Ordinanza di Cassazione Civile Sez. 2 Num. 32756 Anno 2024
Civile Ord. Sez. 2 Num. 32756 Anno 2024
Presidente: COGNOME
Relatore: COGNOME
Data pubblicazione: 16/12/2024
Oggetto: usucapione e giudicato domanda rilascio
ORDINANZA
sul ricorso iscritto al n. 09896/2023 R.G. proposto da
COGNOME rappresentato e difeso dall’avv. NOME COGNOME ed elettivamente domiciliato in Roma, INDIRIZZO presso lo studio del prof. avv. NOME COGNOME
-ricorrente –
contro
COGNOME rappresentata e difesa dall’avv. NOME COGNOME presso il cui studio in Roma, INDIRIZZO è elettivamente domiciliata.
-controricorrente –
COGNOME NOMECOGNOMEintimati – avverso la sentenza n. 200/2023 emessa dalla Corte d’Appello di Catanzaro il 20/2/2023 e notificata il 22/2/2023; udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 11
dicembre 2024 dalla dott.ssa NOME COGNOME
Rilevato che:
1. Con atto di citazione notificato il 09/10/2009, NOME NOME convenne in giudizio COGNOME NOME, affinché venisse accertato, in suo favore, l’acquisto per maturata usucapione ex art. 1158 cod. civ. della piena ed esclusiva proprietà delle unità immobiliari site in Catanzaro, INDIRIZZO affermando di averle possedute in modo continuato, pacifico e pubblico da oltre trent’anni (dal 1978), abitandovi, esercitandovi la sua attività imprenditoriale, svolgendovi i lavori di manutenzione ordinaria e straordinaria e sostenendone tutte le spese.
Costituitosi in giudizio, COGNOME NOME chiese il rigetto della domanda, evidenziando che le unità abitative erano state locate all’avv. NOME COGNOME nonché alla NOME Software, che egli aveva concordato con l’attore lo scambio dei succitati beni con un locale di proprietà di quest’ultimo, pattuendo un residuo prezzo in suo favore, che il COGNOME non aveva mantenuto detto impegno e che i suoi beni erano gravati da ipoteca e pignoramento, sicché aveva promosso un procedimento civile, iscritto al n.r.g. 3725/2005, onde ottenerne la restituzione, che si era concluso con la sentenza di accoglimento n. 130/2013, confermata dalla Corte d’Appello di Catanzaro con la sentenza n. 2081/2017 e ormai passata in giudicato.
Con sentenza n. 350/2019 ex art. 281 sexies cod. proc. civ., il Tribunale di Catanzaro rigettò la domanda proposta dal Procopio.
Il giudizio di gravame, interposto da NOME NOME, in qualità di figlio ed erede di NOME NOME, si concluse, nella resistenza di COGNOME NOMECOGNOME che propose, a sua volta, appello incidentale, condizionato alla legittimazione ad agire dell’appellante, in ordine alle spese di lite, e, in seguito al suo decesso e conseguente interruzione, nella resistenza di COGNOME NOMECOGNOME quale avente causa a titolo particolare dell’appellato, e di COGNOME NOMECOGNOME
NOME e COGNOME NOME, che chiesero la loro estromissione dal giudizio per avere rinunciato all’eredità paterna, con la sentenza n. 200/2023, pubblicata il 20/2/2023, con la quale la Corte d’Appello di Catanzaro rigettò l’appello principale proposto da COGNOME NOMECOGNOME dichiarò l’inammissibilità di quello incidentale proposto da COGNOME NOME, dichiarò estranei alla controversia COGNOME Rosa, COGNOME NOME e COGNOME NOME e rigettò la domanda ex art. 96 cod. proc. civ. proposta da COGNOME NOME nei confronti di NOME NOME.
I giudici di merito fondarono la domanda, sostenendo che NOME NOME non avesse provato né il decesso di NOME NOME né la sua qualità di suo erede, che la domanda di accertamento dell’usucapione fosse preclusa dall’intervenuto giudicato in seguito alla sentenza della Corte d’Appello n. 2081 del 2017, riguardante la domanda di rilascio dei beni contesi, proposta da COGNOME NOME nei confronti di NOME NOME, tempestivamente prodotta alla prima udienza utile alla sua emissione, a fronte della contestazione della sua tardività nel solo atto di appello, che il giudicato formatosi in ordine ad una domanda di rilascio e non possessoria riguardasse anche la proprietà del bene, ancorché non oggetto della domanda, costituendone premessa necessaria in quanto antecedente logico e indefettibile, e che mancasse comunque la prova del possesso, posto che, in seguito alla permuta verbale intercorsa tra le parti, l’appellante aveva acquistato la detenzione del bene e non il possesso, senza dimostrare la sua interversione.
Contro la predetta sentenza, COGNOME NOME propone ricorso per cassazione, affidato a cinque motivi. COGNOME NOME si è difesa con controricorso, illustrato anche con memoria, mentre COGNOME NOME, COGNOME NOME, COGNOME NOME sono rimasti intimati.
Il consigliere delegato ha formulato proposta di definizione del giudizio ai sensi dell’art. 380 -bis cod. proc. civ., ritualmente comunicata alle parti.
In seguito a tale comunicazione, il ricorrente, a mezzo del difensore munito di nuova procura speciale, ha chiesto la decisione del ricorso.
Fissata l’adunanza in camera di consiglio ai sensi dell’art. 380 -bis.1 cod. proc. civ., le parti hanno depositato memoria illustrativa.
Considerato che :
1.1 Con il primo motivo di ricorso, si lamenta la violazione degli artt. 24 e 111 Cost., perché la Corte d’Appello aveva rigettato la domanda di usucapione sulla base della sentenza n. 2081/2017 della stessa Corte d’Appello, che, peraltro, aveva dichiarato l’inammissibilità della produzione della scrittura privata di permuta in quanto depositata solo in quella sede e, comunque, inidonea a rappresentare un principio di prova siccome depositata in copia e priva di qualsiasi forma di sottoscrizione. Il ricorrente ha, sul punto, lamentato come il giudice che aveva emesso quella sentenza avesse fatto parte del collegio che aveva emesso la sentenza impugnata, sicché era mancata la terzietà dell’organo decidente, il quale non poteva che essere rimasto condizionato dalla conoscenza dei fatti di quel primo giudizio, con conseguente nullità dell’attività spiegata e della stessa sentenza.
1.2 Il primo motivo è inammissibile.
I casi di astensione obbligatoria del giudice stabiliti dall’art. 51 cod. proc. civ., ai quali corrisponde il diritto di ricusazione delle parti, in quanto incidono sulla capacità del giudice, determinando una deroga al principio del giudice naturale precostituito per legge, sono di stretta interpretazione e non sono, pertanto, suscettibili di
applicazione per via di interpretazione analogica (Cass., Sez. U, 8/10/2001, n. 12345).
Ciò comporta che l’obbligo di astensione sancito dall’art. 51, primo comma, n. 4, cod. proc. civ. si imponga solo al giudice che abbia conosciuto della stessa causa come magistrato in altro grado, posto che la norma è volta ad assicurare la necessaria alterità del giudice chiamato a decidere, in sede di impugnazione, sulla medesima res iudicanda in un unico processo, ma non anche quando questi abbia trattato di una causa diversa vertente su un oggetto analogo, ancorché tra le stesse parti (Cass., Sez. 2, 5/6/2019, n. 15268; Cass., Sez. 1, 29/9/2017, n. 22930), come nella specie, nella quale il ricorrente lamenta l’identità tra il giudice relatore della causa di rilascio del bene, conclusasi nel 2017, e il giudice componente del collegio nella sentenza oggi impugnata afferente a giudizio del tutto diverso, non sussistendo in tale ipotesi neppure le gravi ragioni di convenienza rilevanti come motivo di ricusazione (Cass., Sez. L, 23/2/2006, n. 4024; Cass., Sez. 2, 10/2/2015, n. 2593), che, comunque, nella specie non è stata neppure sollevata nel grado di merito.
Da ciò consegue, dunque, la manifesta infondatezza della censura.
2.1 Col secondo motivo, si lamenta la violazione, falsa ed errata applicazione dell’art. 156 cod. proc. civ., la violazione degli artt. 132, n. 4, cod. proc. civ., 118 disp. att. cod. proc. civ., 345 cod. proc. civ., e la violazione, falsa ed errata applicazione dell’art. 111 cod. proc. civ., perché i giudici d’appello avevano dichiarato infondata la censura di nullità della sentenza di primo grado sollevata da NOME Maurizio sul presupposto che, trattandosi di pronuncia emessa ex art. 281 sexies cod. proc. civ., gli elementi mancanti avrebbero potuto ricavarsi dal verbale d’udienza, benché la sentenza fosse priva dell’enunciazione delle conclusioni delle parti, dell’esposizione dello svolgimento del processo e dei fatti
rilevanti della causa e contenesse una motivazione in diritto estremamente succinta e in sé inidonea a far comprendere il fondamento della decisione, con la conseguenza che la Corte d’Appello avrebbe dovuto dichiararne la nullità.
2.2 Il secondo motivo è manifestamente infondato.
La sentenza pronunciata ai sensi dell’art. 281 sexies cod. proc. civ., introdotto dall’art. 68 d.lgs. n. 51 del 1998, che non è atto (documento) distinto dal verbale di causa che la contiene e nel quale il giudice inserisce la redazione del dispositivo e dei motivi della decisione, come si ricava, in particolare, dall’art. 35 disp. att. cod. proc. civ., nel testo novellato dall’art. 117 d.lgs. n. 51 del 1998 (secondo cui nella raccolta dei provvedimenti originali vanno inserite, appunto, ” le copie dei verbali contenenti le sentenze pronunciate a norma dell’art. 281 sexies”), consiste non soltanto di quella parte del verbale di causa che contiene dispositivo e motivazione, ma anche di tutte le altre indicazioni necessarie (ai sensi dell’art. 132 cod. proc. civ.) che siano riportate nelle restanti parti del verbale stesso e nei verbali precedenti, indicazioni delle quali non avrebbe senso imporre al giudice la riproduzione, perché ciò contrasterebbe con le esigenze di semplificazione ed accelerazione alla base delle riforme processuali degli anni ’90 (Cass., Sez. 1, 9/1/2004, n. 118), sicché non è affetta da nullità la sentenza, resa nella forma predetta, che non contenga le indicazioni riguardanti il giudice e le parti, le eventuali conclusioni del P.M. e la concisa esposizione dei fatti e dei motivi della decisione (Cass., Sez. 3, 19/10/2006, n. 22409; Cass., Sez. 3, 15/12/2011, n. 27002; Cass., Sez. 3, 11/5/2012, n. 7268).
Nella specie, i giudici di merito si sono attenuti ai suddetti principi, allorché hanno affermato che la sentenza gravata non fosse carente né rispetto alle conclusioni delle parti, né rispetto allo svolgimento del processo, in quanto gli evidenziati elementi
potevano ricavarsi dal verbale di udienza, senza necessità di attenersi alle indicazioni contenute nell’art. 132 cod. proc. civ., e che la stessa non fosse neppure affetta da carenza di motivazione, in quanto conteneva la succinta esposizione delle ragioni di fatto e di diritto chieste dalla legge e il percorso logico-argomentativo posto a fondamento della decisione.
Per contro, è la censura ad essere generica e non specificare le parti della pronuncia asseritamente lacunose e inidonee, in contrasto col principio secondo cui l’esercizio del potere di diretto esame degli atti del giudizio di merito, riconosciuto al giudice di legittimità ove sia denunciato un error in procedendo , presuppone comunque l’ammissibilità del motivo di censura, onde il ricorrente non è dispensato dall’onere di specificare il contenuto della critica mossa alla sentenza impugnata, indicando anche puntualmente i fatti processuali alla base dell’errore denunciato, dovendo tale specificazione essere contenuta, a pena d’inammissibilità, nello stesso ricorso per cassazione, per il principio di autosufficienza di esso (Cass., Sez. 1, 6/9/2021, n. 24048; Cass., Sez. 5, 29/9/2017, n. 22880).
Consegue da quanto detto l’infondatezza della censura.
3.1 Col terzo motivo, si lamenta la violazione, falsa ed errata applicazione degli artt. 110, 111 cod. proc. civ., 115 e 116 cod. proc. civ., e il difetto assoluto di motivazione, in relazione all’art. 360, primo comma, n. 3, cod. proc. civ., perché i giudici di merito, pur rigettando correttamente l’eccezione di difetto di legittimazione attiva di NOME NOME, avevano respinto l’appello da lui proposto in quanto ritenevano che non avesse dimostrato né il decesso del padre, né la propria qualità di erede. Ad avviso del ricorrente, i giudici non avevano però considerato che l’esperimento di azioni giudiziarie tese alla rivendica o alla difesa della proprietà o le azioni di danni per la mancata disponibilità di
beni ereditari fossero espressione dell’accettazione tacita dell’eredità, siccome idonee a travalicare il semplice mantenimento dello stato di fatto esistente all’apertura della successione, come nella specie, e che, non essendosi costituiti gli eredi di NOME NOME siccome tutti rinunciatari dell’eredità, l’eccezione di difetto di legittimazione attiva da lui sollevata fosse venuta meno, senza che potesse essere riproposta da NOME in qualità di avente causa a titolo particolare e non quale erede, essendosi essa costituita due anni dopo l’instaurazione del giudizio d’appello, così da essere ormai decaduta dal potere di sollevare eccezioni.
3.2 Il terzo motivo è infondato.
I giudici d’appello hanno evidenziato come NOME NOME si fosse limitato ad affermare la sua qualità di figlio ed erede di NOME NOME, parte del giudizio di primo grado, senza tuttavia comprovare né la sua qualità di figlio, né quella di erede di NOME NOME con conseguente infondatezza perciò solo della sua domanda, costituendo la qualità di erede uno dei presupposti del diritto vantato in giudizio e conseguendo da ciò la mancata dimostrazione dei presupposti della domanda.
Tali argomentazioni sono del resto conformi al principio, affermato da questa Corte, secondo cui colui che, assumendo di essere erede di una delle parti originarie del giudizio, propone impugnazione, deve fornire la prova, ex art. 2697 cod. civ., di tale sua qualità, posto che la titolarità, attiva o passiva, della posizione soggettiva vantata in giudizio è elemento costitutivo della domanda ed attiene al merito della decisione, sicché spetta all’attore allegarla e provarla, salvo il riconoscimento da parte del convenuto o lo svolgimento di difese incompatibili con la sua negazione (Cass., Sez. 3, 27/9/2024, n. 25860; Cass., Sez. U, 16/2/2016, n. 2951).
Con la censura in esame, il ricorrente contesta invece la mancata valutazione, da parte dei giudici di merito, del fatto che la sola
impugnazione della sentenza emessa nel giudizio di primo grado costituisse in sé accettazione tacita dell’eredità, senza però considerare la ratio decidendi della sentenza, che non attinge, posto che i giudici di merito hanno ritenuto indimostrata non l’accettazione dell’eredità, ma, a monte, la sua qualità di figlio dell’originario convenuto e, più in generale, la stessa sua qualità di chiamato all’eredità, in contrasto col principio secondo cui i motivi posti a fondamento dell’invocata cassazione della decisione impugnata devono avere non solo i caratteri della specificità e della completezza, ma anche della riferibilità alla decisione stessa (Cass., Sez. 6-1, 24/2/2020, n. 4905; Cass., Sez. 6-1, 10/8/2017, n. 19989; Sez. 2, 17/7/2007, n. 15952; Cass., Sez. 3, 2/8/2002, n. 11530).
4. Il rigetto dei motivi che precedono e, soprattutto del terzo, comportano l’inammissibilità del quarto e del quinto motivo, coi quali si censura la sentenza impugnata, rispettivamente, per la violazione, falsa ed errata applicazione degli artt. 2909 cod. civ. e 324 cod. proc. civ., e per il difetto assoluto di motivazione, in relazione all’art. 360, primo comma, n. 3, cod. proc. civ., per avere i giudici di merito respinto la domanda di usucapione ponendo a fondamento della decisione la sentenza n. 2081/2017 della Corte d’Appello di Catanzaro, che aveva accertato l’assenza di forma scritta dell’accordo di permuta intercorso tra le parti e la qualificabilità in termini di detenzione e non di possesso della disponibilità dei beni che ne erano oggetto (il quarto), e per la violazione dell’art. 112 cod. proc. civ. e dell’art. 1158 cod. civ., per avere la Corte d’Appello omesso di pronunciarsi sulla censura con la quale si rappresentava come pacifica e per tabulas l’asserzione secondo cui il defunto NOME NOME aveva acquistato per usucapione le unità immobiliari in questione (il quinto).
Infatti, qualora la sentenza del giudice di merito si fondi su più ragioni autonome, ciascuna delle quali logicamente e giuridicamente idonea a sorreggere la decisione, l’omessa impugnazione, con ricorso per cassazione, anche di una soltanto di tali ragioni determina l’inammissibilità, per difetto di interesse, anche del gravame proposto avverso le altre, in quanto l’eventuale accoglimento del ricorso non inciderebbe sulla ratio decidendi non censurata, con la conseguenza che la sentenza impugnata resterebbe, pur sempre, fondata su di essa (Cass., Sez. I, 18 aprile 1998, n. 3951; Cass., Sez. 2, 30/3/2022, n. 10257).
Pertanto, essendo la sentenza impugnata fondata su plurime ragioni, ciascuna di esse idonea a reggere la decisione, ed essendovi tra queste il disconoscimento dell’avvenuta dimostrazione della qualità di erede dell’appellante rispetto alla posizione della parte che aveva promosso il giudizio di primo grado, appare evidente la sussistenza della sopravvenuta carenza di interesse ad analizzare le ulteriori argomentazioni fondanti la decisione.
In conclusione, dichiarata l’infondatezza dei primi tre motivi e l’inammissibilità dei restanti, il ricorso deve essere rigettato.
Le spese del giudizio, liquidate come in dispositivo, seguono la soccombenza e devono essere poste a carico del ricorrente.
6. Poiché il ricorso è deciso in conformità alla proposta formulata ai sensi dell’art. 380 -bis cod. proc. civ., vanno applicati -come previsto dal terzo comma, ultima parte, dello stesso art. 380-bis cod. proc. civ. -il terzo e il quarto comma dell’art. 96 cod. proc. civ., con conseguente condanna della ricorrente al pagamento, in favore della parte controricorrente, di una somma equitativamente determinata (nella misura di cui in dispositivo), nonché al pagamento di una ulteriore somma – nei limiti di legge – in favore della cassa delle ammende.
Considerato il tenore della pronuncia, va dato atto -ai sensi dell’art. 13, comma 1 -quater, del D.P.R. n. 115 del 2002 -della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello previsto per la proposizione dell’impugnazione, se dovuto.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento, in favore della parte controricorrente, delle spese del giudizio di legittimità, che liquida in € 3.500,00 per compensi, oltre alle spese forfettarie nella misura del 15%, agli esborsi liquidati in € 200,00 ed agli accessori di legge; condanna altresì il ricorrente, ai sensi dell’art. 96 cod. proc. civ., al pagamento, in favore della parte controricorrente, di una somma ulteriore liquidata in € 3.500,00, nonché al pagamento della somma di euro 3.000,00 in favore della cassa delle ammende;
dichiara la sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, se dovuto.
Così deciso in Roma, nella camera di consiglio del 11/12/2024.