Ordinanza di Cassazione Civile Sez. L Num. 12149 Anno 2025
Civile Ord. Sez. L Num. 12149 Anno 2025
Presidente: NOME
Relatore: COGNOME
Data pubblicazione: 08/05/2025
ORDINANZA
sul ricorso 22514-2021 proposto da:
COMUNE DI BASSANO, in persona del Sindaco pro tempore, rappresentato e difeso dall’avvocato NOME COGNOME;
– ricorrente –
contro
COGNOME rappresentata e difesa dall’avvocato NOME COGNOME
– controricorrente –
nonché contro
RAGIONE_SOCIALE in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentato e difeso dagli avvocati NOME COGNOME
Oggetto
Lavoro precario altra
amministrazione
R.G.N. 22514/2021
COGNOME
Rep.
Ud. 15/04/2025
CC
NOME COGNOME NOME COGNOME NOME COGNOME
– resistente con mandato –
nonché contro
MINISTERO DEL LAVORO E DELLE POLITICHE SOCIALI; – intimato avverso la sentenza n. 2784/2021 della CORTE D’APPELLO di ROMA, depositata il 07/07/2021 R.G.N. 2513/2019; udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 15/04/2025 dal Consigliere Dott. COGNOME
RILEVATO CHE:
con sentenza del 7/7/2021 la Corte d’appello di Roma accoglieva l’appello di NOME COGNOME contro la sentenza del Tribunale di Latina che aveva respinto la sua domanda di accertamento che l’impiego presso il comune di Bassiano, in qualità di bibliotecaria, dal 3/3/1997 al 31/12/2011 era avvenuto in violazione della normativa sui lavori socialmente utili (LSU) ; per l’effetto, la Corte d’appello condannava l’ente locale al pagamento delle differenze retributive maturate, anche per TFR, e al versamento dei contributi previdenziali;
richiamando i principi espressi da Cass. n. 17101/2017 sulla necessità di riqualificare, in caso di difformità rispetto al progetto ed inserimento stabile nell’assetto organizzativo della p.a., l’LSU come lavoro subordinato regolato dall’art. 2126 c.c., la Corte capitolina rilevava che la lavoratrice aveva lamentato, a fronte di un rapporto durato ben quattordici anni con compiti di ‘bibliotecaria’ , fino alla
stabilizzazione con identiche mansioni, rientranti nei fini istituzionali dell’ente locale , e in presenza di uno stabile inserimento nella organizzazione dell’amministrazione , con eterodirezione della prestazione ed osservanza (mediante timbratura del cartellino) di un orario di lavoro ab extra fissato, la non conformità delle mansioni svolte rispetto al progetto, la cui esibizione era stata peraltro vanamente richiesta in giudizio;
elementi (questi), non contestati ex adverso , che deponevano nel senso dell’esistenza di un vero e proprio rapporto di lavoro subordinato, ancorché nullo, con conseguente applicazione dell’art. 2126 c.c., donde anche la condanna del Comune di Bassiano al pagamento delle differenze retributive di cui ai conteggi anch’essi rimasti incontestati;
contro
tale sentenza propone ricorso per cassazione il Comune di Bassano sulla base di cinque motivi illustrati da memoria, cui si oppone con controricorso, assistito da memoria, la lavoratrice.
CONSIDERATO CHE:
col primo motivo di ricorso si denuncia, ex art. 360 n. 3 c.p.c., violazione e falsa applicazione dell’art. 345 c.p.c. e del divieto dei nova in appello; contrariamente a quanto affermato dalla Corte territoriale, la COGNOME con il ricorso di primo grado «si era limitata a censurare, in modo del tutto generico, il presunto abuso ‘di uno strumento legislativo finalizzato all’inserimento nel mercato del lavor o e alla stabilizzazione occupazionale dei soggetti in esso impiegati’ ed avrebbe introdotto il tema dello ‘stabile inserimento’ e della diversità delle mansioni svolte da quelle di cui al progetto solo con l’atto di appello»;
col secondo motivo si denuncia ex art. 360 c.p.c., n. 3, violazione e falsa applicazione degli artt. 115, 414 e 416 c.p.c., nonché degli artt. 2 e 8 del d.lgs. n. 468 del 1997, per avere la Corte di merito ritenuto,
erroneamente, che la COGNOME aveva fin da subito introdotto in primo grado i temi dello stabile inserimento nell’organizzazione dell’ente locale e della diversità delle mansioni rispetto al progetto LSU e che il Comune non aveva contestato tali allegazioni; in realtà, non vi poteva essere alcuna contestazione rispetto ad elementi di fatto e di diritto mai introdotti in giudizio;
con il terzo motivo di ricorso si denuncia, ex art. 360 n. 3 e n. 5 c.p.c., violazione e falsa applicazione degli artt. 1, 2 e 3 del d.lgs. n. 81/2000 e dell’art. 2126 c.c. nonché carenza di motivazione circa un punto decisivo della controversia in quanto la Corte di merito avrebbe accolto le domande della lavoratrice nonostante le deduzioni circa gli elementi costitutivi del rapporto di lavoro subordinato fossero state solo genericamente prospettate in giudizio;
i primi tre motivi, da esaminare congiuntamente per la stretta connessione logico-giuridica, sono inammissibili;
4.1 infatti, la denuncia dell’ error in procedendo , nel quale la Corte distrettuale sarebbe incorsa, è formulata senza il rispetto degli oneri di specifica indicazione e di allegazione imposti dagli artt. 366 n. 6 e 369 n. 4 cod. proc. civ., perché non riporta il contenuto delle difese di primo grado e de ll’appello della Pacilli e non fornisce indicazioni sulla localizzazione degli atti nel fascicolo processuale;
il requisito imposto dal richiamato art. 366, comma 1, n. 6 cod. proc. civ. deve essere verificato anche in caso di denuncia di errores in procedendo , rispetto ai quali la Corte è giudice del «fatto processuale», perché l’esercizio del potere/dovere di esame diretto degli atti è subordinato al rispetto delle regole di ammissibilità e di procedibilità stabilite dal codice di rito, in nulla derogate
dall’estensione ai profili di fatto del potere cognitivo del giudice di legittimità (Cass. S.U. n. 8077/2012);
la parte, quindi, non è dispensata dall’onere di indicare in modo specifico i fatti processuali alla base dell’errore denunciato e di riportare nel ricorso, nelle parti essenziali, gli atti rilevanti, non essendo consentito il mero rinvio per relationem , perché la Corte di cassazione, anche quando è giudice del fatto processuale, deve essere posta in condizione di valutare ex actis la fondatezza della censura e deve procedere solo ad una verifica degli atti stessi non già alla loro ricerca (cfr. sullo specifico punto Cass. S.U. n. 20181/2019; Cass. n. 20924/2019);
gli oneri sopra richiamati sono, altresì, funzionali a permettere il pronto reperimento degli atti e dei documenti il cui esame risulti indispensabile ai fini della decisione sicché, se da un lato può essere sufficiente per escludere la sanzione della improcedibilità il deposito della richiesta di trasmissione del fascicolo d’ufficio nonché dei fascicoli di parte di entrambi i gradi del giudizio di merito, dall’altro non si può mai prescindere dalla specificazione dell’esatta sede in cui il documento o l’at to sia rinvenibile (Cass. S.U. n. 25038/2013);
la recente decisione della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo del 28 ottobre 2021, COGNOME ed altri contro Italia, ha escluso che l’orientamento sopra richiamato sia in sé lesivo del diritto di accesso alla giurisdizione superiore ed ha rilevato che la cosiddetta autosufficienza del ricorso, se applicata senza cadere in eccessivo formalismo, serve a semplificare l’attività dell’organo giurisdizionale nazionale e ad assicurare nello stesso tempo la certezza del diritto nonché la corretta amministrazione della giustizia (punto 75) in quanto, consentendo alla Corte di Cassazione di comprendere il contenuto delle doglianze sulla base della sola lettura del
ricorso, garantisce un utilizzo appropriato e più efficace delle risorse disponibili (punti 78, 104 e 105);
le Sezioni Unite di questa Corte, nel recepire detta sollecitazione, con la sentenza n. 8950 del 18 marzo 2022 hanno affermato che l’onere di «specifica indicazione» imposto dall’art. 366 n. 6 cod. proc. civ. non si può «tradurre in un ineluttabile onere di integrale trascrizione degli atti e documenti posti a fondamento del ricorso», ma hanno anche ritenuto necessaria l’individuazione chiara del contenuto dell’atto;
nel caso di specie, al contrario, il ricorso è redatto con modalità non dissimili da quelle in ragione delle quali la citata pronuncia COGNOME ed altri contro Italia ha escluso, nei punti da 103 a 105, che la dichiarazione di inammissibilità da parte della Corte di cassazione avesse comportato violazione dell’art. 6 della Convenzione (si legge al punto 103: che, secondo la giurisprudenza interna non contestata su questo punto, i motivi di ricorso per cassazione che rinviano ad atti o a documenti del procedimento sul merito devono indicare sia le parti del testo in contestazione che l’interessato ritiene pertinenti, che i riferimenti ai documenti originali inseriti nei fascicoli depositati, allo scopo di permettere al giudice di legittimità di verificarne tempestivamente la portata e il contenuto salvaguardando le risorse disponibili);
4.2 in ogni caso, i motivi sopra trascritti sono altresì infondati nel merito: dalla stessa sintetica ricostruzione in fatto del ricorrente (v. p. 3, 1° cpv., ricorso) si evince, infatti, che la COGNOME affermava, già nell’originario ricorso, ‘di essere stata inserita stabilmente nell’organizzazione dell’ente locale’, che il rapporto era durato quasi quindici anni, che aveva osservato un orario di lavoro di almeno 20
ore settimanali, che era sempre stata tenuta a firmare il registro presenze, ed ‘a giustificare le assenze e a richiedere autorizzazioni per ferie’ costantemente sottoposta ‘alle direttive e ordini impartiti dai dipendenti del Comune’;
com’è agevole constatare, trattasi di deduzioni che, lungi dall’essere vaghe e generiche, superano largamente la soglia della necessaria specificità e che, giustamente, sono state valorizzate dal giudice d’appello al fine dell’affermazione dell’esistenza di un rapporto di lavoro subordinato con operatività delle tutele fornite dall’art. 2126 c.c.;
col quarto motivo di ricorso, formulato ex art. 360 n. 3 e n. 5 c.p.c., si deduce violazione e falsa applicazione dell’art. 97 Cost., degli artt. 1, commi 3-4 del d.lgs. 280/1997, 36 del d.lgs. 165/2001 e del d.lgs. 81/2000 nonché carenza di motivazione circa un fatto decisivo ai fini del giudizio;
a parere del ricorrente «deve escludersi possa configurarsi la trasformazione di un lavoro socialmente utile in un vero e proprio rapporto subordinato di lavoro nell’ipotesi, ricorre nte nella presente fattispecie, della proroga del medesimo progetto in atto: infatti, solo in caso di diversità di contenuto, di orario e di impegno del lavoro svolto dopo la scadenza annuale della prestazione di pubblica utilità potrebbe, alfine, trovare app licazione l’art. 2126 c.c.» (così a p. 25 II cpv. ricorso per cassazione);
anche tale motivo è inammissibile perché non si confronta con la ratio decidendi della sentenza che, lungi dal concentrarsi sul solo profilo della proroga del progetto in atto, evidenzia come non vi fossero neppure elementi per ritenere certa la predisposizione di un tale progetto (‘il Comune non ha neppure depositato i progetti’);
i giudici di secondo grado affermano: «risultano peraltro non contestate o comunque pacifiche le seguenti circostanze: il rapporto di lavoro è durato oltre i termini previsti dalla legge, per circa 14 anni dal 3/3/1997 al 31/12/2011; le mansioni svolte sono state quelle di bibliotecaria durante tutto il corso del rapporto ed afferiscono ad uno dei compiti istituzionali dell’ente; l’odierna appellante era stabilmente inserita nell’organizzazione del Comune, giacché risulta non contestato che ella ha ricevuto dai preposti ordini e direttive sul lavoro da svolgere, ha osservato uno specifico orario di lavoro eterodeterminato, ha dovuto giustificare le assenze e richiedere all’ufficio del personale le ferie o i permessi per potersi assentare »;
e, sulla scorta di tali confluenti elementi, concludono che l’inserimento nell’organizzazione del Comune e lo svolgimento di mansioni ordinarie di bibliotecaria, rientranti tra i compiti istituzionali del Comune, unite alla circostanza che questi non ha contestato la difformità delle mansioni al progetto e non ha prodotto i progetti, fanno sì che debba ritenersi provata l’esistenza di un ordinario rapporto di lavoro subordinato tra le parti, ancorché nullo, con conseguente applicazione dell’art. 2126 c.c.;
così argomentando, la Corte di merito formula, previo accertamento di fatto insindacabile in sede di legittimità, un apprezzamento complessivo che si rivela in piena sintonia con i principi espressi dalla giurisprudenza di legittimità, la quale ha più volte chiarito che «In tema di occupazione di lavori socialmente utili o per pubblica utilità, la qualificazione normativa di tale fattispecie, avente matrice assistenziale e componente formativa, non esclude che in concreto il rapporto possa atteggiarsi come subordinato –
assumendo rilievo a tal fine l’effettivo inserimento del lavoratore nell’organizzazione pubblicistica e l’adibizione ad un servizio rientrante nei fini istituzionali dell’amministrazione -con conseguente applicazione dell’art. 2126 c.c.» (Cass. Sez. L -, Ordinanza n. 17101 del 11/07/2017, e, da ultimo, Cass. Sez. L -, Ordinanza n. 3504 del 07/02/2024 e Cass. Sez. L-, Ordinanza n. 11622 del 30/04/2024);
con il quinto, ed ultimo, motivo di ricorso si denuncia ex art. 360 n. 3 c.p.c., violazione e falsa applicazione dell’art. 2948 n. 4 e n. 5 c.c., per omesso rilievo da parte del giudice d’appello della prescrizione quinquennale dei crediti da lavoro;
8. anche tale motivo è inammissibile;
8.1 in tema di ricorso per cassazione, qualora siano prospettate questioni di cui non vi sia cenno nella sentenza impugnata, il ricorrente deve, a pena di inammissibilità della censura, non solo allegarne l’avvenuta loro deduzione dinanzi al giudice di merito ma, in virtù del principio di autosufficienza, anche indicare in quale specifico atto del giudizio precedente ciò sia avvenuto, giacché i motivi di ricorso devono investire questioni già comprese nel thema decidendum del giudizio di appello, essendo preclusa alle parti, in sede di legittimità, la prospettazione di questioni o temi di contestazione nuovi, non trattati nella fase di merito né rilevabili di ufficio (Cass. 09/08/2018, n. 20694; Cass. 24/01/2019, n. 2038);
nella specie, il ricorrente avrebbe dovuto indicare esattamente in quali atti precedenti l’eccezione sarebbe stata proposta ed eventualmente riproposta in appello ex art. 346 c.p.c.; questo perché non v’è traccia in sentenza dell’eccezione di prescrizione asseritamente formulata dai coobbligati Ministero del Lavoro e INPS, il quale ultimo, peraltro,
costituendosi in secondo grado risulta si sia limitato a domandare (come si legge in sentenza) «il rigetto dell’appello»;
8.2 aggiungasi che il ricorrente non fornisce neppure elementi in ordine all’allegata solidarietà nel debito e all’esistenza di azioni di regresso e/o manleva tra gli eventuali (supposti) coobbligati; questa Corte ha infatti precisato che «In tema di obbligazioni solidali, l’eccezione in senso stretto – quale è quella di prescrizione – sollevata da uno dei coobbligati non giova anche agli altri, ancorché chiamati nel medesimo processo, a meno che le cause riguardanti gli obblighi solidali, intentate unitariamente nei confronti dei coobbligati, siano tra loro ulteriormente connesse, come accade nell’ipotesi di riproposizione in sede di impugnazione di temi comuni ai predetti coobbligati o quando siano state instaurate azioni di regresso o manleva tra i convenuti, nel qual caso nella fase di impugnazione sussiste un litisconsorzio necessario cd. processuale e sorge la necessità di un’unitaria pronuncia nei confronti di tutte le parti in causa. (Nella specie, il dipendente di una università distaccato presso un’azienda ospedaliera aveva convenuto nello stesso giudizio entrambi gli enti, chiedendone la condanna solidale al pagamento dell’indennità perequativa prevista dall’art. 31 del d.P.R. n. 761 del 1979; la S.C. ha negato che la domanda di manleva dell’università fosse stata ritualmente proposta e ha dunque escluso che la università stessa potesse beneficiare degli effetti dell’eccezione di prescrizione sollevata dall’azienda)» (Cass., Sez. L -, Ordinanza n. 22984 del 21/10/2020, Rv. 659058 -01; Cass., Sez. 3 , Sentenza n. 15869 del 13/06/2019, Rv. 654291 -01);
conclusivamente il ricorso è inammissibile; in ordine alle spese di lite, si applica il criterio della soccombenza dettato dall’art. 91 c.p.c.
P.Q.M.
La Corte: dichiara inammissibile il ricorso, condannando il ricorrente a rifondere le spese del presente giudizio di legittimità, liquidate in € 5.000,00 per compensi, più € 200,00 per esborsi e rimborso forfettario spese generali al 15% ed accessori di legge.
Ai sensi dell’art. 13 comma quater del d.P.R. n. 115 del 2002, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma del comma 1 bis, dello stesso art. 13, se dovuto.
Così deciso in Roma, all’esito dell’adunanza camerale della Sezione IV