Ordinanza di Cassazione Civile Sez. L Num. 8089 Anno 2025
Civile Ord. Sez. L Num. 8089 Anno 2025
Presidente: COGNOME
Relatore: COGNOME
Data pubblicazione: 27/03/2025
non preclude la decisione della causa sulla base della disamina dei motivi;
2.
con il primo motivo i ricorrenti lamentano la violazione di norme diritto e di contrattazione collettiva (art. 360 n. 3 c.p.c.) sostenendo che erroneamente la Corte d’Appello avesse ritenuto necessaria la prova dell’autorizzazione ad eseguire lavoro straordinario ai sensi dell’art. 3 4 CCNL di comparto, in una
fattispecie in cui quella norma non doveva essere applicata ed altresì erroneamente era stato ritenuto che dovesse essere autorizzata la pausa non inferiore a trenta minuti e non superiore a sessanta minuti;
il secondo motivo è rubricato come « violazione e falsa applicazione di norme di diritto ex art. 360 n.- 3 c.p.c. per violazione degli artt. 115 e 116 c.p.c. per avere la Corte compiuto un errore di percezione sul contenuto oggettivo dei documenti e dell’onere probatorio ritenuto non assolto da parte dei ricorrenti ed erronea valutazione del compendio probatorio »;
il motivo sostiene che la Corte d’Appello non avrebbe compreso che le decurtazioni dei tempi di lavoro risultanti dai cartellini presenza erano del tutto unilaterali ed illegittime, come già accertato nel diverso giudizio davanti al Tribunale di Pordenone intentato da altri lavoratori;
il motivo afferma poi che i tempi di lavoro dovevano essere desunti dai cartellini, trattandosi di documenti assimilabili ai libri ed alle scritture contabili, il cui dato storico dell’osservanza del corrispondente tempo di lavoro era incontestato, sicché non era legittimo, come già accertato dal Tribunale di Pordenone n ell’ altra causa, che il tempo venisse decurtato e non remunerato;
con il terzo motivo è denunciata, richiamando l’art. 360 n. 3 c.p.c., la violazione e falsa applicazione dell’art. 132 c.p.c., sostenendosi che la motivazione della sentenza impugnata sarebbe stata solo apparente ove essa, pur riconoscendo l’efficacia riflessa del giudicato formatosi in altro giudizio, sotto il profilo caducatorio delle norme del Regolamento che prevedevano decurtazioni nel computo di orari risultanti dai cartellini, aveva concluso, senza meglio argomentare, che era mancata prova dell’autorizzazione per eseguire il lavoro aggiuntivo rispetto a quello dovuto, così integralmente obliterando le ragioni per le quali i ricorrenti avevano agito in giudizio;
il quarto motivo deduce infine la « violazione dell’art. 360 n. 5 c.p.c. per omesso esame di un fatto decisivo e controverso nella parte in cui la Corte ha rigettato la domanda di pagamento svolta dai ricorrenti a titolo sanzionatorio per non avere il CRO dato adempimento alla sentenza n. 57/2017 »;
3.
i motivi possono essere esaminati congiuntamente, data la connessione, in ragione della loro consecuzione logica;
4.
la Corte d’Appello, nel merito, ha ritenuto che le risultanze dei cartellini non dimostrassero che gli spezzoni orari, di cui si asserisce l’eccedenza rispetto all’orario normale regolarmente osservato, fossero stati autorizzati, anche implicitamente, né che -in sostanza – essi necessitassero di remunerazione e ciò sul presupposto che in realtà le ore indicate sui cartellini di presenza ivi comprese le pause lavorate fossero state « recuperate o retribuite »;
ciò già esclude -con riferimento al terzo motivo -che si possa in alcun modo parlare di motivazione apparente, perché il senso dell’argomentazione è ben chiaro, nei termini essenziali appena riepilogati;
5.
iniziando quindi dai profili sostanziali, si rileva che i primi tre motivi confidano in modo erroneo sull’ipotesi che le asserite illegittimità del Regolamento si dovrebbero tradurre nel diritto alla remunerazione dei periodi in cui esso stabiliva che non vi fosse computo di orario;
in tal modo, le censure finiscono per non misurarsi con la ratio decidendi secondo cui comunque non vi era stata dimostrazione che in quei periodi vi fossero state ore di lavoro risultanti dai cartellini eccedenti rispetto a quelle « recuperate o retribuite » ed autorizzate nel loro svolgimento;
in altre parole, se anche quelle illegittimità del Regolamento fossero da ritenere sussistenti, ciò non significa che siano dovuti pagamenti aggiuntivi, se non sia dimostrato che le ore di cui ai cartellini eccedessero quanto in concreto considerato a fini retributivi o di riposo dal datore di lavoro;
l’insistenza in sé rispetto alla valenza da attribuire all’illegittimità del Regolamento non inficia dunque in alcun modo la sentenza impugnata, la quale non solo ha ritenuto l’insussistenza di un’autorizzazione anche solo implicita allo svolgimento di ore in più, ma ha altresì ritenuto che non fosse stata dimostrato l’esistenza di lavorazioni eccedenti rispetto a quelle « recuperate o retribuite », il che è del tutto sufficiente al rigetto delle domande avanzate in via monitoria;
5.1
eccentrica rispetto alla ratio decidendi è anche l’affermazione secondo cui la Corte di merito -come si dice nella rubrica del primo motivo -avrebbe ritenuto che le pause di trenta minuti dovessero essere autorizzate, mentre la normativa sull’orario (d. lgs. n. 66 del 2003) ne prevederebbe la fruizione ogni qual volta l’orario giornaliero ecceda le sei ore;
la Corte territoriale ha infatti detto -diversamente e come si va a ripetere -che non vi erano ore di pausa o di lavoro che non fossero state « recuperate o retribuite », non negando né il diritto alle pause né quello alla remunerazione del lavoro, ma affermando che non vi era stata prova della violazione né dell’uno, né dell’altro;
5.2
l’insistenza su profili alla fine ininfluenti perché destinati a non sopperire agli elementi probatori di quanto accaduto e che sono stati valorizzati dalla Corte d’Appello rende le censure in parte qua sostanzialmente prive di aderenza impugnatoria rispetto al decisum e come tali inammissibili;
6.
venendo ai profili probatori, non può intanto essere minimamente condiviso quanto si afferma nel secondo motivo in ordine all’assimilabilità dei cartellini ai ‘libri ed alle scritture contabili’, di cui all’art. 2709 c.c.;
questi ultimi sono infatti documenti tipici dell’imprenditore soggetto a registrazione, individuati nell’art. 2214 c.c., che non concerne i sistemi documentativi del tempo di lavoro;
d’altra parte, i cartellini marcatempo, quale che sia la loro natura giuridica, comprovano il fatto in sé dell’utilizzazione di essi in entrata ed in uscita da parte del lavoratore, ma non di certo e con fede privilegiata che tra l’uno e l’altro momento vi sia stata effettiva attività di lavoro e ciò tanto meno in un caso, come quello di specie, ove è controverso proprio che alcuni degli spazi orari interni a quei due momenti siano stati effettivamente lavorati o comunque siano stati lavorati con ore poi non « recuperate o retribuite »;
6.1
deve poi richiamarsi il principio di diritto enunciato da Cass., S.U., 5 marzo 2024 n.5792, secondo cui il travisamento del contenuto oggettivo della prova, il quale ricorre in caso di svista concernente il fatto probatorio in sé, e non di verifica logica della riconducibilità dell’informazione probatoria al fatto probatorio, trova il suo istituzionale rimedio nell’impugnazione per revocazione per errore di fatto, in concorso dei presupposti richiesti dall’articolo 395, n. 4, c.p.c., mentre, ove il fatto probatorio abbia costituito un punto controverso sul quale la sentenza ebbe a pronunciare, e cioè se il travisamento rifletta la lettura del fatto probatorio prospettata da una delle parti, il vizio va fatto valere, in concorso dei presupposti di legge, ai sensi dell’articolo 360, nn. 4 e 5, c.p.c., a seconda si tratti di fatto processuale o sostanziale;
avuto riguardo a tale condiviso principio di diritto, il preteso travisamento del contenuto dei cartellini presenza -di cui sempre
al secondo motivo – non si risolve in una svista, in un errore materiale di percezione, ma nella valutazione della concludenza degli elementi di prova desumibili dai cartellini presenza alla luce dell’oggetto della controversia, identificato dalla corte territoriale in una domanda di pagamento del lavoro prestato oltre l’orario normale, ritenuta non fondata;
si tratta ancora della valutazione delle prove, riservata al prudente apprezzamento da parte del giudice del merito, come previsto dall’art.116 c.p.c. e in questa sede non censurabile in quanto tale, sicché il motivo, che fa leva anche sulla violazione di tale norma, è anche in tale parte inammissibile;
7.
tutto ciò vale anche rispetto a quella parte del quarto motivo, rubricato ai sensi dell’art. 360 n. 5 c.p.c., in cui ancora si insiste sull’inosservanza in sé, da parte del CRO, delle statuizioni di illegittimità del Regolamento o sulle risultanze dei cartellini presenza;
si tratti infatti di profili che nulla hanno a che vedere con un fatto materiale -di cui sia stata in ipotesi omessa la considerazione -e che riguardano invece la valutazione delle risultanze istruttorie compiuta dalla Corte territoriale, ed in particolare degli elementi di prova desumibili dai cartellini presenze, ovverosia profili tutti la cui censura è inammissibile in sede di legittimità (Cass., S.U., 27 dicembre 2019, n. 34476; Cass., S.U., 25 ottobre 2013, n. 24148; ora anche Cass. 22 novembre 2023, n. 32505);
in altre parole, quegli aspetti non riguardano un fatto storicamente inteso che è quanto considerato dall’art. 360 n. 5 c.p.c. – ma la valutazione di prove soggette al prudente apprezzamento del giudice e tra l’altro nemmeno può ritenersi che la Corte territoriale abbia omesso alcun esame sul punto, avendo ritenuto, come si è già visto, che non emergessero ore di pause lavorate o altre ore che non fossero state « recuperate o retribuite »;
quanto detto è già sufficiente, potendosi solo aggiungere che il riferimento, nella rubrica del quarto motivo, ad una domanda svolta dai ricorrenti ‘a titolo sanzionatorio’, per non avere dato il CRO dato adempimento alla sentenza n. 57/2017, ovverosia all’originaria sentenza che dichiarò l’illegittimità del Regolamento, non trova alcuna migliore spiegazione -al di là di quanto sopra detto -nel corpo della censura;
essa resta una mera affermazione, tra l’altro priva di qualsiasi aggancio ad ipotesi sanzionatorie effettivamente regolate (ad es. art. 614 bis c.p.c.), rispetto ad un aspetto che non è dimostrato, in assenza di menzione nella sentenza impugnata, si sia mai discusso specificamente in causa, il che è ulteriore ragione di inammissibilità (Cass. 9 agosto 2018, n. 20694; Cass. 13 giugno 2018, n. 15430; Cass. 18 ottobre 2013, n. 23675);
8.
per queste ragioni il ricorso deve essere dichiarato complessivamente inammissibile con conseguente condanna dei ricorrenti al pagamento delle spese del giudizio di legittimità, liquidate come da dispositivo.
P.Q.M.
La Corte dichiara inammissibile il ricorso e condanna i ricorrenti al pagamento in favore della controparte delle spese del giudizio di cassazione che liquida in euro 1.500,00 per compensi ed euro 200,00 per esborsi, oltre spese generali in misura del 15 % ed accessori di legge.
Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte dei ricorrenti, dell’ulteriore importo a titolo di
contributo unificato pari a quello previsto, per il ricorso a norma del cit. art. 13, comma 1-bis, se dovuto.
Così deciso in Roma nell’adunanza camerale del 5.3.2025.