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Legge Pinto e rinuncia: niente indennizzo presunto

Un’azienda agricola ha chiesto un indennizzo per l’eccessiva durata di una causa, conclusasi dopo molti anni con un accordo transattivo. La Corte di Cassazione ha rigettato il ricorso, confermando che in caso di Legge Pinto e rinuncia agli atti, si presume che l’accordo tra le parti copra anche il danno da ritardo. La parte che chiede l’indennizzo deve fornire una prova contraria specifica per superare tale presunzione.

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Pubblicato il 2 novembre 2025 in Diritto Civile, Giurisprudenza Civile, Procedura Civile

Legge Pinto e rinuncia: l’accordo transattivo esclude l’indennizzo?

L’ordinanza n. 4449/2024 della Corte di Cassazione affronta un tema cruciale in materia di equa riparazione per l’irragionevole durata del processo. La questione centrale riguarda il rapporto tra la Legge Pinto e rinuncia agli atti a seguito di un accordo transattivo: la transazione che pone fine a una lunga causa include implicitamente anche un risarcimento per il tempo eccessivo trascorso? La Corte ha fornito una risposta chiara, consolidando un principio fondamentale sull’onere della prova.

I Fatti del Caso: Una Causa Lunga e una Transazione Finale

Il caso ha origine da una controversia per il recupero di un credito, iniziata da un’azienda agricola nel lontano 1993. Dopo un iter giudiziario estremamente lungo, che ha attraversato diverse fasi, tra cui esecuzioni immobiliari senza esito, le parti coinvolte sono finalmente giunte a una ‘soluzione bonaria’ nel 2018. A seguito di questo accordo, le parti hanno rinunciato agli atti del giudizio, che è stato di conseguenza dichiarato estinto.

Successivamente, l’azienda agricola ha avviato un nuovo procedimento basato sulla Legge Pinto (L. 89/2001), chiedendo allo Stato un indennizzo per il danno non patrimoniale causato dalla durata irragionevole del processo originario, protrattosi per circa 25 anni.

La Decisione della Corte d’Appello: L’applicazione della Presunzione Legale

La Corte d’Appello di Potenza ha rigettato la domanda dell’azienda. I giudici hanno applicato l’articolo 2-sexies, lettera c), della Legge Pinto, introdotto nel 2015. Questa norma stabilisce una presunzione iuris tantum (cioè valida fino a prova contraria) di insussistenza del pregiudizio quando il processo si estingue per rinuncia o inattività delle parti. Secondo la Corte, l’accordo bonario che porta alla rinuncia è da considerarsi onnicomprensivo, includendo quindi anche una tacita compensazione per le conseguenze morali e patrimoniali derivanti dalla lunga attesa.

Il Ricorso in Cassazione sulla Legge Pinto e rinuncia

L’azienda ha impugnato la decisione in Cassazione, sostenendo principalmente tre motivi:
1. Violazione delle norme sulla prova: a suo dire, il danno morale si era già verificato e provato negli anni di processo eccedenti la durata ragionevole, prima ancora dell’estinzione.
2. Errata interpretazione dell’art. 2-sexies: la prova contraria alla presunzione di assenza di danno dovrebbe poter includere anche la prova presuntiva derivante dalla semplice, eccessiva durata del giudizio.
3. Incostituzionalità della norma: l’applicazione di questa presunzione, specialmente quando l’estinzione avviene dopo il superamento della durata ragionevole, violerebbe il diritto a un equo processo sancito dalla Costituzione e dalla Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo.

Le Motivazioni della Cassazione

La Corte di Cassazione ha rigettato il ricorso, confermando in toto la linea della Corte d’Appello. Gli Ermellini hanno chiarito che l’art. 2-sexies, lett. c), della Legge Pinto introduce una precisa regola sull’onere della prova. In caso di estinzione del giudizio per rinuncia agli atti, la legge presume che non vi sia stato alcun pregiudizio da irragionevole durata. Questa presunzione inverte l’onere probatorio: non è più lo Stato a dover dimostrare la ragionevolezza dei tempi, ma è il cittadino a dover fornire una prova concreta e specifica che, nonostante l’accordo transattivo, il danno da ritardo persiste e non è stato tacitamente compensato.

La Corte ha specificato che la mera affermazione della lunga durata del processo (in questo caso, di circa 11 anni oltre il ragionevole) non è sufficiente a superare questa presunzione legale. La tesi della ricorrente, se accolta, avrebbe di fatto annullato la portata della norma, rendendo la presunzione inoperante. La volontà del legislatore è stata quella di considerare gli accordi che portano all’estinzione come risolutivi di ogni pretesa, comprese quelle relative al ritardo, a meno che non venga fornita una prova contraria esplicita.

Infine, la Corte ha escluso l’incostituzionalità della norma, ribadendo che essa si limita a disciplinare la formazione e la valutazione della prova, senza impedire o condizionare la possibilità di chiedere l’equa riparazione. Si tratta di una norma processuale che non lede il diritto a un processo di durata ragionevole.

Le Conclusioni

Questa ordinanza consolida un importante principio: chi decide di chiudere una causa con una transazione e una conseguente rinuncia agli atti deve essere consapevole che, per legge, si presume che tale accordo soddisfi ogni sua pretesa, inclusa quella per l’eccessiva durata del processo. Per poter successivamente richiedere un indennizzo ai sensi della Legge Pinto, non basterà più lamentare la lentezza della giustizia, ma sarà necessario fornire prove concrete che dimostrino che l’accordo transattivo non ha coperto il danno derivante dal ritardo.

Se un processo si conclude con un accordo e una rinuncia agli atti, ho ancora diritto all’indennizzo per la sua eccessiva durata secondo la Legge Pinto?
In linea di principio no. La legge presume che l’accordo transattivo che porta alla rinuncia agli atti sia onnicomprensivo e soddisfi tutte le pretese delle parti, incluso il danno da irragionevole durata. Per ottenere un indennizzo, è necessario fornire una prova specifica e contraria che superi questa presunzione legale.

La semplice dimostrazione che il processo è durato molto più del ragionevole è sufficiente a superare la presunzione di assenza di danno in caso di rinuncia?
No. Secondo la Corte di Cassazione, la sola affermazione della persistenza del pregiudizio ‘in re ipsa’ (cioè, per il solo fatto che il processo si è protratto a lungo) non è sufficiente a vincere la presunzione introdotta dall’art. 2-sexies, lett. c), della Legge Pinto. Serve una prova concreta che il danno non sia stato ricompreso nell’accordo transattivo.

La norma che presume l’assenza di danno in caso di rinuncia agli atti è costituzionale?
Sì. La Corte di Cassazione, richiamando precedenti pronunce anche della Corte Costituzionale, ha stabilito che questa norma è legittima. Essa non nega il diritto all’equa riparazione, ma si limita a regolare l’onere della prova, stabilendo una regola processuale che non impedisce di agire in giudizio ma richiede al ricorrente di fornire elementi probatori più specifici in questa particolare circostanza.

La selezione delle sentenze e la raccolta delle massime di giurisprudenza è a cura di Carmine Paul Alexander TEDESCO, Avvocato a Milano, Pesaro e Benevento.

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