Ordinanza di Cassazione Civile Sez. L Num. 9830 Anno 2025
Civile Ord. Sez. L Num. 9830 Anno 2025
Presidente: COGNOME NOME
Relatore: COGNOME
Data pubblicazione: 15/04/2025
ORDINANZA
sul ricorso 17722-2023 proposto da:
COGNOME NOME, elettivamente domiciliata in ROMA, INDIRIZZO NOME COGNOME INDIRIZZO presso lo studio dell’avvocato NOME COGNOME che la rappresenta e difende;
– ricorrente –
contro
DE COGNOME elettivamente domiciliata in ROMA, INDIRIZZO presso lo studio dell’avvocato NOME COGNOME che la rappresenta e difende;
– controricorrente –
nonché contro
COGNOME NOMECOGNOME
– intimato – avverso la sentenza n. 987/2023 della CORTE D’APPELLO di ROMA, depositata il 15/03/2023 R.G.N. 1865/2019; udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del
12/02/2025 dal Consigliere Dott. NOME COGNOME
Oggetto
R.G.N. 17722/2023
COGNOME
Rep.
Ud. 12/02/2025
CC
Fatti di causa
La Corte d’appello di Roma, con la sentenza in atti, in accoglimento dell’appello principale proposto da COGNOME NOME e, in riforma della sentenza impugnata, ha rigettato le domande proposte da COGNOME NOME ha rigettato l’appello incidentale proposto dalla medesima COGNOME NOME e l’ha condannata alla rifusione delle spese processuali nei confronti di COGNOME NOME erede di COGNOME NOME; nulla ha statuito sulle spese di lite del doppio grado di giudizio nel rapporto processuale tra Vecchi NOME e NOME NOME rimasto contumace.
A fondamento della pronuncia la Corte ha affermato che COGNOME NOME non aveva dato la prova della sussistenza della natura subordinata del rapporto di lavoro dedotto per il periodo dal 1972 al 2013, come rapporto di lavoro subordinato in nero intercorso con il de cuis e dante causa COGNOME NOME presso il laboratorio di quest’ultimo , negozio di pellicceria posto in INDIRIZZO
Contro la sentenza ha proposto ricorso per cassazione COGNOME NOME con due motivi di ricorso ai quali ha resistito con controricorso COGNOME NOME. Il Collegio ha riservato il deposito della motivazione nei termini di legge.
Ragioni della decisione
1.- Con il primo complesso motivo si deduce: a) violazione dell’articolo 2094 cc, per mancata valutazione degli indici presuntivi della subordinazione pacificamente acquisiti al processo, da cui emerge palesemente il rapporto di subordinazione illegittimam ente negato dalla Corte d’appello, ai sensi dell’articolo 360, comma 1, n.3 c.p.c.; b) omesso esame degli indici della subordinazione che sono stati accertati nelle sentenze di merito, decisivi per il giudizio e che sono stati oggetto di discussione tra le parti; manifesta illogicità della
motivazione in ordine agli unici due indici sintomatici della subordinazione che sono stati valorizzati dalla Corte d’appello, ai sensi dell’articolo 360, comma 1, n.5 c.p.c.; c) omesso esame degli ulteriori dati probatori pure acquisiti al processo nel contraddittorio delle parti e decisivi ai fini della valutazione della subordinazione, ai sensi dell’articolo 360, comma 1, n.5;
2.- Con il secondo motivo si sostiene la violazione, ai sensi dell’art. 360, comma 1, numero 3 c.p.c., degli articoli 2094 cc, 2730 cc e 2735 cc, in relazione all’art. 116 c.p.c., per omessa valutazione della prova ‘legale’ di natura confessoria, rappresentata dal documento del 13 marzo 2015 pacificamente redatto dalla resistente (verbale di restituzione contenente dichiarazione di rinuncia della lavoratrice tipo quietanza a saldo), nonché della ulteriore prova legale rappresentata dal ‘mastrino’ provenient e dal datore di lavoro e contenente i pagamenti della retribuzione alla lavoratrice dal 1972 al 1987. In subordine, omesso esame dei due menzionati dati probatori decisivi ai fini della valutazione della subordinazione, ai sensi dell’articolo 360, comma 1, n.5 c.p.c.
3.- I motivi possono essere affrontati unitariamente per la connessione che li avvince e devono essere disattesi.
Deve essere ricordato che la Corte di appello ha anzitutto rilevato che i testimoni assunti in giudizio si sono limitati a sostenere che la Vecchi fosse presente presso il negozio ma senza precisare alcun concreto atto di esercizio del potere di controllo e/o di specifiche direttive impartite dall’asserito datore di lavoro. La Corte ha quindi rilevato che le allegazioni della ricorrente sull’esistenza degli indici della subordinazione non fossero sufficienti ai fini della prova del rapporto di lavoro dedotto e fossero piuttosto in contraddizione con una serie di circostanze fattuali acquisite al giudizio: innanzitutto il fatto che nel 1998 NOME cessò la propria attività e trasferì la
propria residenza anagrafica a Ladispoli; mentre pacificamente proseguì l’attività lavorativa prestata dalla COGNOME presso il negozio pellicceria; in secondo luogo risultava pacificamente che dopo la morte del NOME COGNOME proseguì l’attività lavorativa presso il medesimo laboratorio e che l’immobile fu dato in affitto alla stessa COGNOME; risultava altresì l’utilizzo da parte della lavoratrice di beni strumentali di proprietà, in particolare macchine da cucire; risultava anche che COGNOME lavorasse per conto proprio; dai mastrini depositati emergeva che la lavoratrice avesse percepito importi annuali sempre diversi tra di loro con incrementi progressivi obiettivamente inspiegabili rispetto all’invocata natura subordinata del rapporto di lavoro e ciò a fronte della dedotta prestazione delle stesse mansioni con lo stesso orario di lavoro per tutto il periodo di riferimento; inoltre, per il periodo dal 1976 al 1983, quindi per quasi sette anni interamente ricompresi nel periodo di riferimento, la COGNOME fu titolare di partita Iva senza che la lavoratrice avesse fornito alcuna giustificazione al riguardo.
5. Sulla scorta di tali elementi probatori -che attestano la mancanza degli elementi costitutivi della subordinazione di cui all’art.2094 c.c., rappresentati dall’assoggettamento al potere direttivo, di controllo e disciplinare – la Corte ha escluso l’es istenza di un rapporto di lavoro subordinato. E quella presa appare una decisione congrua che rientra nei poteri del giudice di merito effettuare e che non viola alcuna norma di legge in ordine alla qualificazione ed alla sussunzione del fatto accertato, atteso che gli elementi evidenziati configurano indici sintomatici della carenza della subordinazione e confermano la assenza della doppia alienità (di organizzazione e di risultato) tipica del lavoro dipendente attraverso cui la persona si mette a disposizione del datore per essere assoggettato al suo potere direttivo, di controllo e disciplinare.
6.- Tanto premesso, va rilevato per contro che le critiche sollevate in ricorso dalla difesa della ricorrente si discostano dallo schema proprio di una censura di legittimità. Esse, sotto l’apparente deduzione del vizio di violazione e falsa applicazione di legge, degradano in realtà verso l’inammissibile richiesta a questa Corte di una rivalutazione dei fatti storici acquisiti al giudizio e su cui la Corte di merito ha già espresso la propria motivata e discrezionale opzione valutativa.
7.- Deve rilevarsi in proposito che quello di Cassazione non è un terzo grado di giudizio il cui compito sia di verificare la fondatezza di ogni affermazione effettuata dal giudice di appello nella sentenza.
Esso è invece (Cass. n. 25332/2014) un giudizio a critica vincolata, nel quale le censure alla pronuncia di merito devono trovare collocazione entro un elenco tassativo di motivi, in quanto la Corte di Cassazione non è mai giudice del fatto in senso sostanziale ed esercita un controllo sulla legalità e logicità della decisione che non consente di riesaminare e di valutare autonomamente il merito della causa.
Ne consegue che la parte non può limitarsi a censurare la generica e complessiva valutazione delle risultanze processuali contenuta nella sentenza impugnata, contrapponendovi la propria diversa interpretazione, al fine di ottenere la revisione degli accertamenti di fatto compiuti; ma deve promuovere specifiche censure nei limiti dei motivi consentiti dalla legge.
8.- Deve ritenersi perciò che la decisione cui è prevenuta al Corte territoriale rappresenti una legittima e logica opzione valutativa del materiale probatorio, e si sottragga quindi alle censure articolate nel ricorso con le quali, anzitutto, sotto le mentite spoglie di violazioni di legge, la parte ricorrente si limita a richiedere una diversa valutazione dei fatti già esaminati dal giudice di merito. (Cass. 8758/2017).
9.E’ pure ripetutamente affermato da questa Corte di Cassazione che, ai fini di una corretta decisione, il giudice non è tenuto a valutare analiticamente tutte le risultanze processuali, ne’ a confutare singolarmente le argomentazioni prospettate dalle parti, essendo invece sufficiente che egli, dopo averle vagliate nel loro complesso, indichi gli elementi sui quali intende fondare il suo convincimento e l’iter seguito nella valutazione degli stessi e per le proprie conclusioni, implicitamente disattendendo quelli logicamente incompatibili con la decisione adottata.
10.- E tale parametro valutativo si applica anche in relazione agli indici sintomatici della subordinazione, talché non appare rilevante la censura secondo cui la Corte avrebbe privilegiato alcuni indici a scapito di altri di opposto tenore; tutto ciò rappresentando null’altro che l’esercizio di un tipico potere di valutazione della prova e di ricostruzione della fattispecie che rientra nei tipici poterei discrezionali del giudice del merito effettuare tanto in ordine agli elementi essenziali del rapporto di lavoro subordinato, tanto in relazione ai requisiti sintomatici del medesimo rapporto.
11.Non sussiste inoltre l’omessa valutazione di fatti decisivi o la violazione di legge denunciata in relazione alla valutazione della asserita prova ‘legale’ di natura confessoria, rappresentata dal documento del 13 marzo 2015 (verbale di restituzione contenente dichiarazione di rinuncia della lavoratrice tipo quietanza a saldo), nonché della ulteriore asserita prova legale rappresentata dal ‘mastrino’ proveniente dal datore di lavoro e contenente i pagamenti della retribuzione alla lavoratrice dal 1972 al 1987.
Le deduzioni del ricorrente si risolvono in realtà in una censura di merito, preclusa in cassazione poiché con essa non si lamenta l’omesso esame di un fatto, ma si contesta l’apprezzamento di
una risultanza istruttoria, senza confrontarsi con il principio generale per cui la valutazione delle prove appartiene al giudice di merito. L’omesso esame denunziabile in sede di legittimità, infatti, deve riguardare un fatto storico considerato nella sua oggettiva esistenza, ‘… dovendosi intendere per “fatto” non una “questione” o un “punto” della sentenza, ma un fatto vero e proprio e, quindi, un fatto principale, ex art. 2697 c.c., (cioè un fatto costitutivo, modificativo, impeditivo o estintivo) od anche un fatto secondario (cioè un fatto dedotto in funzione di prova di un fatto principale), purché controverso e decisivo’ (Cass. Sez. 1, Sentenza n. 17761 del 08/09/2016; cfr. anche Cass. Sez. 5, Ordinanza n. 2805 del 05/02/2011).
Non sono quindi ‘fatti’ nel senso indicato dall’art. 360, primo comma, n. 5, c.p.c., né le singole questioni decise dal giudice di merito, né i singoli elementi di un accadimento complesso, comunque apprezzato, né le mere ipotesi alternative, ed infine neppure le singole risultanze istruttorie, ove comunque risulti un complessivo e convincente apprezzamento del fatto svolto dal giudice di merito sulla base delle prove acquisite nel corso del relativo giudizio.
12.- Tanto permesso va rilevato che anzitutto la dichiarazione di rinuncia e la quietanza a saldo, di cui si dice nel motivo di censura, non ha alcuna valenza confessoria non essendo una dichiarazione della controparte ma proveniente dalla stessa lavoratrice.
Inoltre in proposito non c’è stato appunto una omessa valutazione del fatto in oggetto posto che la Corte ha valutato il documento ed ha affermato che nello stesso mancava la specificazione ‘circa il titolo ed il quantum rinunciato’.
13.- Anche il pagamento di somme, risultante anno per anno dai mastrini, da parte del COGNOME NOME non integra l’omessa valutazione di un fatto essendo esso stato considerato
dalla Corte di appello laddove ha dato atto che ci fosse un libro contabile in cui risultavano questi pagamenti, pure valorizzando il fatto che le somme ivi registrate fossero di importo sempre diverso con incrementi progressivi e che essi non fossero compatibili con il dedotto rapporto di lavoro subordinato.
14.- Il ricorso va pertanto rigettato, con condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali; deve darsi atto, inoltre, che sussistono le condizioni richieste dall’art. 13, comma 1 quater del d.P.R. n. 115 del 2002 per il raddoppio del contributo unificato a carico del ricorrente.
PQM
La Corte rigetta il ricorso e condanna la parte ricorrente al pagamento delle spese processuali che si liquidano in € 3500,00 per compensi e € 200,00 per esborsi, oltre al rimborso forfettario nella misura del 15% e agli altri oneri di legge; ai sensi dell ‘articolo 13, comma 1 quater d.p.r. numero 115 del 2000, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma del comma 1-bis dello stesso articolo 13.
Roma, così deciso nella camera di consiglio del 12.2.2025
La Presidente
Dott.ssa NOME COGNOME