Ordinanza di Cassazione Civile Sez. L Num. 20354 Anno 2025
Civile Ord. Sez. L Num. 20354 Anno 2025
Presidente: NOME COGNOME
Relatore:
Data pubblicazione: 21/07/2025
Oggetto
Differenze retributive -lavoro straordinario.
R.G.N. 2502/2021
COGNOME
Rep.
Ud. 12/06/2025
CC
ORDINANZA
sul ricorso 2502-2021 proposto da:
COGNOME rappresentato e difeso dall’avvocato NOME COGNOME
– ricorrente –
contro
RAGIONE_SOCIALE in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentata e difesa dall’avvocato NOME COGNOME
– controricorrente –
avverso la sentenza n. 1713/2020 della CORTE D’APPELLO di ROMA, depositata il 18/09/2020 R.G.N. 342/2017;
udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 12/06/2025 dal Consigliere Dott. NOME COGNOME
RILEVATO CHE
Con ricorso al Tribunale di Roma, sez. Lavoro, NOME COGNOME chiedeva condannarsi la RAGIONE_SOCIALE al pagamento in suo favore della somma di € 205.563,96 a titolo di differenze retributive, deducendo di aver prestato attività lavorativa alle dipendenze della società dal 2.2.1987 al 1.9.2010, quale addetto alla sorveglianza -inquadrato al livello V del C.C.N.L. Commercio – e di aver svolto, dall’assunzione fino alla quiescenza per anzianità, le mansioni di addetto alla sorveglianza per sette giorni settimanali dal lunedì alla domenica dalle ore 18 alle ore 6 del mattino, compresi i giorni festivi. Lamentava che il datore di lavoro per tutto il periodo in cui si era articolato il rapporto di lavoro gli aveva corrisposto una retribuzione per il lavoro ordinario, straordinario, notturno e festivo inferiore a quella contrattuale e non gli aveva pagato la tredicesima e quattordicesima mensilità nella misura contrattualmente dovuta; alla cessazione del rapporto aveva pagato a titolo di T.F.R. il solo l’importo di € 17.774,00 a fronte dell’importo dovuto di € 56.856,64; per il periodo dal 2.2.1987 al 25.4.1994 non aveva mai usufruito di ferie né aveva percepito il rateo ferie non godute; nel periodo dal maggio 1994 al novembre 2009 non aveva usufruito di ferie nella misura contrattualmente spettante né ha percepito il rateo ferie non godute; non aveva usufruito di permessi per festività soppresse e riduzione di orario.
Con sentenza n. 9282/2016 del 27.10.2016 il Tribunale di Roma, Sezione Lavoro, in parziale accoglimento della domanda, condannava la RAGIONE_SOCIALE al pagamento in favore del Seri della somma di € 10.548,80 per TFR; di € 1.040,26 per differenze retributive, di € 21.418,17 a titolo di maggiorazione per lavoro straordinario. In particolare, per quanto ancora rileva, il Tribunale, ritenuto inapplicabile, in carenza di accordi in deroga all’orario normale di lavoro, il disposto dell’art. 16 del d.lgs. 66/2003, riteneva provato che il Seri avesse lavorato in media per almeno 9 ore al giorno per 6 giorni a settimana e che, stante l’intervenuta prescrizione dei crediti antecedenti al 17 aprile 2008, gli
spettasse a titolo di maggiorazioni per lavoro straordinario la somma di € 21.418,17. Quanto al TFR riteneva provata la corresponsione a tale titolo dell’importo di € 14.367,51 ma non degli acconti di € 2.000 – portato nella busta paga di novembre 2003 – e di € 5.000 – indicato nella busta paga di dicembre 2009.
Con sentenza n. 1713 del 18.9.2020 la Corte d’Appello di Roma, in parziale riforma della sentenza impugnata e in parziale accoglimento sia dell’appello principale della società che di quello incidentale del lavoratore, condannava la RAGIONE_SOCIALE al pagamento in favore di NOME COGNOME della minor somma di € 4.929,64 di cui € 1.380,75 a titolo di differenze per retribuzioni ordinarie ed € 3.548,89 per differenze sul TFR. La Corte, diversamente a quanto affermato dal Giudice di prime cure, affermava non spettare al Seri gli importi liquidati a titolo di maggiorazione per lavoro straordinario, ritenendo che l’art. 16 del d.lgs. 66/2003, ‘ disciplinante di per sé una deroga alla determinazione dell’orario normale di lavoro, non richieda per la sua applicabilità espliciti accordi in deroga. Al contrario, la salvezza delle condizioni di miglior favore vanno riferite proprio alla disciplina dell’esclusione regolamentata dalla norma; ovvero i contratti collettivi possono validamente prevedere delle disposizioni di maggior favore che prevedano l’applicazione della limitazione dell’orario per le attività in questione ‘. Quanto alle somme versate a titolo di TFR, accoglieva l’appello proposto sul punto dalla Comfer ritenendo provata la sola corresponsione dell’acconto di € 5.000 contenuto nella busta paga del 2009 ma non di quello di € 2.000 del 2003. In parziale accoglimento dell’appello incidentale del Seri, poi, riteneva che le missive sottoscritte dal solo difensore del lavoratore costituissero validi atti interruttivi della prescrizione con la conseguenza che la prescrizione poteva dirsi maturata solo per le spettanze antecedenti al 19 ottobre 2005.
Avverso tale pronuncia propone ricorso per cassazione NOME COGNOME affidato a tre motivi.
Resiste con controricorso la RAGIONE_SOCIALE
Entrambe le parti hanno depositato memorie.
CONSIDERATO CHE
Con il primo motivo il ricorrente lamenta, in relazione all’art. 360, co. 1, n. 3 c.p.c., la violazione e falsa applicazione dell’art. 16 del d.lgs. n. 66/2003, degli artt. 35 del CCNL Commercio del 28.3.1987, 30 del CCNL Commercio del 30.11.1998, 40 del CCNL Commercio del 20.9.2001, 135 del CCNL Commercio del 18.7.2008 Deduce che, posto che dal comb. disp. degli artt. 3 e 4 del d.lgs n. 66/2003 si evince che il normale orario di lavoro è fissato in 40 ore settimanali, modificabile in senso riduttivo dai contratti collettivi (ma con l’obbligo di riferire l’orario normale alla durata media delle prestazioni lavorative in un periodo non superiore all’anno) e che la durata massima dell’orario di lavoro è quella fissata volta per volta dalla contrattazione collettiva e che non può comunque superare mediamente le 48 ore settimanali, comprese le ore di straordinario, le disposizione dei CCNL di settore – richiamate in ricorso – che avevano previsto, quale durata normale del lavoro effettivo per la generalità delle aziende e attività commerciali, l’orario di lavoro di 40 ore settimanali e, per il personale discontinuo o di semplice attesa o custodia (quali i guardiani diurni e notturni), la durata dell’orario normale di lavoro in 45 ore settimanali, costituivano proprio quella ‘disciplina più favorevole’ fatta salva dall’art. 16 del d.lgs n. 66/2003 in relazione alla sancita inapplicabilità dell’art. 3 ai lavoratori ‘discontinui’.
Con il secondo motivo il COGNOME lamenta, in relazione all’art. 360, co. 1, n. 5, c.p.c., l’omessa, insufficiente o contraddittoria motivazione circa un fatto controverso e decisivo per il giudizio; violazione e falsa applicazione dell’art. 132, co. 2, n. 4 c.p.c., dell’art. 115 c.p.c., degli artt. 416 e 437 cod. proc. civ. per avere la Corte di Appello ritenuto in parte fondato il secondo motivo di gravame sul presupposto (errato) che vi fosse la prova della corresponsione dell’importo di € 5.000,00 indicato nel cedolino paga
di dicembre 2009 a titolo di TFR sull’assunto che tale versamento sarebbe stato accertato dal C.T.U. in base al bonifico allegato alla perizia tecnica di parte convenuta, nonostante tale produzione fosse tardiva e inammissibile, oltre che irrituale in quanto non autorizzato dal Tribunale, come contestato dal ricorrente in sede di osservazioni alla C.T.U. del 30.9.2016. Lamentava che in violazione del disposto di cui agli artt. 416 e 437 cod. proc. civ. e dell’art. 115 cod. proc. civ. il Giudice di appello aveva ritenuto tardiva e inammissibile soltanto la produzione documentale relativa al versamento del novembre 2003 ma non anche quella afferente al versamento del dicembre 2009.
Con il terzo motivo di ricorso si deduce violazione e falsa applicazione dell’art. 115 cod. proc. civ. in relazione e all’art. 360, co. 1 n. 3, cod. proc. civ. per avere la Corte territoriale rigettato il primo motivo dell’appello incidentale (relativo ad un diverso e più lungo orario di lavoro effettivo) sul rilievo che l’essere stato il lavoratore accompagnato sul luogo di lavoro soltanto in alcune occasioni, in termini generici, non costituirebbe prova sufficiente dello svolgimento del lavoro con orario superiore alle 9 ore settimanali per 6 giorni con la continuità e la regolarità dedotti in giudizio, quale accertato dal giudizio di primo grado, nonostante le deposizioni rese dai testi escussi fossero ‘ampiamente esaustive in ordine alla descrizione dell’orario di lavoro ordinario, straordinario e festivo osservato dal Sig. COGNOME nel corso del rapporto’.
Il primo motivo è inammissibile. Va, infatti, osservato che, in tema di ricorso per cassazione, qualora siano prospettate questioni di cui non vi è cenno nella sentenza impugnata, il ricorrente deve, a pena di inammissibilità della censura, non solo allegarne l’avvenuta loro deduzione dinanzi al giudice di merito, ma anche, in virtù del principio di autosufficienza, indicare in quale specifico atto del grado precedente ciò sia avvenuto, giacché i motivi di ricorso devono investire questioni già comprese nel thema decidendum del giudizio di appello, essendo preclusa
alle parti, in sede di legittimità, la prospettazione di questioni o temi di contestazione nuovi, non trattati nella fase di merito e non rilevabili di ufficio (cfr. ex multis Cass. sez. lav. n. 18018 del 01/07/2024).
4.1. Nel caso di specie, della questione della previsione da parte della contrattazione collettiva di un orario normale di lavoro per i lavoratori addetti a prestazioni discontinue e, dunque, dell’esistenza di una disciplina contrattuale di maggior favore che avrebbe determinato l’inapplicabilità dell’art. 16 del d.lgs n. 66/2003, non vi è traccia nella sentenza impugnata. La sentenza, al contrario, pur dando atto che ‘ la salvezza delle condizioni di miglior favore’ non richieda per la sua applicabilità espliciti accordi in deroga. Al contrario, vanno riferite proprio alla disciplina dell’esclusione regolamentata dalla norma; ovvero i contratti collettivi possono validamente prevedere delle disposizioni di maggior favore che prevedano l’applicazione della limitazione dell’orario per le attività in questione ‘, esclude la spettanza della maggiorazione per lavoro straordinario senza pronunciarsi in alcun modo sulle clausole dei contratti collettivi di settore la cui violazione viene qui censurata. Dalla stessa ricostruzione dello svolgimento dei precedenti gradi di giudizio, contenuta nel ricorso, non si fa cenno alcuno ad una allegazione avente ad oggetto la sussistenza di una disciplina contrattuale di maggior favore che avrebbe determinato l’inapplicabilità dell’art. 16 del d.lgs. 66/2003 e ciò nonostante la RAGIONE_SOCIALE avesse, sin dal primo grado, invocato detta norma. Al contrario, dalla lettura sia della sentenza che del ricorso per cassazione, risulta che il Seri avesse, in entrambi i gradi di giudizio, contestato la stessa riconducibilità delle mansioni da lui svolte a quelle di carattere ‘discontinuo’ disciplinate dall’art. 16 cit. invocando l’applicazione dell’orario normale di lavoro di 40 ore settimanali.
4.2. A fronte di ciò il COGNOME è rimasto del tutto inadempiente rispetto al sopra richiamato onere di allegazione e specifica indicazione dell’atto nel
quale tale deduzione sarebbe stata svolta, con conseguente inammissibilità del motivo.
Il secondo motivo è, del pari, inammissibile per svariate ragioni.
5.1. In primo luogo, ci si trova di fronte ad un motivo c.d. ‘misto’ deducendosi sia il l’omesso esame di fatto decisivo sia la violazione o falsa applicazione di legge – con conseguente applicazione del principio per cui è inammissibile la mescolanza e la sovrapposizione di mezzi d’impugnazione eterogenei, facenti riferimento alle diverse ipotesi contemplate dall’art. 360, comma 1, n. 3 e n. 5, c.p.c., non essendo consentita la prospettazione di una medesima questione sotto profili incompatibili, e ciò in quanto una simile formulazione mira a rimettere al giudice di legittimità il compito di isolare le singole censure teoricamente proponibili, onde ricondurle ad uno dei mezzi d’impugnazione enunciati dall’art. 360 c.p.c., per poi ricercare quale o quali disposizioni sarebbero utilizzabili allo scopo, così attribuendo, inammissibilmente, al giudice di legittimità il compito di dare forma e contenuto giuridici alle lagnanze del ricorrente, al fine di decidere successivamente su di esse (Cass. n. 26874 del 23/10/2018; Cass. n. 7009 del 17/03/2017; Cass. n. 21611 del 20/09/2013; Cass. n. 19443 del 23/09/2011).
5.2. Quanto al vizio motivazionale dedotto ex art. 360, co. 1, n.5, la censura contestualmente dedotta sotto tale profilo è altresì inammissibile muovendosi essa al di fuori del paradigma dettato dalla citata norma, come modificata dall’art. 54, comma 1, lett. b), d.l. 22 giugno 2012, n. 83, convertito, con modificazioni, dalla legge 7 agosto 2012, n. 134. Come questa Corte ha già avuto modo di chiarire, la riformulazione dell’art. 360, co. 1, n. 5, cod. proc. civ. deve essere interpretata, alla luce dei canoni ermeneutici dettati dall’art. 12 delle preleggi, come riduzione al ‘minimo costituzionale” del sindacato di legittimità sulla motivazione, con la conseguenza che è pertanto, denunciabile in cassazione solo l’anomalia motivazionale che si tramuta in violazione di legge costituzionalmente
rilevante, in quanto attinente all’esistenza della motivazione in sé, purché il vizio risulti dal testo della sentenza impugnata, a prescindere dal confronto con le risultanze processuali; anomalia che si esaurisce nella “mancanza assoluta di motivi sotto l’aspetto materiale e grafico”, nella “motivazione apparente”, nel “contrasto irriducibile tra affermazioni inconciliabili” e nella “motivazione perplessa ed obiettivamente incomprensibile”, esclusa qualunque rilevanza del semplice difetto di “sufficienza” della motivazione (Cass. S.U., nn. 8053 e 8054 del 7/4/2014). Nel nuovo regime, infatti, dà luogo a vizio della motivazione sindacabile in cassazione l’omesso esame di un fatto storico, principale o secondario, la cui esistenza risulti dal testo della sentenza o dagli atti processuali, che abbia costituito oggetto di discussione tra le parti e abbia carattere decisivo (vale a dire che, se esaminato, avrebbe determinato un esito diverso della controversia); tale fatto storico deve essere indicato dalla parte – nel rigoroso rispetto delle previsioni di cui all’art. 366, co.1., n. 6, e all’art. 369, co. 2, n. 4, cod. proc. civ. – insieme con il dato, testuale o extratestuale, da cui ne risulti l’esistenza, il come e il quando (nel quadro processuale) tale fatto sia stato oggetto di discussione tra le parti, dovendosi anche evidenziare la decisività del fatto stesso (sempre Cass. Sez. Un. n. 8053/2014 e Cass. n. 19881/2014). Nella specie, lungi dall’evidenziare il «fatto storico», testuale o extratestuale, decisivo e oggetto di discussione tra le parti, il ricorrente sollecita una mera radicale rivalutazione del materiale istruttorio e della quaestio facti in termini del tutto estranei al paradigma censorio di cui all’art. 360, co. 1, n. 5, cod. proc. civ.; la doglianza nel suo complesso si appalesa diretta a sollecitare una mera nuova valutazione di merito dei medesimi argomenti ed elementi di fatto già dedotti nei giudizi di merito e compiutamente esaminati dai giudici a quibus .
5.3. Quanto alla violazione degli artt. 416 e 437 cod. proc. civ. va rilevato che il principio di autosufficienza, di cui all’art. 366, comma 1, n. 6, cod. proc. civ., in caso di deduzione di errores in procedendo , impone la
trascrizione essenziale degli atti e dei documenti per la parte d’interesse, in modo da contemperare il fine legittimo di semplificare l’attività del giudice di legittimità e garantire la certezza del diritto e la corretta amministrazione della giustizia, salvaguardando la funzione nomofilattica della Corte ed il diritto di accesso della parte ad un organo giudiziario, in misura tale da non inciderne la stessa sostanza (vd. Cass. n. 21346 del 30/07/2024). Nel caso di specie il ricorrente, nel dolersi che la corte d’appello avrebbe erroneamente tenuto conto della produzione documentale di un bonifico del 2009 – asseritamente depositato dalla società solo nel corso delle operazioni peritali e, dunque, tardivamente in primo luogo non ha prodotto la memoria di costituzione in primo grado al fine di consentire a questa Corte di valutare la fondatezza del rilievo di ‘tardività’ della produzione documentale, di cui peraltro non vi è traccia nella sentenza impugnata, trattandosi, peraltro, di circostanza contestata dalla controricorrente che a pag. 13 del controricorso deduce di aver tempestivamente prodotto sia il cedolino paga del mese di dicembre 2009 che la distinta del bonifico bancario eseguito a pagamento di acconto del TFR. Inoltre, il ricorrente si è limitato a riportare stralci delle osservazioni alla CTU in cui, lungi dall’essere dedotta la tardività della produzione documentale, si lamenta solo che il ‘datore di lavoro non ha fornito alcuna prova di aver corrisposto gli acconti sul TFR nel settembre 2003 per € 2.000 e nel dicembre 2009 per € 5.000’.
Il terzo motivo, avente ad oggetto la questione dell’accertamento dell’orario di lavoro, è assorbito dall’inammissibilità del primo motivo.
Il ricorso in conclusione, va dichiarato inammissibile.
In applicazione del principio della soccombenza, il ricorrente va condannato alla rifusione delle spese processuali in favore della controricorrente liquidate come da dispositivo.
Va dato atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, ai sensi dell’art. 13, comma 1-quater,
d.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, nel testo introdotto dall’art. 1, comma 17, legge 24 dicembre 2012, n. 228, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato, in misura pari a quello previsto per il ricorso, ove dovuto, a norma dell’art. 1-bis dello stesso art. 13
P.Q.M.
La Corte dichiara inammissibile il ricorso
condanna il ricorrente COGNOME Vittorio al pagamento, in favore di RAGIONE_SOCIALE delle spese del presente giudizio, che liquida in Euro 4.500,00 per compensi, oltre alle spese forfettarie nella misura del 15%, agli esborsi liquidati in Euro 200,00 ed agli accessori di legge.
Dà atto che sussistono i presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, ai sensi dell’art. 13, co. 1 quater, d.P.R. n. 115/2002 pari a quello per il ricorso a norma dell’art. 13, co. 1 bis, d.P.R. cit., se dovuto.
Così deciso in Roma, all’esito dell’adunanza camerale della Sezione Quarta Civile della Corte di Cassazione, svoltasi il 12 giugno 2025
Il Presidente dott. NOME COGNOME