art. 26, co. 2, lett. d), della legge sull’Ordinamento della professione di psicologo, n. 56 del 1989, la sanzione della radiazione dall’Ordine per violazione dei doveri di cui agli artt. 2 e 8 del Codice deontologico degli psicologi (di seguito ‘CDP’). Il Consiglio aveva reputato che l’iscritta, con la condotta tenuta dinanzi al Tavolo tecnico dell’UNI (Ente Italiano di Normazione) al quale partecipava anche l’OPL, in rappres entanza della categoria professionale -per l’adozione, previa consultazione
degli esperti presenti, di un progetto di normazione sulla figura del counselor non psicologo, avesse sfruttato il proprio titolo professionale per avallare una figura pseudo professionale in aperta sovrapposizione a quella sanitaria di psicologo protetta dalla legge, non tutelando, in tal modo, né i potenziali utenti del counseling , né la professione stessa di psicologo, ma anzi favorendone, per l’effetto, l’esercizio abusivo. Ciò in violazione sia degli specifici doveri di condotta imposti dall’art. 8 CDP, sia dei principi generali di dignità, decoro e corretto esercizio della professione ex art. 2 cod. cit., considerata altresì l’aggravante dello scopo di lucro che la COGNOME -svolgendo per conto di una società commerciale corsi formativi per counselor -perseguiva mediante l’iniziativa volta ad accreditare tale figura.
In particolare, gli addebiti formulati dal Collegio disciplinare si fondano sulla dichiarazione da ella resa nel corso della riunione dell’UNI del 6.2.2019, in aperto e grave contrasto con gli artt. 1 e 3 della legge n. 56/1989 (che tipizzano le attività riservate alla professione di psicologo), secondo la quale, tra i diversi tipi di disagio psicoemotivo, quelli che interferiscono marcatamente con la vita del paziente possono essere gestiti esclusivamente dallo psicologo, mentre altri tipi di disagio non rientrano nella competenza esclusiva del detto professionista.
Invece a detta dell’OPL, le attività che si intendevano attribuire al counseling coincidevano con quelle riservate allo psicologo, generando una sovrapposizione tra le due figure, che la COGNOME, quale membro iscritto all’albo degli Psicologi, aveva il dovere di contrastare esprimendosi in senso contrario al progetto normativo; visto anche che in quella sede il Consiglio Nazionale
dell’Ordine degli Psicologi (‘CNOP’) e l’OPL avevano più volte ribadito che il counseling -come ogni altra attività pseudo professionale non regolamentata che interviene sui processi mentali umani -realizzi un esercizio potenzialmente abusivo della professione protetta di psicologo.
Il Tribunale adito, con sentenza n. 2133 del 2022, accoglieva le censure mosse dalla ricorrente, che lamentava l’insussistenza delle violazioni ascritte e comunque il carattere sproporzionato della sanzione; annullava quindi il provvedimento impugnato e condannava l’OPL alla refusione delle spese di lite a suo favore. Dichiarato inammissibile l’intervento in giudizio degli psicologi ad adiuvandum delle ragioni della professionista per carenza di interesse ad agire, compensava altresì le spese processuali nei loro confronti, sulla base della soccombenza reciproca e della sussistenza di questioni giuridiche controverse.
Tale sentenza veniva gravata dall’OPL chiedendo, in riforma di essa, l’accoglimento delle domande svolte in primo grado.
Il Tribunale aveva annullato il provvedimento espulsivo avendo ritenuto di non dover esaminare il ‘ fatto decisivo, cardine della motivazione della radiazione e oggetto di discussione tra le parti ‘, consistente nella sovrapposizione della figura abusiva del counselor -promossa dalla COGNOME in violazione delle norme deontologiche -a quella sanitaria di psicologo protetta ex lege , rinunciando pertanto a comprendere e ad apprezzare le ragioni ostative all’accreditamento del counseling in Italia e financo ad una proposta normativa in questo senso.
Veniva inoltre contestata l’erroneità della compensazione delle spese giudiziali tra l’OPL e gli psicologi intervenuti, a carico dei
quali dovevano essere poste per l’intero, stante la declaratoria di inammissibilità dell’intervento da loro proposto.
La Corte di Appello di Roma, con sentenza n. 5254 del 20 luglio 2023, condannava in solido gli intervenuti alle spese del primo grado, in parziale riforma della sentenza gravata, e per il resto confermava la decisione, condannando l’appellante a rifondere all’appellata le spese dell’appello e gli intervenuti soccombenti al pagamento all’appellante delle spese dello stesso grado.
Nel merito, infatti, la Corte era dello stesso avviso del Tribunale, ritenendo esulasse dalla sfera della cognizione giurisdizionale l’apprezzamento delle problematiche relative alla delimitazione delle attività e dei compiti esercitabili dal counselor , trattandosi di questioni scientifiche controverse, rispetto alle quali la libera manifestazione del pensiero non può incontrare limiti di sorta, ed essendo perciò irrilevante la maggiore o minore fondatezza della posizione assunta dall’Ordine o dalla professionista.
La Corte ha, invece, limitato la propria decisione alla verifica in concreto della corrispondenza fra la partecipazione al tavolo tecnico pre-normativo, di studio e di approfondimento, previsto normativamente, e l’illecito disciplinare attribuito all’appellata, giungendo a negare la sussistenza di un’omessa motivazione in relazione alle censure veicolate dall’Ordine, avendo apprezzato nel merito che la condotta della professionista era espressione di una mera opinione nell’ambito di un dibattito tecnico -scientifico a ciò appositamente deputato, escludendo che vi sia un dovere generale per gli iscritti negli ordini professionali di soggiacere alle indicazioni di essi che ne limitino il diritto di manifestazione del pensiero.
Avverso tale sentenza l’OPL ha proposto nei termini ricorso per cassazione affidandolo a due motivi.
La dott.ssa COGNOME resiste con controricorso.
Il Pubblico Ministero ha depositato conclusioni scritte.
La controricorrente ha depositato memorie in prossimità dell’udienza.
MOTIVI IN DIRITTO DELLA DECISIONE
Il primo motivo di ricorso denuncia, ai sensi dell’art. 360, co. 1, n. 5, c.p.c., l’omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio discusso tra le parti, difetto di pronuncia o comunque difetto di motivazione della sentenza sulle ragioni essenziali espresse nel provvedimento di radiazione. Deduce il ricorrente che la Corte distrettuale, avendo condiviso la scelta del Tribunale di non entrare nel merito della questione della sovrapponibilità della figura del counselor a quella di psicologo -sul presupposto che l’odierno giudizio ha, invece, come unico oggetto l’indagine se la mera partecipazione a un tavolo tecnico con posizioni di apertura alla normazione dell’attività di counseling rappresenti una condotta di sostanziale avallo dell’esercizio abusivo della professione di psicologo -avrebbe trascurato l’elemento decisivo, consistente nella validazione in sede UNI, da parte di una psicologa iscritta all’albo, di una attività pseudo professionale in violazione della riserva di legge sulle attività tipiche dello psicologo.
Proprio in quella sede, infatti, la controricorrente avrebbe affermato che l’intervento sul disagio psicologico non sempre è appannaggio esclusivo del medico psicologo, dando così prova di ignorare che qualunque disagio e/o patologia definibile come
psicologica è riservata per legge a tale categoria professionale. Una simile affermazione -sulla base della quale la COGNOME ha poi votato a favore della regolamentazione del counselor in Italia -contrasta sia con le direttive dell’OPL, del CNOP e del Ministero della Salute, sia con le evidenze scientifiche sul punto, motivo per il quale essa non equivale alla libera manifestazione del pensiero, ma si sostanzia in un’attività tendente alla validazione di un’attività professionale in abusiva competizione con la professione protetta, meritevole perciò di una sanzione piuttosto severa in ragione del potenziale coinvolgimento della salute mentale dei soggetti più fragili e vulnerabili.
Se la Corte d’Appello, anche tramite consulenza tecnica, fosse entrata nel merito delle ragioni della radiazione, avrebbe colto la piena corrispondenza tra l’illecito disciplinare attribuito alla odierna controricorrente e il contenuto del progetto normativo UNI counselor , addivenendo all’accoglimento del gravame.
2. Il motivo è infondato.
A detta del ricorrente, il diniego del giudice a quo di valutare nel merito le ragioni della radiazione della dott.ssa COGNOME gli avrebbe impedito di ravvisare l’illiceità della relativa condotta.
Appare a questo Supremo Collegio come l’OPL, attraverso tale censura, pretenda di imporre il sindacato giurisdizionale su di una questione che, in ragione della sua obiettiva problematicità (inquadramento dell’attività del counselor ed individuazione dei confini con quella di psicologo) era ancora oggetto di valutazione di carattere tecnico, priva quindi di una univoca sistemazione anche dal punto di vista scientifico, nella quale era appunto
sollecitato ad intervenire il tavolo tecnico, nel cui ambito era stata chiamata a dare il suo contributo la dott.ssa COGNOME
Seppure con alcune pronunce isolate, la giurisprudenza nega, infatti, di potere sindacare nel merito la veridicità delle opinioni scientifiche e quindi, a valle, rispetto alla bontà delle proposte di intervento normativo che si fondano su tali opinioni, come nella vicenda in esame; ciò in quanto nel mondo della scienza di regola si contendono il campo teorie generali e conseguenti soluzioni pratico-applicative diverse, non di rado inconciliabili fra loro e talvolta suscettibili di mutare nel tempo.
Nel caso di specie, la ‘fluidità’ che inevitabilmente riguarda le opinioni scientifiche è testimoniata, ad esempio, dal fatto che i lavori UNI counselor , dopo essere stati formalmente chiusi nel maggio 2017 per il mancato raggiungimento di una posizione condivisa e quindi per la decorrenza dei termini di elaborazione della scheda pre-normativa, sono stati in seguito riavviati con la partecipazione degli stessi Ordini professionali contrari.
Ciò detto, ove il giudice potesse essere investito di un siffatto compito, gli sarebbe chiesto di operare una valutazione eminentemente scientifica, con una sovrapposizione rispetto alle competenze degli organi tecnici scientifici deputati a formulare le proprie valutazioni, anche in vista di successive modifiche legislative. Ne deriva che la libertà della ricerca scientifica è di difficile regimentazione sul piano della valutazione giuridica, potendo solo la scienza, per l”autoreferenzialità ontologica’ c he la caratterizza, distinguere cosa è scientifico da ciò che non lo è. E nondimeno con molta difficoltà, in quanto la stessa possibilità di attingere dalla scienza la sua definizione, urta col fatto che il
pluralismo delle opinioni sui metodi scientifici (il cd. relativismo scientifico) impedisce di giungere a delle conclusioni condivise, coincidenti di solito con quelle della maior pars della comunità scientifica.
Difatti la verità rappresenta l’ideale, o l’obiettivo della scienza, che si trova tuttavia ad una distanza spesso notevole, senza peraltro che esistano garanzie di sorta che l’una o l’altra teoria possano far perseguire, o almeno avvicinare, all’obiettivo della verità; il cui tentativo di raggiungimento è ulteriormente complicato dal fatto che -soprattutto nelle ‘scienze umane’ alcuni caratteri della vita umana influiscono enormemente sia sulla creazione, sia sulla valutazione delle teorie e delle scoperte scientifiche, di modo che il carattere umano, personale, e pertanto libero della ricerca scientifica è una condizione per la sua stessa esistenza.
L’inclusione in Costituzione di un insieme di norme riguardanti la scienza e la ricerca (artt. 9, 33, co. 1, e, a seguito della riforma del 2001, 117, co. 3) rispecchia proprio l’esigenza di assicurare l’ontologica libertà della ricerca, in misura ancora più netta della stessa libertà di manifestazione del pensiero, dai rischi di asservimento e soffocamento da parte dei poteri pubblici e privati.
Per questa ragione in un panorama scientifico non concorde né univoco, al potere giurisdizionale compete l’accertamento della natura scientifica o meno di un lavoro o di una teoria, oltreché dell’eventuale violazione dei limiti imposti dal rispetto dei valori fondamentali della persona, ma non delibarne la verità o bontà metodologica. Perciò la Suprema Corte, nel giudizio instaurato da
un medico chirurgo per il risarcimento dei danni derivanti da un’opinione di discredito espressa dalla società di medici del settore di interesse nei confronti di una tecnica operatoria da egli praticata, ha apertamente affermato l’impossibilità per il giudice di formulare un giudizio di verità oggettiva sulla validità scientifica della terapia controversa; con conseguente inutilità di ogni accertamento peritale o esame testimoniale sul punto, poiché sarebbe in ogni caso impossibile un apprezzamento nel merito delle opinioni e valutazioni contrastanti: ‘ È fuori luogo pretendere di verificare la verità del contenuto della risoluzione attraverso indagini specialistiche e financo attraverso l’esame testimoniale, poiché -come rilevato anche dal Tribunale -il giudice non può farsi carico di accertare la validità scientifica o meno della terapia chirurgica praticata , trattandosi di valutazioni tecniche sottratte per la loro natura ad un giudizio di verità oggettiva . Queste ineccepibili considerazioni valgono a dimostrare la totale irrilevanza ed infondatezza, delle censure con cui i ricorrenti addebitano (sia pur ‘subordinatamente’) ai giudici di appello di non avere esaminato gli autorevoli ‘pareri’ da loro prodotti a sostegno del giudizio critico espresso nella risoluzione della Società e di non aver compiuto una sorta di verifica comparativa sulla qualità del materiale probatorio offerto dalle parti, da cui sarebbe emersa, a loro parere, una ‘presunzione di fondatezza’ di detto giudizio o addirittura ‘la presunzione di verità’ del disvalore imputato alla condotta del medico’.
Né assumerebbe più consistenza il rilievo secondo cui il giudice, al fine di comprendere le ragioni della critica della Società di medicina -che avrebbero giustificato l’apertura di un
procedimento disciplinare a carico del medico – avrebbe dovuto disporre il mezzo imparziale della consulenza tecnica d’ufficio , rinvenendo il giudizio di superfluità dell’accertamento peritale giustificazione nelle superiori considerazioni circa l’impossibilità di addivenire ad un ‘giudizio di verità oggettiva’ sulla validità scientifica di una terapia chirurgica intorno alla quale si erano sviluppate contrastanti opinioni e valutazioni (cfr. Cass. Civ. n. 4109/1993).
Dalla giurisprudenza di legittimità si ricava dunque l’indirizzo per il quale non può essere accolta, in ragione della ontologica irrisolvibilità del quesito che essa pone, la domanda volta ad ottenere una pronuncia sulla validità scientifica di un’opinione o di un un’opera scientifica in una materia controversa, poiché è impossibile addivenire, in un quadro oltremodo incerto, ad un giudizio di verità oggettiva stabile e attendibile nel merito delle valutazioni contrastanti, idoneo a far stato tra le parti ai sensi e per gli effetti dell’art. 2909 c.c.. Ne consegue che il giudice non può pronunciarsi nel merito delle questioni dalla cui soluzione dipende la risposta alla domanda così proposta, che sfugge, per quanto detto, alla sfera cognitiva giurisdizionale.
L’opportunità di un siffatto principio è apprezzabile soprattutto nei casi in cui dal giudizio di disvalore sulla validità dell’opinione o dell’opera dipenda il prodursi di una conseguenza giuridica negativa nella sfera del soggetto che ne ha la paternità (come, ad esempio, la radiazione dall’albo professionale).
È per queste ragioni che i giudici di merito non erano chiamati ad esprimersi sulla validità scientifica delle opinioni espresse dalla COGNOME, posto che non sarebbero mai potuti addivenire –
nemmeno a mezzo di una consulenza tecnica -ad un giudizio univoco ed incontrovertibile di verità oggettiva dell’una o dell’altra tesi sostenute dalle parti.
L’unico punto che poteva essere e correttamente è stato -oggetto di esame da parte dell’autorità giudiziaria è la verifica se la manifestazione, in un consesso a ciò deputato, di un pensiero dissenziente da quello degli enti professionali di appartenenza, nonché dalle indicazioni del Ministero vigilante, integri, per ciò solo, un fatto deontologicamente illecito.
Inquadrato in questi termini il thema decidendum del presente giudizio, risulta pienamente condivisibile la decisione dei giudici di merito che, preso atto della complessità della questione, hanno escluso la rilevanza disciplinare dei fatti contestati, attesa ‘ la valutazione delle complesse problematiche riguardanti l’inquadramento, la delimitazione dell’attività, l’esplicazione dei compiti e delle eventuali funzioni esercitabili dal counselor, nonché la sovrapponibilità di questa allo psicologo , perché nel presente giudizio occorreva indagare se la mera partecipazione ad un tavolo tecnico di studio e di approfondimento, quale peraltro espressamente previsto dalla normativa citata, con posizioni di apertura alla normazione dell’attività di counselor , costituisse una condotta di sostanziale avallo dell’esercizio abusivo della professione, pertanto idonea a configurare l’illecito disciplinare attribuito alla ricorrente ‘ (cfr. sentenza impugnata, pp. 5-6).
Appare perciò manifestamente infondato il primo motivo di ricorso, che contesta, in relazione all’art. 360, co. 1, n. 5, codice
di rito, l’omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio oggetto di discussione fra le parti.
A ben vedere, infatti, non vi è stato alcun omesso esame del ‘fatto’ su cui è richiamata l’attenzione della Corte che al contrario è stato esaminato dalla Corte d’Appello che ha ritenuto ‘ non necessario ai fini della decisione, affermare o negare la sovrapponibilità dell’attività di counselor a quella di psicologo’, proprio perché l’unico fatto decisivo in questo senso è relativo al riscontro se la partecipazione ad un tavolo tecnico, sostenendo una posizione di apertura alla regolamentazione normativa dell’attività di counselor , sia una condotta di favoreggiamento dell’esercizio abusivo della professione di psicologo (vd. supra ).
Ritiene la Corte che la risposta data dal giudice di merito alla questione ora evidenziata sia incensurabile.
Si legge in sentenza (pagg. 5-6) che la condotta sanzionata non integra alcun illecito disciplinare ‘ essendosi la COGNOME limitata a esprimere una propria opinione in maniera trasparente senza falsare i termini del contraddittorio ‘.
La risposta negativa data dalla Corte distrettuale, che ha anche esaminato i documenti da cui, a detta del ricorrente, avrebbe dovuto ricavarsi la pretesa illiceità della condotta contestata -esame ovviamente quivi non censurabile poiché involge l’apprezzamento di questioni di fatto riservate al giudice di merito -è incensurabile in diritto.
Infatti, per come ricostruita anche in ricorso, tale condotta si traduce nella mera espressione di una opinione nell’ambito di un dibattito tecnico-scientifico aperto, finalizzato proprio ad accertare quale fosse l’opinione dei vari esperti in materia e,
quindi, se vi fosse consenso per adottare la scheda pre-normativa votata favorevolmente dalla COGNOME. Deve perciò escludersi che la controricorrente abbia violato qualche precetto deontologico, essendosi comportata in modo pienamente conforme agli obiettivi ed alle finalità del contesto ove era stata invitata ad esprimere il proprio pensiero.
Non è dato comprendere in che modo possa reputarsi che ella abbia, aderendo all’iniziativa normativa del counseling , svilito la figura dello psicologo e leso, per l’effetto, la categoria professionale; a maggior ragione se si considera che l’OPL aveva comunicato la propria posizione contraria -che, proprio per il ricordato principio di libertà di espressione delle opinioni scientifiche, è a sua volta legittima e insindacabile nel merito -in pareri non vincolanti, di talché la COGNOME non aveva l’obbligo di conformare la propria libertà di manifestazione del pensiero, adeguandosi alla posizione dell’Ordine di appartenenza.
5. In disparte quest’ultimo aspetto non secondario ai fini della valutazione della decisione impugnata, ma oggetto di analisi nel secondo motivo di ricorso -va evidenziato che offre il destro per ribadire l’insegnamento della Corte costituzionale secondo cui l’espressione delle opinioni in ambito scientifico è, quale species della libertà di manifestazione del pensiero, un diritto presidiato dall’art. 21 Cost.: ‘ La libertà di diffusione del pensiero artistico e scientifico è tutelata non dall’art. 33 del la Costituzione, che riguarda soltanto la libertà dell’arte e della scienza e quella del loro insegnamento, senza occuparsi della loro diffusione, ma dall’art. 21, co. 1, Cost., che genericamente si riferisce alla libertà di diffusione di ogni pensiero, e perciò necessariamente
anche in quelle più elevate espressioni di esso, che sono le creazioni artistiche e scientifiche ‘ (C. Cost. n. 59/1960; C. Cost. n. 9/1965 secondo cui, in relazione alla manifestazione di pensiero finalizzata a propagandare la limitazione delle nascite, ha escluso che la condotta fosse sanzionabile ai sensi dell’art. 533 c.p., all’epoca vigente, ritenendo che la libertà di manifestazione del pensiero scientifico, trova nell’art. 33, comma primo, Cost. una tutela rafforzata, non potendosi limitare ogni pubblica discussione sulla materia della limitazione delle nascite). Il riferimento all’art. 21 Cost. implica che l’esercizio di tale libertà, quando avviene con modalità rispettose dei limiti previsti dall’ordinamento, ancorché sia nel concreto contenuto difforme dal pensiero di altri, e a prescindere dalla maggiore o minore autorevolezza intellettuale di costoro, è insuscettibile di sanzione, sia da parte degli organi statali sia dagli organismi preposti all’applicazione delle sanzioni disciplinari.
Ove, infatti, la manifestazione del pensiero artistico e scientifico potesse diventare fonte di responsabilità per l’individuo, per il solo fatto di essere contenutisticamente diversa da quella altrui, si attenterebbe al nucleo insopprimibile delle libertà costituzionali che la presidiano.
Invero la Costituzione repubblicana garantisce, oltre alla libertà di espressione del pensiero ex art. 21, la libertà della scienza al successivo art. 33, co. 1, sancendo: ‘ L’arte e la scienza sono libere e libero ne è l’insegnamento ‘.
Anche l’art. 13 della Carta di Nizza, preso atto delle tradizioni costituzionali degli Stati membri dell’Unione europea, afferma che
‘ le arti e la ricerca scientifica sono libere ‘, garantendo la tutela del pluralismo culturale e scientifico negli Stati stessi.
Entrambe queste manifestazioni dell’agire umano godono della massima tutela costituzionale in ambito nazionale e sovranazionale in ragione dell’apporto essenziale che forniscono al ‘ progresso della conoscenza, alla creazione, allo sviluppo e allo scambio di idee e di opinioni, indispensabile in ogni società democratica ‘ (Corte EDU, 24.05.1988, Müller, ric. n. 10737/84), che, proprio per questi motivi, si prefigge di mantenere e garantire i diversi punti di vista, in un regime di pluralismo culturale e scientifico.
La Corte costituzionale ha avvertito il bisogno di precisare che la ‘ tutela costituzionale dei diritti ha sempre un limite insuperabile nell’esigenza che, attraverso l’esercizio di essi, non vengano sacrificati beni ugualmente garantiti dalla Costituzione ‘ (C. Cost., 16.3.1962, n. 19).
Ne deriva che se, ai sensi dell’art. 2 Cost., la ricerca scientifica è sicuramente riconducibile tra i diritti umani inviolabili, essa rinviene nondimeno un proprio limite interno nel dovere di solidarietà imposto dallo stesso art. 2, poiché anche la ricerca scientifica, come qualsiasi attività umana, soggiace al principio generale del neminem laedere . Lo svolgimento di una attività scientifica non costituisce, cioè, un’esimente rispetto alla regola della responsabilità, in tutte le sue forme giuridiche.
Vi è però una peculiarità: il bilanciamento tra gli altri valori costituzionalmente tutelati e la libertà della scienza e della sua diffusione deve effettuarsi, sotto il profilo della ragionevolezza, della proporzionalità e dell’adeguatezza della compressione di
quest’ultima, in forma ‘aggravata’, in virtù dell’elevato livello di tutela accordato dalla Costituzione. La Consulta esige cioè che il bilanciamento sia content neutral , ovverosia immune da ogni pretesa di imporre ad altri le proprie opinioni politiche, religiose, scientifiche, per non intaccare il ‘nocciolo duro’ della libertà della ricerca (C. cost., n. 114/1998 e n. 282/2002).
In questo contesto, la giurisprudenza ha interpretato i principi di libertà fissati dagli artt. 21 e 33 Cost., per quanto riguarda l’ambito artistico, nel senso che, ‘ salvo il caso in cui la libertà artistica si traduca in una gratuita denigrazione del prossimo e conseguentemente nella lesione dell’altrui dignità, l’artista potrà sempre invocare l’esercizio del proprio diritto di creazione artistica riconosciuto dall’art. 33 Cost.’ , il quale ‘ va inteso ed interpretato nella sua autentica portata, che è quella di consentire all’arte ed alla scienza di esteriorizzarsi senza subire orientamenti ed indirizzi univocamente e autoritativamente imposti. Sotto tale esclusivo profilo questa esteriorizzazione non può ritenersi tutelata fino al punto di pregiudicare altri interessi di rilievo costituzionale ‘ (C. Cost. n. 57/1976).
In ambito scientifico si è posta l’esigenza di interpretare tali principi entro i confini del diritto di critica scientifica, il quale, ‘ allorché implichi un giudizio di disvalore, idoneo ad incidere sulla reputazione e sul prestigio professionale della persona nei cui confronti la critica è rivolta, è condizionato, quanto alla legittimità del suo esercizio, all’osservanza del limite della continenza, che viene in considerazione non solo sotto l’aspetto della correttezza formale dell’esposizione, ma anche sotto il profilo sostanziale consistente nel non eccedere i limiti di quanto strettamente
necessario per appagare il pubblico interesse, e postula che il suddetto giudizio sia espresso non in termini assiomatici ma accompagnato da congrua motivazione, qual che sia l’autorità scientifica del suo autore. L’inosservanza di siffatti limiti obbliga l’autore del fatto al risarcimento dei danni, che, tuttavia, si estendono a comprendere anche quelli morali solo quando il fatto stesso integri gli estremi di reato. (Nella specie, enunciando il principio di cui in massima, la S.C. ha confermato la sentenza con cui i giudici di merito avevano ritenuto che il limite della continenza fosse superato dall’avere l’associazione scientifica autrice della critica ipotizzato anche la violazione di regole deontologiche da parte del professionista autore delle pratiche mediche criticate ed al tal fine investito il competente ordine professionale dei propri apprezzamenti negativi) (Cass. Civ., 4109/1993; conf. Cass. Civ., 370/2002).
Gli artt. 2133 Cost. tutelano quindi l’esteriorizzazione dell’arte e della scienza da ogni indirizzo autoritativamente imposto, con il solo limite del non pregiudizio di altri interessi di rilevanza costituzionale. Sicché l’esercizio del diritto di critica scientifica che si ponga in contrasto con essi, quali l’onore e reputazione, dovrà avvenire nel rispetto del limite della continenza.
Al contrario, la mera diffusione di un pensiero scientifico che non abbia portata critica nei confronti di alcuno o di alcunché, e pertanto inidoneo a mettersi in antitesi con altri valori protetti, è tendenzialmente priva di limiti, primo dei quali -per quanto detto in precedenza -il requisito della verità oggettiva di esso (e sempre che non si traduca nella immotivata negazione di
consolidate acquisizioni della conoscenza scientifica, tale da porre in pericolo l’altrui integrità psico fisica).
Ben si comprende, dunque, come la libera manifestazione del pensiero scientifico possa tantomeno incontrare un limite nella diversità dell’opinione di chi, rivendicando maggiore autorità scientifica, pretenda per ciò solo di screditare idee diverse dalla propria, la quale assurge a parametro di validità e legittimità di tutte le altre. Ciò vanificherebbe il fondamentale principio del pluralismo ideologico, culturale e scientifico voluto dagli artt. 3, 21 e 33 Cost., nonché dall’art. 13 CDFUE, per il funzionamento della società democratica.
L’applicabilità di tali coordinate ermeneutiche alla vicenda in decisione vieta di comporre il contrasto sulla possibilità di riconoscere autonoma dignità professionale alla figura del counselor, manifestatosi tra l’opinione della COGNOME e quella dell’OPL (da quest’ultimo ritenuta preferibile per tutelare la categoria professionale) nel senso della illiceità della prima.
Ad un tale esito osta anche lo speciale contesto in cui la controricorrente ha espresso il proprio pensiero, i.e . una consensus conference .
Invero, non può non valorizzarsi tale elemento onde confutare la tesi sostenuta dal ricorrente.
Le conferenze di consenso sono uno strumento, diffuso soprattutto in ambito medico-sanitario, per raggiungere -mediante un processo formale e strutturato, che si incentra su un dibattito libero e aperto nel quale sono coinvolti esperti del tema da discutere -un accordo in merito a questioni clinico-sanitarie, specifiche e controverse, sulle quali non esiste, appunto, una
uniformità di opinioni. Scopo di una conferenza di consenso è, quindi, raccogliere e confrontare i diversi punti di vista rispetto alle aree di incertezza esistenti tra ricerca e applicazione clinicoterapeutica, le quali richiedono un significativo sforzo di analisi, valutazione critica e sintesi delle conoscenze disponibili, al fine di raggiungere un’omogeneità di comportamenti sul piano clinico, organizzativo e gestionale.
Così definito il contesto in cui la COGNOME ha posto in essere la condotta sanzionata, va da sé che non costituisce un illecito deontologico per violazione dell’obbligo, ex art. 8 CDP, norma di tutela della categoria professionale, ma rappresenta anzi l’esercizio normale ed equilibrato della partecipazione al dibattito in seno alla conferenza di consenso sul counselor , anche l’espressione di un voto favorevole all’attivazione in Italia dei servizi di counseling .
È dunque incoerente sia con la libertà di manifestazione del pensiero, sia con la logica specifica della consensus conference , l’iniziativa disciplinare dell’OPL verso la dott.ssa COGNOME dato che tale spazio di riflessione era stato proposto dal CNOP proprio per risolvere, grazie all’intervento di esperti del settore e degli enti italiani rappresentativi della professione di psicologo, le controversie che si agitavano circa la natura del counseling ed il tipo di formazione che gli specialisti coinvolti avrebbero dovuto possedere per offrire un valido servizio a favore dei cittadini.
A mente dell’art. 2 CDP, i fatti che possono assumere rilievo disciplinare sono esclusivamente quelli derivanti dall’inosservanza dei precetti, degli obblighi e dei divieti da esso fissati, e ogni azione od omissione comunque disdicevoli al decoro o al corretto
esercizio della professione di psicologo. Tale non può reputarsi il giudizio espresso dalla COGNOME, che non è un ‘fatto’ inerente all’esercizio della professione, ma è invece estrinsecazione della libera manifestazione delle opinioni in ambito scientifico.
Una volta escluso che la condotta della COGNOME integri una violazione dei propri obblighi legali o convenzionali, l’interpretazione delle norme deontologiche offerta dal Consiglio disciplinare si palesa errata, non potendosi reputare che nel caso di specie vi sia un conflitto tra la libera manifestazione del pensiero e l’interesse pubblicistico alla tutela della categoria professionale.
È infatti privo di fondamento il tentativo, reiterato dall’OPL in questa sede al fine di simulare l’esistenza di un pericolo per la tutela dell’interesse di categoria -di stigmatizzare la dichiarazione resa dalla COGNOME in ordine alla corretta qualificazione del termine ‘disagio’, essendo stato tale aspetto chiarito dalla sentenza impugnata (cfr. pag. 6).
Invero, la riconosciuta autorità istituzionale e scientifica degli Ordini professionali e dei componenti dei loro Consigli direttivi non può porre un’aprioristica ‘presunzione di fondatezza’ delle loro valutazioni, tecniche e morali, a discapito di quelle di altri enti o dei singoli professionisti, soprattutto quando sia in atto ‘ un vivace, aspro, insuperabile ma sempre motivato contrasto di opinioni sull’opportunità di introdurre la figura consulenziale ‘.
La netta affermazione della libertà della scienza porta infatti a riconoscerne il carattere universalistico: la libertà di fare e di diffondere la scienza è di tutti con esclusione di qualsivoglia
aprioristica ed esclusiva incorporazione in categorie privilegiate (cfr. Cass. Civ. n. 4109/1993).
7. Con il secondo motivo di ricorso è censurata la violazione e falsa applicazione degli artt. 2 e 8 del CDP in relazione all’art. 360, co. 1, n. 3, c.p.c., per avere la Corte territoriale dichiarato legittima la condotta della COGNOME trascurando -oltre al fulcro essenziale della motivazione del provvedimento espulsivo -il carattere vincolante delle direttive sia degli Ordini professionali, in qualità di organi sussidiari dello Stato, per la tutela dell’interesse categoriale professionale, sia, poi, del Ministero della Salute, al quale l’OPL si era rivolto onde ottenere un intervento inibitorio del progetto di normazione, indicazioni con le quali la appellata si era posta in contrasto votando a favore di una ‘ figura pseudo professionale abusiva ‘.
Il ricorrente si riferisce, in particolare, alla nota del 21.3.2018 n. 2621 con cui l’OPL inoltrava all’UNI una serie di rilievi critici volti a evidenziare la sovrapposizione della figura del counselor a quella dello psicologo, e in noncuranza della quale la Biava, nella riunione del 23.5.2018, votava a favore dell’approvazione della scheda pre-normativa; alla comunicazione del CNOP del 10.11.2018, secondo cui ‘ non esiste una professione autonoma di counselor , perché il counseling è attività di consulenza delle professioni regolamentate e, per le materie psicologiche, già riservata agli psicologi ‘; e, infine, alla nota del 18.1.2019 con cui il Ministero della Salute -su sollecito del CNOP -chiedeva all’UNI di sospendere i lavori del progetto normativo.
La tesi sostenuta è che le linee di condotta emanate dagli enti pubblici quali il CNOP e l’OPL – che esercitano, per conto dello
Stato, la funzione di vigilanza e disciplinare nei confronti dei propri iscritti, siano vincolanti al pari delle norme deontologiche codicistiche, avendo natura autoritativa, di talché commette un illecito disciplinare il professionista che disattenda tali direttive.
Fatta questa premessa, viene dedotta l’erroneità del giudizio di liceità della condotta della controricorrente, poiché in contrasto con le indicazioni del proprio Ordine che miravano ad impedire l’attività di soggetti potenzialmente abusivi.
Il giudice a quo ha negato, infatti, che la diversità della posizione assunta dalla controricorrente sia fonte di responsabilità deontologica, in quanto gli atti con cui tali soggetti hanno comunicato il loro dissenso (nota protocollo, newsletter, etc.) non hanno valore precettivo, e non esiste un dovere per gli iscritti agli albi professionali di conformarsi a quelle indicazioni non vincolanti, limitando in tal modo la libertà di manifestazione del pensiero.
A parere dell’OPL, invece, la promozione, a scopi commerciali, del risultato che si intendeva perseguire col progetto di modifica normativa non costituisce la mera manifestazione di un’opinione personale, ma un’attività materiale tesa alla creazione di una figura pseudo professionale in abusiva e penalmente illecita, ex art. 348 c.p., competizione con la categoria degli psicologi, ed in violazione sia degli artt. 2 e 8 del CDP -che impongono di sanzionare gli psicologi i quali contribuiscono ai processi di validazione, legittimazione sociale, e piazzamento nel mercato di soggetti potenzialmente abusanti -sia delle contrarie indicazioni degli enti preposti alla tutela e vigilanza sulla categoria professionale.
Conclude perciò il ricorrente che l’esercizio, nei confronti della COGNOME, del potere disciplinare ex art. 26 della legge 56/1989, a mezzo della inflizione della più grave sanzione della radiazione, rappresenta la doverosa reazione di un organo sostanzialmente statale all’inosservanza di tali precetti autoritativi deontologici, concretatasi nell’illecito favoreggiamento dell’esercizio abusivo della professione di psicologo.
Se, dunque, la Corte avesse accertato la realtà sostanziale per quella che è, una volta dichiarata la soccombenza della COGNOME, non avrebbe erroneamente condannato l’OPL alla rifusione in suo favore delle spese del giudizio di appello.
6. Il motivo è infondato.
La controricorrente, per effetto della condotta tenuta al tavolo tecnico dell’UNI, avrebbe violato l’art. 8 CDP e le direttive degli Ordini professionali che, facendo impropriamente leva su tale articolo, si esprimevano in senso negativo all’introduzione della figura del counselor . Ciò avrebbe giustificato, a norma dell’art. 2 del CDP, l’esercizio del potere disciplinare ex art. 26, co. 1, della legge n. 56 del 1989.
L’insussistenza della violazione denunziata emerge ictu oculi dalla lettura dell’art. 8 CDP, il quale testualmente sancisce: ‘ Lo psicologo contrasta l’esercizio abusivo della professione come definita dagli artt. 1 e 3 della Legge 18 febbraio 1989, n. 56, e segnala al Consiglio dell’Ordine i casi di abusivismo o di usurpazione di titolo di cui viene a conoscenza. Parimenti, utilizza il proprio titolo professionale unicamente per attività ad esso pertinenti, e non avalla con esso attività ingannevoli od abusive ‘.
In base a tale disposizione, quindi, compie un illecito deontologico lo psicologo che non contrasta l’esercizio abusivo da parte del terzi della sua professione, ossia delle attività tipizzate dagli artt. 1-3 della Legge professionale, o che, a mezzo del proprio titolo, avalla attività ingannevoli o abusive. La ratio è evidente: imporre agli appartenenti alla categoria l’obbligo di denunciare fatti penalmente rilevanti di esercizio abusivo della professione, con l’adozione di ogni azione tesa a contrastare dei fatti costituenti anche reato. Ma la portata precettiva della norma non può estendersi anche alla diversa ipotesi in cui il professionista manifesti un’opinione favorevole alla legale regolamentazione di un’attività professionale che reputi diversa da quella di psicologo.
Alcuno degli illeciti tipizzati dall’art. 8 è quindi ascrivibile alla COGNOME, posto che questa -per tutte le ragioni già espresse -non ha inteso promuovere l’esercizio abusivo delle attività riservate dalla legge allo psicologo, o avallato attività ingannevoli o abusive, ma ha solamente ed in maniera legittima espresso il consenso alla regolamentazione di quella che reputa essere una differente figura professionale -quella del counselor -destinata ad offrire prestazioni diverse -di natura non terapeutica di un disagio psicologico sul quale può intervenire esclusivamente lo psicologo -ma consulenziale in favore dell’utenza.
Rilevante è la circostanza che tale personale valutazione sia stata espressa nella consensus conference organizzata dall’UNI, il cui scopo -noto e perciò condiviso da tutti gli enti, come l’OPL e il CNOP, che vi avevano aderito -era quello di evitare incertezze tra i possibili utenti del counseling e conflitti interprofessionali,
raggiungendo un accordo sulla definizione: i) del counseling e delle sue attività tipiche; ii) delle professioni protette coinvolte; iii) delle competenze necessarie e dei percorsi formativi.
Non può allora censurarsi l’argomentazione del Tribunale con cui ha annullato la sanzione disciplinare: ‘ Ne deriva che la legittima partecipazione ad un’attività pre -normativa, di studio e ricerca, oltretutto in fase embrionale e priva di efficacia cogente, costituente il momento di confronto tra le numerose istituzioni presenti, onde arrivare ad una soluzione condivisa della professione di counselor , derivante dall’apporto di tutti i partecipanti, tra cui lo stesso Consiglio Nazionale dell’Ordine, di per sé non possa configurare la grave condotta contestata, non essendo definibile come connivenza o favoreggiamento (avallo) di una specifica condotta penalmente rilevante o, comunque, di un’attività ingannevole o abusiva, atteso che il dibattito sulla sovrapponibilità dell’attività di counseling alla professione di psicologo risultava ancora aperto (cfr. controricorso, p. 24).
Va pertanto smentito l’impianto accusatorio secondo cui l’aver espresso una posizione difforme dalle comunicazioni dell’OPL e del CNOP, contrarie alla regolamentazione del counseling , sia fonte di responsabilità. Non solo perché nessuna norma deontologica è stata violata, ma anche perché tali direttive non hanno natura precettiva.
Il ricorrente, sottolineando la propria natura di ente riferibile allo Stato, pretende invece di estendervi la medesima efficacia normativa delle norme deontologiche, sul presupposto che esse siano atti autoritativi, a cui i destinatari devono
obbligatoriamente attenersi e sulla cui scorta è dato valutare le relative condotte.
Ma una cosa sono le prescrizioni del Codice deontologico, la cui violazione da parte degli iscritti comporta l’irrogazione di sanzioni disciplinari (e ciò in quanto l’art. 1 del CDP stabilisce che le sue prescrizioni sono ‘ vincolanti per tutti gli iscritti all’Albo degli psicologi ‘, mentre l’art. 2 ne garantisce l’osservanza a mezzo del potere disciplinare attribuito dall’art. 26 della l. n. 56/1989 all’Ordine professionale), mentre diverse sono le indicazioni e le linee guida, specifiche o generali, dirette a regolare nuove esigenze della professione o nuove vicende del rapporto intersoggettivo con il paziente in considerazione delle mutate condizioni del contesto economico-sociale, le quali invece non hanno immediato valore precettivo.
Ne sono privi anche i pareri adottati dagli Ordini professionali nell’esplicazione della loro funzione consultiva.
L’art. 14, co. 2, del D.Lg.Lt. n. 382/1944 dispone infatti che i Consigli nazionali ‘ danno parere sui progetti di legge e di regolamento che riguardano le rispettive professioni e sulla loro interpretazione, quando ne sono richiesti dal Ministro di grazia e giustizia ‘. Si tratta, infatti, di atti che non attengono alle attività di raccolta e di codificazione di regole tradizionali di condotta, destinate ad essere vincolanti nei confronti degli iscritti, ma che rientrano nell’esercizio della potestà informativa -consultiva dell’ente, con un’efficacia meramente direttiva, sicché non possono mai porsi in concreto come un limite all’esercizio della libera manifestazione dell’opinione scientifica da parte dell’iscritto soprattutto quando questa sia esternata in occasione della
partecipazione, in funzione consultiva, ad un tavolo tecnico di studio e di ricerca.
Depone nel senso che tali atti difettano di efficacia normativa anche il passaggio della sentenza della Corte costituzionale n. 259/2019 citata dallo stesso ricorrente (cfr. ricorso, p. 31), che, nel descrivere la natura e le funzioni in particolare degli Ordini delle professioni sanitarie, pur riconoscendo che trattasi di enti pubblici non economici che agiscono in via sussidiaria allo Stato, con il fine di tutelare gli interessi pubblici connessi all’esercizio professionale, in nessuna parte stabilisce che le direttive del Consiglio regionale e/o nazionale sono, per il sol fatto di essere riconducibili all’apparato statale, atti autoritativi aventi efficacia vincolante.
Stante l’integrale rigetto del ricorso, nulla deve disporsi in ordine alle questioni contenute nel ricorso introduttivo di primo grado, ivi assorbite ed espressamente riproposte in appello ex art. 346 c.p.c., oggi nuovamente veicolate con il controricorso.
Il ricorso è pertanto rigettato, dovendosi pertanto regolare le spese in base al principio della soccombenza, provvedendosi alla liquidazione come da dispositivo, con attribuzione all’avvocata NOME di Cunzolo, dichiaratasene anticipataria.
Poiché il ricorso è rigettato, sussistono le condizioni per dare atto -ai sensi dell’art. 1, co. 17, della legge 24 dicembre 2012, n. 228 (Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato -Legge di stabilità 2013), che ha aggiunto il comma 1quater dell’art. 13 del TU di cui al d.P.R. 30 maggio 2002, n. 115 -della sussistenza dei presupposti processuali dell’obbligo di versamento, da parte del ricorrente, di
un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per la stessa impugnazione.
P. Q. M.
La Corte rigetta il ricorso e condanna la ricorrente al rimborso delle spese che liquida in complessivi € 5.700,00, di cui € 200,00 per esborsi, oltre spese generali pari al 15% sui compensi, ed accessori di legge, con attribuzione al difensore antistatario;
ai sensi dell’art. 13, co. 1 -quater , del d.P.R. n. 115/2002, inserito dall’art. 1, co. 17, l. n. 228/12, dichiara la sussistenza dei presupposti processuali per il versamento di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato per il ricorso, a norma del co. 1bis dello stesso art. 13, se dovuto.
Così deciso nella camera di consiglio della Sezione Seconda Civile