Ordinanza di Cassazione Civile Sez. L Num. 15291 Anno 2025
Civile Ord. Sez. L Num. 15291 Anno 2025
Presidente: NOME
Relatore: COGNOME
Data pubblicazione: 09/06/2025
ORDINANZA
sul ricorso iscritto al n. 17029/2024 R.G. proposto da:
COGNOME NOMECOGNOME rappresentata e difesa dall’Avv. NOME COGNOME e domiciliato in Roma, presso la Cancelleria della Suprema Corte di Cassazione;
-ricorrente-
contro
Regione Abruzzo, in persona del legale rappresentante p.t., rappresentata e difesa dagli Avv.ti NOME COGNOME e NOME COGNOME ;
-controricorrente-
avverso SENTENZA di CORTE D’APPELLO di L’AQUILA n. 255/2024 pubblicata il 25 maggio 2024.
Udita la relazione svolta nella camera di consiglio del 17/04/2025 dal Consigliere NOME COGNOME
SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
NOME COGNOME ha esposto che:
era stata dipendente della Regione Abruzzo dal 27 settembre 1979 al 15 aprile 2015;
aveva percepito, per la durata del rapporto, la RIA;
in seguito all’entrata in vigore della legge Regione Abruzzo n. 6 del 2005, in virtù del suo art. 43, era stato introdotto l’art. 1, comma 2 bis, della legge Regione Abruzzo n. 118 del 1998, che aveva riconosciuto a tutti i dipendenti della detta Regione lo stesso trattamento economico di anzianità di colleghi che lo avevano maturato presso altro ente pubblico e che lo avevano ‘trascinato’ con sé, ove più favorevole, una volta assunti dalla Regione Abruzzo con pubblico concorso;
la successiva legge Regione Abruzzo n. 16 del 2008 aveva modificato il citato comma 2 bis, prescrivendo che, ai dipendenti i quali, alla data del 1989, erano inquadrati in ruolo in una delle Pubbliche Amministrazioni di cui all’art. 1, comma 2, del d.lgs. n. 165 del 2001, era riconosciuto, ai fini perequativi, lo stesso trattamento economico di anzianità attribuito a quelli appartenenti alla prima qualifica cui era stato applicato il comma 1, tenendo conto dell’ammontare maggiore percepito, a parità di anzianità di servizio, al momento dell’inquadramento in ruolo regionale, nella qualifica attualmente ricoperta;
aveva chiesto, quindi, l’adeguamento della sua retribuzione, ai sensi della legislazione sopra riportata;
la sua domanda era stata accolta dal Tribunale di Chieti e la decisione era stata confermata dalla Corte d’appello di L’Aquila, ma la Corte di cassazione aveva rigettato tale domanda in quanto la Corte costituzionale, con sentenza n. 211 del 2014, aveva dichiarato costituzionalmente illegittimo l’art. 43 della legge Regione Abruzzo n. 6 del 2005, come modificato dall’art. 1, comma 2, della legge Regione Abruzzo n. 16 del 2008, nella parte ove aveva introdotto il comma 2 bis nell’art. 1 della legge Regione Abruzzo n. 118 del 1998.
La lavoratrice ha, quindi, proposto un nuovo ricorso al Tribunale di Chieti, chiedendo la condanna della Regione Abruzzo a corrispondere delle somme di denaro per le causali esposte.
Il Tribunale di Chieti ha rigettato il ricorso.
L’istante ha proposto appello.
La Corte d’appello di L’Aquila, nel contraddittorio delle parti, con sentenza n. 255/2024, ha rigettato in parte l’appello, accogliendolo solo in ordine alla quantificazione delle spese di lite.
NOME COGNOME proposto ricorso per cassazione sulla base di due motivi.
La Regione Abruzzo si è difesa con controricorso.
MOTIVI DELLA DECISIONE
1. Con il primo e il secondo motivo, che possono essere trattati congiuntamente, stante la stretta connessione, la ricorrente lamenta la violazione e falsa applicazione dell’art. 1, comma 2 bis, della legge Regione Abruzzo n. 118 del 1998, introdotto dall’art. 43 della legge Regione Abruzzo n. 6 del 2005, nonché degli artt. 112, 113 e 132 c.p.c., 118 disp. att. c.p.c. e degli artt. 13, 15, 24 e 111, comma 6, Cost., nonché l’omesso esame di fatto decisivo.
Afferma che le disposizioni dichiarate costituzionalmente illegittime non sarebbero automaticamente espunte dall’ordinamento, ma continuerebbero ad avere effetto per i rapporti costituitisi prima della sentenza della Corte costituzionale. Inoltre, l’art. 43 citato avrebbe inserito solo formalmente i commi 2 bis e 2 ter dell’art. 1 della legge Regione Abruzzo n. 118 del 1998, e avrebbe esclusivamente disciplinato un criterio automatico di riconoscimento.
Il criterio di perequazione introdotto dall’art. 43 in esame avrebbe inciso sulla retribuzione, diventando elemento della stessa e diritto soggettivo patrimoniale perfetto, personale e sociale.
In ogni caso, il comma 2 ter, successivo al menzionato 2 bis, sarebbe sopravvissuto alla dichiarazione di illegittimità costituzionale (pur se abrogato nel 2011).
La motivazione della sentenza impugnata sarebbe stata, quindi, carente.
In aggiunta a ciò, sarebbe stato leso pure il suo legittimo affidamento e non sarebbero stati esaminati dei fatti che erano il presupposto del suo diritto.
Le doglianze sono inammissibili, in conformità alle ordinanze di questa Corte prese in decisione all’adunanza camerale del 10 gennaio 2025 (da Cass. n. 5514/2025 a Cass. n. 5521/2025), da intendersi qui richiamate ai sensi dell’art. 118 disp. att. c.p.c.
Deve premettersi che la Corte costituzionale, investita dal Tribunale di Teramo della questione di legittimità costituzionale dell’art. 43 della legge Regione Abruzzo n. 6 del 2005 (Disposizioni finanziarie per la redazione del bilancio annuale 2005 e pluriennale 2005-2007 della Legge Regione Abruzzo -Legge finanziaria regionale 2005), come sostituito dall’art. 1, comma 2, della legge Regione n. 16 del 2008 (Provvedimenti urgenti ed indifferibili), in riferimento all’art. 117, comma 2, lettera l), della Costituzione, con sentenza n. 211 del 2014 ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 43 della predetta legge Regione Abruzzo n. 6 del 2005, come sostituito dall’art. 1, comma 2, della legge Regione Abruzzo n. 16 del 2008, nella parte in cui ha introdotto il comma 2 bis nell’art. 1 della legge Regione Abruzzo n. 118 del 1998 (Riconoscimento agli effetti economici della anzianità di servizio prestato presso lo Stato, Enti Pubblici, Enti Locali e Regioni, nei confronti del personale inquadrato nel ruolo regionale a seguito di pubblici concorsi ed estensione dei benefici previsti dalla L. n. 144 del 1989 al personale ex L. n. 285 del 1977).
Tanto perché l’art. 43 della citata legge Regione Abruzzo n. 6 del 2005, nel disciplinare la retribuzione individuale di anzianità dei dipendenti regionali, allineandone l’ammontare a quello percepito dai dipendenti che, provenendo da altre amministrazioni, sono transitati nei ruoli regionali, incideva sul trattamento economico dei dipendenti regionali prevedendone un incremento allorché ricorrevano le condizioni previste e, quindi eccedeva dall’ambito di competenza riservato al legislatore regionale, invadendo la materia dell’ordinamento civile, riservata alla potestà legislativa esclusiva dello Stato.
Dalla sentenza di questa Corte n. 13913/2021 risulta che la Corte di Appello di L’Aquila ha respinto il gravame della dipendente avverso la sentenza del Tribunale che aveva rigettato le sue domande, volte ad ottenere il riconoscimento perequativo della retribuzione individuale di anzianità; con il ricorso per cassazione l’odierna ricorrente e gli altri dipendenti non hanno contestato il merito della decisione, ma si sono limitati a lamentare che la Corte territoriale aveva erroneamente stabilito il loro obbligo di corrispondere una somma pari all’importo del contributo unificato dovuto per l’instaurazione del giudizio.
Il giudicato formatosi a seguito della conferma della sentenza di rigetto da parte della Corte di Appello di L’Aquila della domanda di adeguamento della retribuzione della COGNOME ai sensi dell’art. 1, comma 2 bis, della legge Regione Abruzzo n. 118 del 1998 preclude l’accoglimento di ogni domanda della ricorrente fondata sull’art. 43 della legge Regione Abruzzo n. 6 del 2005, come sostituito dall’art. 1, comma 2, della legge Regione Abruzzo n. 16 del 2008, nella parte in cui introduce il comma 2 bis nell’art. 1 della legge Regione Abruzzo n. 118 del 1998.
A questa affermazione consegue l’impossibilità di ritenere che un diritto soggettivo perfetto si sia radicato in capo alla ricorrente sulla base della menzionata normativa, seppure per il tempo antecedente
alla sentenza della Corte costituzionale n. 211 del 2014, atteso che il diritto qui reclamato non era mai stato riconosciuto finora, né dalla Regione Abruzzo né in sede giudiziaria in via definitiva.
Neanche può ipotizzarsi che il citato comma 2 bis avrebbe solo codificato un principio già esistente nell’ordinamento. Infatti, se così fosse, la ricorrente avrebbe dovuto quanto meno indicarne il fondamento normativo che, invece, è rimasto del tutto sconosciuto.
D’altronde, se mai si volesse ammettere che vi sia un diritto soggettivo personale e sociale della dipendente alla perequazione (che, invero, non si ritiene sussista), e prescindendo dal fatto che non sia stato accertato in precedenza, non sarebbe ravvisabile un criterio di quantificazione della pretesa che, per la medesima ricorrente, avrebbe dovuto essere quello riportato nel comma 2 bis, dichiarato ormai costituzionalmente illegittimo.
Del tutto priva di valore è la menzione del comma 2 ter in quanto, anche a volere ignorare il giudicato sfavorevole alla dipendente, tale disposizione era chiaramente strumentale a quella del precedente comma 2 bis e, quindi, non può servire a fondare un diritto che non può più basarsi su tale comma 2 bis.
Adeguata è, quindi, la motivazione della sentenza impugnata, che ha esaminato tutti i fatti rilevanti posti a fondamento della pretesa della ricorrente.
Infine, nessuna lesione dell’affidamento della lavoratrice vi è stata.
Esattamente, la Corte territoriale ha rilevato che la Regione Abruzzo non aveva mai applicato la norma oggetto di causa, con l’effetto che non aveva potuto ingenerare l’affidamento circa la spettanza del diritto in capo alla ricorrente, atteso che le somme in questione non erano mai entrate nella sua sfera patrimoniale, soprattutto dopo la sentenza della Corte costituzionale n. 211 del 2014.
Infatti, non può esservi un valido affidamento su una norma dichiarata costituzionalmente illegittima.
Peraltro, la stessa ricorrente aveva agito in giudizio per ottenere quello che considerava il riconoscimento di un suo diritto e, quindi, l’esito sfavorevole del processo è prova che non vi erano i presupposti per parlare di un legittimo affidamento.
Se, poi, volesse ipotizzarsi la presenza di un affidamento preesistente a tutte le disposizioni de quibus , non si comprenderebbe il motivo per il quale la dipendente, invece di farlo valere da subito, abbia agito sulla base di una regolamentazione della quale, adesso, prospetta la sostanziale inutilità.
Al contrario, ciò palesa come nessun affidamento vi fosse da parte sua, almeno fino al passaggio in giudicato delle pronunce giudiziarie a lei contrarie.
3) Il ricorso è dichiarato inammissibile.
Le spese di lite seguono la soccombenza e sono liquidate come in dispositivo.
Ai sensi dell’art. 13, comma 1 quater, del d.P.R. n. 115 del 2002 si dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso a norma del comma 1 bis dello stesso art. 13, se dovuto.
P.Q.M.
La Corte,
dichiara inammissibile il ricorso;
condanna la ricorrente a rifondere le spese di lite, che liquida in € 4.000,00 per compenso professionale e in € 200,00 per esborsi, oltre agli accessori di legge e alle spese generali nella misura del 15%;
ai sensi dell’art. 13, comma 1 quater, del d.P.R. n. 115 del 2002, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso a norma del comma 1 bis dello stesso art. 13, se dovuto.
Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della IV Sezione