Sentenza di Cassazione Civile Sez. L Num. 13071 Anno 2024
Civile Sent. Sez. L Num. 13071 Anno 2024
Presidente: COGNOME NOME
Relatore: NOME COGNOME
Data pubblicazione: 13/05/2024
SENTENZA
sul ricorso 19958-2019 proposto da:
NOME COGNOME, elettivamente domiciliato in ROMA, INDIRIZZO, presso lo studio dell’avvocato NOME COGNOME, rappresentato e difeso dagli avvocati COGNOME, NOME COGNOME;
– ricorrente –
contro
RAGIONE_SOCIALE, in persona del Ministro pro tempore, ISPETTORATO NAZIONALE DEL RAGIONE_SOCIALE (già RAGIONE_SOCIALE RAGIONE_SOCIALE DEL RAGIONE_SOCIALE), ISPETTORATO RAGIONE_SOCIALE DEL RAGIONE_SOCIALE RAGIONE_SOCIALE/RAGIONE_SOCIALE (già RAGIONE_SOCIALE), in persona dei rispettivi legali rappresentanti pro tempore, rappresentati e difesi ope legis dall’RAGIONE_SOCIALE DELLO RAGIONE_SOCIALE presso i cui Uffici domiciliano in ROMA, alla INDIRIZZO;
contro
ricorrenti –
R.G.N. 19958/2019
COGNOME.
Rep.
Ud. 05/03/2024
PU
avverso la sentenza n. 140/2019 della CORTE D’APPELLO di L’AQUILA, depositata il 07/03/2019 R.G.N. 69/2018; udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 05/03/2024 dal Consigliere AVV_NOTAIO COGNOME; udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale AVV_NOTAIO COGNOME, che ha concluso per il rigetto del ricorso; uditi gli avvocati NOME COGNOME, NOME COGNOME.
FATTI DI CAUSA
La Corte d’Appello di L’Aquila rigettava l’appello proposto da NOME COGNOME avverso la sentenza del Tribunale di Pescara con la quale era stata rigettata l’opposizione del medesimo avverso l’ordinanza-ingiunzione n. 334/2013 con cui gli erano state irrogate sanzioni amministrative (per € 272.191), in relazione alla violazione di diverse disposizioni della normativa in materia di assunzione e regolarizzazione dei lavoratori, a seguito di accertamento ispettivo riguardante oltre 40 docenti dell’Istituto scolastico RAGIONE_SOCIALE (di cui l’opponente era legale rappresentante) e l’appalto di servizi, giudicato illegittimo, con la RAGIONE_SOCIALE;
La Corte di merito, in particolare, osservava che:
non era fondata l’eccezione di violazione del principio del ne bis in idem in relazione a sentenza del Tribunale penale di Pescara del 7.11.2016 dichiarativa di non doversi procedere nei confronti dell’opponente-appellante per estinzione dei reati a lui ascritti per prescrizione, stante la mancanza di statuizioni nel merito sulla sussistenza dei fatti, sui quali non si era, perciò, formato alcun giudicato che
potesse precludere la successiva sanzionabilità degli stessi in via amministrativa, anche tenuto conto della diversità ontologica tra sanzione amministrativa e penale;
non era fondata la censura di insussistenza dell’elemento soggettivo in capo all’autore dell’illecito, in quanto la responsabilità per le sanzioni amministrative è personale per azioni od omissioni coscienti e volontarie, siano esse dolose o colpose;
non era fondata l’eccezione di carenza di motivazione dell’ordinanza-ingiunzione opposta, in quanto l’obbligo motivazionale era stato assolto mediante richiamo per relationem al verbale di accertamento presupposto, consentendo al soggetto sanzionato l’agevole verifica delle contestazioni effettuate, degli elementi fattuali posti a loro fondamento e delle sanzioni amministrative irrogate per le violazioni riscontrate, anche considerando nel caso concreto l’analiticità delle motivazioni su cui si fondava la pretesa sanzionatoria e i plurimi riscontri documentali;
riesaminato criticamente il materiale istruttorio documentale e testimoniale conseguente al verbale di accertamento n. 38661 del 21.12.2009 con il quale i servizi ispettivi del Ministero del Lavoro avevano accertato l’irregolare occupazione di 43 docenti e disconosciuto la sussistenza di un genuino rapporto di appalto di servizi tra la RAGIONE_SOCIALE incaricata per la gestione e lo svolgimento di corsi didattici e la RAGIONE_SOCIALE sRAGIONE_SOCIALE in relazione all’attività di docenza, assistenza e tutoraggio svolta da lavoratori legati alla RAGIONE_SOCIALE da contratti di lavoro qualificati dagli ispettori come rapporti di lavoro subordinato alle dirette dipendenze della RAGIONE_SOCIALE di cui l’appellante era amministratore unico, era confermata la presenza di un appalto endo-aziendale; l’appaltatore
esterno non aveva dimostrato di essere dotato di un’effettiva organizzazione aziendale; si doveva qualificare la posizione dell’intermediario quale mero datore di lavoro formale; nella realtà RAGIONE_SOCIALE utilizzava manodopera fornita dalle cooperative, sicché i docenti eseguivano mere prestazioni lavorative presso la struttura della committente osservandone le direttive, a fronte del fatto che la RAGIONE_SOCIALE aveva fatto convergere su di sé gli obblighi fiscali e contributivi senza assumere alcun rischio d’impresa e limitandosi alla fornitura di manodopera; era corretto il convincimento già raggiunto dal Tribunale circa l’insussistenza delle condizioni di legge per qualificare come genuino l’appalto in questione;
erano ontologicamente inconciliabili con il dedotto fondamento volontaristico le prestazioni lavorative rese, a partire da quelle del dirigente scolastico.
L’originario opponente ha proposto ricorso per cassazione, con tre motivi, illustrati da memoria, cui ha resistito con controricorso l’amministrazione; in sede di adunanza camerale in data 12.7.2023, la causa è stata rimessa alla pubblica udienza con particolare riferimento ai profili evidenziati da Corte cost. n. 63/2019; parte ricorrente ha depositato ulteriore memoria;
il P .G. ha concluso per il rigetto del ricorso;
RAGIONI DELLA DECISIONE
D ato atto che l’Avvocatura Generale dello Stato si è costituita in sanatoria nonostante invalida notifica del ricorso per cassazione all’Avvocatura distrettuale di L’Aquila, si osserva preliminarmente che l’ordinanza -ingiunzione in contestazione ha irrogato sanzioni amministrative per le seguenti violazioni: a) art. 3, comma 3, legge 23.4.2002, n.
73 (legge di conversione del D.L. 22.2.2002, n. 12), così come modificato dall’art. 36 -bis, comma 7, lett. A), legge 4.8.2006, n. 24 (legge di conversione del D.L. 4.7.2006, n. 223), ‘ poiché il datore di lavoro ha occupato lavoratori in nero, non risultanti dalle scritture o da altra documentazione di lavoro obbligatoria, come da prospetto ‘allegato C -bis’ parte integrante del suindicato verbale conclusivo, per i periodi e il numero delle giornate in esso indicate (n. 43 lavoratori per n. 1988 giornate lavorative); b) art. 4-bis, comma 2, d. lgs. 21.4.2000, n.181, così come introdotto dall’art. 6, comma 1, d. lgs. 19.12.2002, n. 297 ‘ poiché il datore di lavoro effettivo, accertato nella RAGIONE_SOCIALE, non ha consegnato ai lavoratori, di cui agli allegati C-bis e F1bis, all’atto dell’instaurazione del rapporto di lavoro, le dichiarazioni di assunzione (n. 80 dichiarazioni di assunzione) allegati C-bis (lavoro nero) e F1-bis (lavoro somministrato)’ ; c) art. 14, comma 2, d. lgs. 23.2.2000 n. 38, ‘ poiché il datore di lavoro effettivo, accertato nella RAGIONE_SOCIALE, non ha provveduto ad effettuare la comunicazione di inizio rischio lavorativo all’RAGIONE_SOCIALE territorialmente competente ‘; d) art. 20, comma 1, d.P.R. 30.6.1965, n. 1124, ‘ poiché il datore di lavoro effettivo, accertato nella società RAGIONE_SOCIALE, non ha provveduto ad istituire il libro matricola aziendale, all’atto dell’occupazione del primo lavoratore dipendente’; e) art. 20, comma 1, d.P.R. 30.6.1965 n. 1124, ‘ poiché il datore di lavoro effettivo, accertato nella società RAGIONE_SOCIALE, non ha provveduto ad istituire il libro paga/presenze aziendale, all’atto dell’occupazione del primo lavoratore dipendente’ .
Con il primo motivo, parte ricorrente deduce violazione e falsa applicazione dell’art. 9 legge n. 689/1981, violazione del principio del ne bis in idem , violazione e falsa
applicazione degli artt. 3 e 111 Cost., 7 CEDU, 49 CDFUE, 4 prot. 7 CEDU, 50 CDFUE, sotto due aspetti: a) i fatti oggetto dell’impugnata ordinanza -ingiunzione, relativi ad un presunto appalto illecito di manodopera tra la RAGIONE_SOCIALE (di cui il ricorrente è stato amministratore) e la RAGIONE_SOCIALE, con conseguente riconoscimento in capo alla prima dei rapporti di lavoro anche ‘in nero’ come presunto datore di lavoro effettivo, sono stati già oggetto di accertamento nel processo penale conclusosi con sentenza del Tribunale di Pescara-sez. penale- n. 3103/2016 del 7.11.2016, che ha disposto di non doversi procedere per intervenuta prescrizione dei reati di cui agli artt. 18 e 28 d.lgs. n. 276/2003 e 37 legge n. 689/1981; b) al ricorrente sono state comminate sanzioni per ‘lavoro nero’ sulla base della legge vigente al momento della commissione del fatto, più sfavorevole rispetto alla legge vigente al momento dell’emanazione dell’ordinanza ingiunzione, avvenuta in data 11.12.2013.
Con il secondo motivo, parte ricorrente deduce violazione e falsa applicazione dell’art. 2094 c.c. (art. 360, n. 3, c.p.c.), assumendo la natura volontaristica, non riconducibile a rapporto di lavoro subordinato, delle attività accertate.
Con il terzo motivo, parte ricorrente censura la sentenza impugnata per omesso esame circa un fatto decisivo oggetto di discussione tra le parti, integrante vizio ex art. 360, comma 1, n. 5, c.p.c., sostenendo l’inesistenza processuale di 30 posizioni oggetto del contestato ‘lavoro nero’, mai sentiti in sede di accesso ispettivo e mai escussi come testimoni, e inesistenza processuale dei registri di classe.
Inoltre, parte ricorrente chiede di rinviare la controversia in via pregiudiziale alla Corte di Giustizia
dell’RAGIONE_SOCIALE Europea, ai sensi degli artt. 19 TUE e 267 TFUE, al fine di esaminare le questioni: a) se l’art. 49 CDFUE osta ad una normativa nazionale che applica, ad una sanzione amministrativa avente i requisisti di una sanzione penale alla stregua dei criteri RAGIONE_SOCIALE della CEDU, il principio del tempus regit actum e non il principio del favor rei ; b) se l’art. 50 CDFUE osta ad una normativa nazionale che consente di celebrare un procedimento riguardante una sanzione amministrativa di natura penale nei confronti di una persona avverso la quale, per la medesima condotta, – consistente nell ‘ interposizione illecita di manodopera e ‘ lavoro nero ‘ -sia stata pronunciata sentenza penale di non luogo a procedere per intervenuta prescrizione.
Per ragioni di ordine logico ed espositivo, è opportuno esaminare in primo luogo il secondo e terzo motivo del ricorso per cassazione.
Detti motivi sono inammissibili.
Quanto al secondo motivo, la sentenza gravata ha specificato (cfr. p. 9) che, dalle risultanze istruttorie, era emerso chiaramente che i docenti, formalmente dipendenti della RAGIONE_SOCIALE, erano in realtà stabilmente occupati presso la committente RAGIONE_SOCIALE in esecuzione di mere prestazioni di manodopera, lavorando alle dirette dipendenze di quest’ultima, svolgendo le relative mansioni all’interno del ciclo produttivo aziendale, avvalendosi dei mezzi e delle strutture della stessa, senza che la RAGIONE_SOCIALE avesse alcuna autonomia operativa o alcuna organizzazione di mezzi propri; che i docenti eseguivano mere prestazioni lavorative presso la struttura della committente, osservandone le direttive, mentre la RAGIONE_SOCIALE aveva fatto convergere su di sé gli obblighi fiscali e contributivi della manodopera impegnata, senza assumere alcun rischio d’impresa e limitandosi alla semplice fornitura
di manodopera, con la conseguenza dell’insussistenza delle condizioni di legge per qualificare come genuino l’appalto tra RAGIONE_SOCIALE e RAGIONE_SOCIALE, che aveva formalmente assunto i dipendenti citati nel verbale ispettivo, in realtà stabilmente occupati presso la committente; che, in tal modo, era stata realizzata una fattispecie interpositoria vietata dalla legge.
9. La valutazione circa la sussistenza degli elementi dai quali inferire l’esistenza di un rapporto di lavoro subordinato costituisce un accertamento di fatto, rispetto al quale il sindacato della Corte di cassazione è equiparabile al più generale sindacato sul ricorso al ragionamento presuntivo da parte del giudice di merito; pertanto, il giudizio relativo alla qualificazione di uno specifico rapporto come subordinato o autonomo è censurabile ex art. 360, comma 1, n. 3, c.p.c. solo per ciò che riguarda l’individuazione dei caratteri identificativi del lavoro subordinato, per come tipizzati dall’art. 2094 c.c., mentre è sindacabile nei limiti ammessi dall’art. 360, comma 1, n. 5, c.p.c. allorché si proponga di criticare il ragionamento (necessariamente presuntivo) concernente la scelta e la ponderazione degli elementi di fatto, altrimenti denominati indici o criteri sussidiari di subordinazione, che hanno indotto il giudice del merito ad includere il rapporto controverso nell’uno o nell’altro schema contrattuale (Cass. n. 22846/2022); la sussistenza dell’elemento della subordinazione nell’ambito di un contratto di lavoro va correttamente individuata sulla base di una serie di indici sintomatici, comprovati dalle risultanze istruttorie, quali la collaborazione, la continuità della prestazione lavorativa e l’inserimento del lavoratore nell’organizzazione aziendale, da valutarsi criticamente e complessivamente, con un accertamento
in fatto insindacabile in sede di legittimità (Cass. n. 14434/2015).
Si tratta, quindi, di questioni interamente di fatto già esaminate dalla Corte d’Appello ed esterne al perimetro del giudizio di legittimità, nel quale non è normativamente consentita la rivisitazione del merito della controversia, posto che il giudizio di legittimità non è un giudizio di merito di terzo grado nel quale valutare elementi di fatto già considerati dai giudici del merito, al fine di pervenire ad un diverso apprezzamento dei medesimi.
Circa il contenuto degli ordini o direttive ai lavoratori da parte del committente, nonché il contenuto dei contratti di appalto in relazione alle mansioni svolte, la Corte di merito ha valorizzato specifici elementi di fatto per giungere, sulla base dell’apprezzamento di tali elementi come desunti dall’istrut toria e valutati con motivazione congrua e logica, ad affermare in diritto l’avvenuta interposizione fittizia; censurando il suddetto apprezzamento di elementi fattuali, pertanto, parte ricorrente non prospetta un vizio di sussunzione, ma di valutazione del merito, dunque, come detto, al di fuori del perimetro del giudizio di legittimità (cfr. Cass. n. 20814/2018, S.U. n. 34476/2019, n.11959/2023, n. 32412/2023).
Per consolidata giurisprudenza di legittimità, è inammissibile il motivo di ricorso per cassazione che, sotto l’apparente deduzione del vizio di violazione o falsa applicazione di legge, di mancanza assoluta di motivazione e di omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio miri, in realtà, ad una rivalutazione dei fatti storici operata dal giudice di merito (Cass. S.U. n. 34476/2019); la proposta di ri-valutazione di questioni di fatto è in contrasto con il principio secondo cui la denuncia di violazione di legge non può surrettiziamente trasformare il giudizio di legittimità in
un nuovo, non consentito, grado di merito, nel quale ridiscutere gli esiti istruttori espressi nella decisione impugnata, non condivisi (v. Cass. n. 15568/2020, e giurisprudenza ivi richiamata); infatti, il giudizio di legittimità non è un giudizio di merito di terzo grado nel quale valutare elementi di fatto già considerati dai giudici del merito, al fine di pervenire ad un diverso apprezzamento dei medesimi (cfr. Cass. n. 20814/2018, n. 6519/2019).
13. Quanto al terzo motivo, spetta in via esclusiva al giudice di merito il compito di individuare le fonti del proprio convincimento, di assumere e valutare le prove, di controllarne l’attendibilità e la concludenza, di scegliere, tra le complessive risultanze del processo, quelle ritenute maggiormente idonee a dimostrare i fatti ad esse sottesi, assegnando prevalenza all’uno o all’altro dei mezzi di prova acquisiti, nonché la facoltà di escludere anche attraverso un giudizio implicito la rilevanza di una prova, dovendosi ritenere, a tal proposito, che il giudice di merito non sia tenuto ad esplicitare, per ogni mezzo istruttorio, le ragioni per cui lo ritenga irrilevante ovvero ad enunciare specificamente che la controversia può essere decisa senza necessità di ulteriori acquisizioni, ed involgendo la valutazione delle emergenze probatorie, così come la scelta, tra le varie risultanze, di quelle ritenute più idonee a sorreggere la motivazione, apprezzamenti di fatto riservati al giudice del merito, il quale deve indicare le ragioni del proprio convincimento, senza essere tenuto a discutere ogni singolo elemento o a confutare tutte le deduzioni difensive (cfr. Cass. n. 11933/2003, n. 12362/2006, n. 17097/2010, n. 13485/2014, n. 16056/2016, n. 19011/2017, n. 29404/2017, S.U. n. 34476/2019 cit., n. 20553/2021).
14. Del resto, nel caso concreto, in fatto, la Corte d’Appello ha confermato integralmente la sentenza di primo grado,
così realizzandosi ipotesi di cd. doppia conforme rilevante ai sensi dell’art. 348 -ter c.p.c. (ora 360, comma 4, c.p.c.) e dell’art. 360, comma 1, n. 5 c.p.c.
Il primo motivo prospetta due differenti questioni circa il rapporto tra sanzioni penali e sanzioni amministrative conseguenti ad accertamento ispettivo di determinati fatti, connesse violazioni di legge, conseguenti sanzioni, ossia l’applicazione del princ ipio del ne bis in idem e l’applicazione della lex mitior successiva.
Esso è infondato con riferimento alla prima questione, e fondato con riferimento alla seconda questione.
In via generale, nella giurisprudenza di questa Corte, si è posto il problema se sanzioni formalmente amministrative vadano considerate sostanzialmente penali, sia alla stregua della Convenzione EDU, secondo i criteri tracciati nella sentenza della Corte EDU 8 giugno 1976, RAGIONE_SOCIALE, sia alla stregua del diritto UE (CGUE 5 giugno 2012, in causa C-489/10, COGNOME, 37).
A tale riguardo sono pertinenti tre criteri, consistenti il primo nella qualificazione giuridica dell’illecito nel diritto nazionale, il secondo nella natura dell’illecito, e il terzo nella natura e nel grado di severità della sanzione in cui l’interessato rischia di incorrere (v., in particolare, CEDU, sentenze RAGIONE_SOCIALE e altri c. Paesi Bassi dell’8 giugno 1976, §§ 80-82, nonché COGNOME c. Russia del 10 febbraio 2009, §§ 52 e 53).
Infatti, si pone il problema di verificare se, e in quali limiti, il concorso, per i medesimi fatti storici, del procedimento amministrativo e del procedimento penale sia compatibile con il diritto fondamentale a non essere perseguiti o condannati penalmente per un reato per il quale si sia stati già assolti o condannati a seguito di una sentenza definitiva; diritto riconosciuto tanto dall’ articolo 4 del VII
Protocollo allegato alla CEDU (sulla cui base la Corte EDU ha elaborato il principio del ne bis in idem di diritto convenzionale, cfr. sent. 4 marzo 2014, COGNOME Stevens c. Italia, nonché, in parziale discontinuità con la giurisprudenza precedente, sent. 15 novembre 2016, A e B c. Norvegia), quanto dall’articolo 50 CFDUE (sulla cui base la Corte di giustizia ha elaborato il principio del ne bis in idem di diritto UE, cfr. sent. 26 febbraio 2016, C-617/10, COGNOME, nonché le tre sentenze del 20 marzo 2018, C-524/15, COGNOME, C537/16, RAGIONE_SOCIALE e C-596/16 e C-597/16, Di Puma e Zecca) .
20. Tanto nel diritto convenzionale, quanto in quello UE, ai fini del divieto di bis in idem deve aversi riguardo ai fatti nella loro materialità, indipendentemente dalla qualificazione giuridica operata dalle singole legislazioni nazionali; per quanto riguarda il diritto convenzionale, per “same offence” deve intendersi un reato che ha ad oggetto i medesimi fatti, o fatti che siano “sostanzialmente” gli stessi, rispetto a quelli per i quali si è già stati giudicati; ciò che rileva, in altri termini, non è stabilire se gli elementi costitutivi delle due fattispecie tipiche siano o meno coincidenti, quanto, piuttosto, chiarire se gli illeciti oggetto dei due procedimenti siano riconducibili alla stessa condotta; per quanto riguarda il diritto dell’RAGIONE_SOCIALE europ ea, il criterio si rinviene nella giurisprudenza elaborata dalla Corte di giustizia sull’articolo 50 CDFUE e sull’articolo 54 della Convenzione di applicazione dell’accordo Schengen (alla cui stregua una persona che sia stata giudicata con sentenza definitiva in una Parte contraente non può, a determinate condizioni, essere sottoposta ad un procedimento penale per i medesimi fatti in un’altra Parte contraente – cfr. sent. 20 marzo 2018, C537/16, COGNOME, cit., § 37, ove si parla di «insieme di circostanze concrete inscindibilmente collegate tra loro, che
hanno condotto all’assoluzione o alla condanna definitiva dell’interessato» , e per un’ampia ricostruzione in diritto, anche con richiami alla giurisprudenza della CGUE, Cass. n. 31632/2018).
21. Dunque, la garanzia del ne bis in idem , quale diritto fondamentale della persona, trova la sua ratio primaria nella garanzia di evitare l’ulteriore sofferenza ed i costi economici, determinati da un nuovo processo in relazione a fatti per i quali quella persona sia già stata giudicata (Corte Cost., sentenza n. 149/2022, § 5.1.1); ove l’ idem è equiparato a quello di idem factum (Corte EDU, COGNOME Camera, Zolotukhin c. Russia , cit.) e il giudizio circa la coincidenza del fatto deve svolgersi avuto riguardo all’accadimento naturalisticamente inteso, ossia al fatto storico, senza che a nulla rilevi la sua qualificazione giuridica nell’ordinamento interno; quanto al bis , la valutazione circa la duplicazione delle procedure e delle sanzioni, prescindendo dall’etichetta (penale) formalmente assegnata alle stesse nell’ambito dell’ordinamento interno, viene a dipendere esclusivamente dalla loro natura «sostanzialmente punitiva», da apprezzarsi secondo i citati cd. criteri RAGIONE_SOCIALE elaborati dalla Corte EDU e recepiti dalla Corte di Giustizia Europea nel caso COGNOME.
22. Peraltro, a partire dalla sentenza della Corte Europea A & B c. Norvegia del 2016 (Corte EDU, COGNOME Camera, 15 novembre 2016, ric. nn. 24130/11 e 29758/11), è stato escluso che la mera previsione di doppi binari sanzionatori dia origine, sempre e necessariamente, alla violazione della garanzia convenzionale; e, stabilito che il sistema del doppio binario non è di per sé illegittimo, ai fini del riconoscimento della garanzia del ne bis in idem non è sufficiente fermarsi all’accertamento di un cumulo tra due procedimenti sanzionatori aventi entrambi carattere punitivo ( bis in idem ), ma occorrerà verificare che gli stessi non siano tra loro
connessi al punto da potersi considerare come aspetti di un unico procedimento.
P ertanto, alla luce dello stato dell’arte consegnatoci dalla giurisprudenza europea, il riconoscimento della garanzia del ne bis in idem nel diritto europeo non pregiudica di per sé l’adozione, negli ordinamenti giuridici nazionali, di meccanismi sanzionatori strutturati secondo lo schema del doppio binario in cui, in una logica di efficienza, lo stesso fatto risulta sottoposto contemporaneamente sia a sanzione penale, sia a sanzione amministrativa (cfr., per un’ampia ricostruzione in diritto, anche con richiami alla giurisprudenza della CGUE, Cass. n. 34699/2023); ciò anche tenendo conto dell’invito al legislatore per un’auspicabile rimeditazione dei vigenti sistemi di doppio binario sanzionatorio contenuto in Corte Cost. n. 149/2022.
Nel caso in esame, anche valutando la natura sostanzialmente penale delle sanzioni amministrative applicate, alla luce dei cd. criteri RAGIONE_SOCIALE, non è ravvisabile violazione del principio del ne bis in idem , in quanto non è intervenuta sentenza penale di condanna o di assoluzione, ma non di non doversi procedere per intervenuta prescrizione.
Deve osservarsi che la prescrizione è rinunciabile (art. 157 c.p.) ove vi sia un interesse dell’imputato all’assoluzione nel merito; poiché non è la sola esistenza del cd. doppio binario sanzionatorio ad integrare l’incompatibilità della normativa interna con quella europea, non è sufficiente la mera pendenza di procedimento penale per considerare violato il disposto di cui all’art. 50 C DFUE (che fa riferimento ad assoluzione o condanna).
Osserva il Collegio che la Corte di Giustizia UE, in materia di applicazione del principio del ne bis in idem , sancito all’articolo 50 CDFUE, in caso di cumulo di
procedimenti o di sanzioni per gli stessi fatti, ha chiarito che ‘ una siffatta possibilità di cumulare i procedimenti e le sanzioni rispetta il contenuto essenziale dell’articolo 50 della Carta, a condizione che le normative nazionali in questione non consentano di perseguire e sanzionare i medesimi fatti a titolo dello stesso reato o al fine di perseguire lo stesso obiettivo, ma prevedano unicamente la possibilità di un cumulo dei procedimenti e delle sanzioni ai sensi di normative diverse ‘; per quanto riguarda la questione ‘ se la limitazione dell’applicazione del principio del ne bis in idem risponda ad un obiettivo di interesse generale, occorre constatare che le due normative nazionali di cui trattasi nel procedimento principale perseguono obiettivi legittimi e distinti ‘; (…) ‘ le autorità pubbliche possono legittimamente optare per risposte giuridiche complementari a fronte di determinati comportamenti nocivi per la società mediante diversi procedimenti, che formino un insieme coerente, in modo da trattare sotto i suoi diversi aspetti il problema sociale in questione, purché tali risposte giuridiche combinate non rappresentino un onere eccessivo per la persona di cui trattasi. Pertanto, il fatto che due procedimenti perseguano obiettivi di interesse generale distinti, che è legittimo tutelare cumulativamente, può essere preso in considerazione, nell’ambito dell’analisi della proporzionalità di un cumulo di procedimenti e sanzioni, quale fattore diretto a giustificare tale cumulo, a condizione che tali procedimenti siano complementari e che l’onere supplementare rappresentato da detto cumulo possa così essere giustificato dai due obiettivi perseguiti (sent. 14.9.2023, C- 27/22, Volkswagen c/Italia, §§ 90, 91, 94 e la ivi richiamata sentenza della stessa CGUE 22.3.2022, C-117/20, bpost, §§ 43 e 49).
Nel caso in esame, i reati contestati (anche tenuto conto di quanto risultante dalle allegazioni di parte ricorrente, in conformità al principio di autosufficienza del ricorso per cassazione) sanzionano omissioni di registrazioni o denunce obbligatorie dalle quali derivi l’omesso versamento di contributi previdenziali e assistenziali ovvero somministrazione di manodopera non autorizzata o fraudolenta. Le violazioni amministrative contestate (v. supra , § 1) riguardano, in senso lato, la repressione del lavoro non regolarizzato dal punto di vista fiscale e contributivo (cd. lavoro nero) in una prospettiva generale e integrata, complementare e più ampia rispetto alla specifica area di tutela presidiata dagli illeciti penali.
Se ne deve ricavare, pertanto, che sono diverse le finalità sottese all’irrogazione della sanzione penale e di quella amministrativa, per cui non sussiste violazione del principio del divieto del ne bis in idem , perché l’illecito penale e quello amministrativo sanzionano condotte lesive di beni giuridici differenti (cfr., in fattispecie diversa ma affine, Cass. n. 12936/2018).
In questo senso, per essersi il giudice dell’RAGIONE_SOCIALE già pronunciato su questo specifico aspetto di interpretazione del diritto dell’RAGIONE_SOCIALE, deve essere respinta l’istanza di rinvio pregiudiziale proposta dalla difesa ricorrente in relazione all’art. 50 CFDUE (cfr. CGUE 25.5.2018 , C-561/19, RAGIONE_SOCIALE e RAGIONE_SOCIALE, in linea con la sentenza 6.10.1982, 283/81, CILFIT).
Il secondo profilo del primo motivo di ricorso deve, invece, essere accolto.
La natura sostanzialmente penale, alla luce dei cd. criteri RAGIONE_SOCIALE, tenuto conto della qualificazione giuridica e della natura degli illeciti contestati, e del grado di severità delle sanzioni applicate nel caso concreto, impone di valutare
la fattispecie alla luce di principi enunciati da Corte Cost. 63/2019.
32. Con questa pronuncia (successiva alla sentenza impugnata) la Corte delle leggi ha dichiarato costituzionalmente illegittimo – per violazione degli artt. 3 e 117, primo comma, Cost. – l’art. 6, comma 2, del d.lgs. n. 72 del 2015, nella parte in cui esclude l’applicazione retroattiva delle modifiche in mitius apportate dal comma 3 dello stesso art. 6 alle sanzioni amministrative previste per l’illecito di abuso di informazioni privilegiate, di cui all’art. 187bis del d.lgs. n. 58 del 1998.
33. Per quanto qui rileva (trattandosi di normativa afferente a violazioni diverse da quelle qui in esame), è stata ravvisata una deroga irragionevole al principio della retroattività della lex mitior in materia penale, avendo la sanzione amministrativa in questione in tale giudizio elevatissima carica afflittiva in funzione di deterrenza, o prevenzione generale negativa, comune anche alle pene in senso stretto e con natura punitiva; se ne è ricavata la necessità di applicazione delle garanzie che la Costituzione e il diritto internazionale dei diritti umani assicurano alla materia penale.
34. La Corte Costituzionale ha osservato che il principio della retroattività della lex mitior in materia penale possiede un duplice, e concorrente, fondamento: l’uno (di matrice domestica) riconducibile allo spettro di tutela del principio di eguaglianza di cui all’art. 3 Cost.; l’altro (di origine internazionale, avente ingresso nel nostro ordinamento attraverso l’art. 117, primo comma, Cost.) riconducibile all’art. 7 CEDU, nella lettura offertane dalla giurisprudenza di Strasburgo; la regola della retroattività della lex mitior in materia penale è riconducibile anzitutto al principio di eguaglianza di cui all’art. 3 Cost., e tale riconduzione segna
anche il limite della garanzia costituzionale, nel senso che, mentre l’irretroattività in peius della legge penale costituisce un valore assoluto e inderogabile, la regola della retroattività in mitius della medesima legge penale è suscettibile di limitazioni e deroghe legittime sul piano costituzionale, ove sorrette da giustificazioni oggettivamente ragionevoli.
35. Nel caso di specie, parte ricorrente lamenta la comminazione a suo carico di sanzioni per ‘lavoro nero’ sulla base della legge vigente al momento della commissione del fatto (art. 3, comma 3, D.L. n. 12/2002, conv. in legge n. 73/2002, come modificato dall ‘art. 36 -bis, comma 7, D.L. n. 223/2006, conv. in legge n. 248/2006) che prevede(va) una sanzione amministrativa da € 1.500 a € 12.000 per ciascun lavoratore, maggiorata di € 150 per ciascun giorno di lavoro effettivo, sanzione più sfavorevole rispetto a quella prevista dalla legge vigente al momento dell’emanazione dell’ordinanza – ingiunzione in data 11.12.2013, stante la riduzione, in forza della legge n. 183/2010 (c.d. Collegato Lavoro) della sanzione alla misura da € 1.000 a € 8.000 per ciascun lavoratore irregolare, maggiorata di € 30 per ciascuna giornata di lavoro irregolare, nel caso in cui il lavoratore risulti regolarmente occupato per un periodo successivo (circostanza allegata nel caso in esame).
36. In tale contesto, rilevato che l’intervento della Corte Costituzionale ha censurato una specifica disposizione di diritto transitorio, ritiene il Collegio di valorizzare nella fattispecie concreta la portata generale del principio in relazione alle sanzioni amministrative applicate nel caso concreto, ritenutane la natura sostanzialmente penale, e comunque elevatamente afflittiva, nei termini definiti dalla giurisprudenza della Corte Europea di Giustizia (che richiama la giurisprudenza della Corte EDU) e da questa
Corte (in particolare con le pronunce richiamate nei paragrafi precedenti).
Infatti, nella normativa in esame non è espressa una disposizione di carattere transitorio, e occorre fare riferimento al principio generale espresso dall ‘art. 1 della legge n. 689/1981, che esprime il principio di legalità in materia di sanzioni amministrative, vietando l’applicazione retroattiva delle stesse, e fissando altresì il principio tempus regit actum .
Reputa il Collegio che, in assenza di disposizioni di diritto transitorio che dispongano diversamente, non vi siano ostacoli (e che, segnatamente, tali ostacoli non siano rinvenibili nel principio tempus regit actum ) all’applicazione del principio generale dell’applicazione retroattiva della lex mitior , ovvero della legge più favorevole dal punto di vita sanzionatorio.
Con la sentenza n. 63/2019, invero, la Corte Costituzionale ha ritenuto estensibile il complesso dei principi enucleati dalla Corte di Strasburgo a proposito della ‘materia penale’ ivi compreso, dunque, il principio di retroattività della lex mitior -a ‘singole’ sanzioni amministrative che abbiano natura e finalità ‘punitiva’ .
Nella sentenza appena citata (§ 6.2) si è rilevato che ‘ l ‘estensione del principio di retroattività della lex mitior in materia di sanzioni amministrative aventi natura e funzione ‘punitiva’ è, del resto, conforme alla logica sottesa alla giurisprudenza costituzionale sviluppatasi, sulla base dell’art. 3 Cost., in ordine alle sanzioni propriamente penali. Laddove, infatti, la sanzione amministrativa abbia natura ‘punitiva’, di regola non vi sarà ragione per continuare ad applicare (…) tale sanzione, qualora il fatto sia successivamente considerato non più illecito; né per continuare ad applicarla in una misura considerata ormai
eccessiva (e per ciò stesso sproporzionata) rispetto al mutato apprezzamento della gravità dell’illecito da parte dell’ordinamento. E ciò salvo che sussistano ragioni cogenti di tutela di contro-interessi di rango costituzionale, tali da resistere al medesimo «vaglio positivo di ragionevolezza», al cui metro debbono essere in linea generale valutate le deroghe al principio di retroattività in mitius nella materia penale ‘ .
Sulla scorta delle univoche affermazioni di principio della Corte costituzionale, applicati i cd. criteri RAGIONE_SOCIALE alla normativa sanzionatoria in esame, deve percorrersi l’interpretazione dell’art. 1 della legge n. 689/1981 nel senso della sua applicabilità tanto alle modifiche in peius delle sanzioni amministrative, in base al principio di legalità, quanto della diretta applicabilità del correlato principio generale, di matrice chiaramente costituzionale e convenzionale, della retroattività delle modifiche in mitius delle sanzioni punitive, pianamente ricavabile in forza dell’accertata natura elevatamente afflittiva delle sanzioni applicate e del doppio binario sanzionatorio seguito in materia dal legislatore, compatibile con l’architettura normativa europea in misura e in funzione della necessaria interferenza ed espansione dei principi garantisti generali, espressi dalla Carta dei diritti fondamentali.
In questo senso, trattandosi di interpretazione conforme allo spirito, alla lettera e allo scopo dell’art. 49 CDFUE, la richiesta di rinvio pregiudiziale ad esso riferita rimane assorbita.
I n conclusione, deve essere accolto per quanto di ragione il primo motivo di ricorso; la sentenza impugnata deve essere cassata in relazione al motivo accolto, e rinviata al giudice indicato in dispositivo, al fine di procedere alla
rideterminazione della sanzione amministrativa da applicare per le violazioni accertate tenendo conto delle intervenute modiche sanzionatorie più favorevoli, ricorrendone le condizioni, in base al principio di diritto secondo cui, qualora in un procedimento amministrativo sanzionatorio, concernente i medesimi fatti oggetto di un procedimento penale, in circostanze quali quelle del procedimento in esame, siano intervenute modifiche sanzionatorie più favorevoli, trova applicazione il principio di retroattività della legge più favorevole.
44. Rimangono assorbiti o non sono fondati alla stregua delle argomentazioni sopra espresse gli ulteriori profili di censura della sentenza impugnata di cui al primo motivo, e vanno dichiarati inammissibili il secondo e terzo motivo del ricorso per cassazione.
Al giudice del rinvio è rimesso altresì di provvedere sulle spese del presente giudizio di cassazione;
P.Q.M.
La Corte accoglie il primo motivo per quanto di ragione, rigettato il ricorso nel resto.
Cassa la sentenza impugnata in relazione al motivo accolto e rinvia alla Corte di Appello di L’Aquila in diversa composizione, anche per le spese del giudizio di cassazione.
Così deciso in Roma, nella camera di consiglio del 5 marzo 2024.