Ordinanza di Cassazione Civile Sez. L Num. 15959 Anno 2025
Civile Ord. Sez. L Num. 15959 Anno 2025
Presidente: COGNOME
Relatore: COGNOME
Data pubblicazione: 15/06/2025
ORDINANZA
sul ricorso 13399-2024 proposto da:
COMUNE DI SASSARI in persona del Sindaco pro tempore , rappresentato e difeso dagli avvocati NOME COGNOME NOME COGNOME NOME COGNOME NOME COGNOME NOME COGNOME;
– ricorrente –
contro
NOME COGNOME NOME, COGNOME NOME nella qualità di eredi di COGNOME NOME COGNOME; NOME COGNOME NOMECOGNOME rappresentati e difesi dall’avvocato NOME COGNOME
– controricorrenti –
e sul ricorso 16392-2024 proposto da:
NOME COGNOME NOME nella qualità di eredi di COGNOME
Oggetto
LAVORO PRECARIO
ALTRA
AMMINISTRAZIONE
R.G.N. 13399/2024 16392/2024
COGNOME
Rep.
Ud. 03/04/2025
CC
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NOME COGNOME NOME COGNOME NOMECOGNOME rappresentati e difesi dall’avvocato NOME COGNOME
– ricorrenti –
contro
COMUNE DI SASSARI in persona del Sindaco pro tempore , rappresentato e difeso dagli avvocati NOME COGNOME NOME COGNOME NOME COGNOME NOME COGNOME NOME COGNOME;
– controricorrente –
avverso la sentenza n. 56/2024 della CORTE D’APPELLO DI CAGLIARI SEZ. DIST. DI SASSARI, depositata il 18/03/2024 R.G.N. 66/2022;
udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 03/04/2025 dal Consigliere Dott. NOME COGNOME
FATTI DI CAUSA
Con sentenza del 18 marzo 2024, la Corte d’Appello di Cagliari, sezione distaccata di Sassari, decidendo in sede di rinvio, a seguito della cassazione della decisione resa dalla stessa Corte d’Appello di Cagliari, sezione distaccata di Sassari, in parziale riforma della pronunzia di primo grado resa dal Tribunale di Sassari, sulla domanda proposta da NOME COGNOME, NOME COGNOME, NOME COGNOME e NOME COGNOME nei confronti del Comune di Sassari, avente ad oggetto, previa declaratoria della nullità del termine apposto ai contratti di lavoro subordinato a tempo determinato con espressa denominazione ‘ex L.R. 11/88 art. 94’, in virtù dei quali avevano prestato servizio presso l’Ente, fin dal primo accordo successivo all’entrata in vigore del d.lgs. n. 165/2001 e del d.lgs. n. 368/2001, alla cui disciplina gli stessi contratti dovevano essere assoggettati, il riconoscimento del loro diritto ad essere
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dichiarati dipendenti a tempo indeterminato del Comune di Sassari e ad essere, quindi, riammessi in servizio, con condanna del Comune stesso al pagamento in loro favore delle retribuzioni maturate e maturande nel periodo compreso tra la messa in mora e l’e manazione della sentenza ovvero il risarcimento del danno ex art. 32 l. n. 183/2010 o, in subordine la condanna del Comune al risarcimento del danno commisurato alle retribuzioni omesse nell’intervallo compreso tra i vari contratti nonché nel periodo comp reso tra l’ultimo contratto e l’emanazione della sentenza e comunque non inferiore a venti mensilità ex art. 18 l. n. 300/1970 o in altra misura ritenuta conforme al principio di effettività del risarcimento, dichiarava la nullità dei termini apposti ai contratti di lavoro a tempo determinato intercorsi tra le parti e riconosceva a titolo di risarcimento del danno per abusiva reiterazione rispettivamente dodici (Chessa), dieci (Canu e Sanna) e otto (Tedde) mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto . La Corte d’Appello richiama va i plurimi contratti intercorsi con i lavoratori, che si erano svolti, in via non continuativa, quanto al Canu, nell’arco di oltre otto anni a partire dal 2002 per mansioni di giardiniere presso i cantieri ‘RAGIONE_SOCIALE‘ e ‘RAGIONE_SOCIALE‘, quanto al Chessa, in un lasso di circa diciannove anni a partire dal 1989 per mansioni di operaio generico e muratore presso i cantieri suddetti ed i cantieri ‘Manutenzione Stradale’ e ‘Traffico’ quanto al Sanna per una durata corrispondente a oltre sei anni per mansioni di giardiniere e caposquadra presso il cantiere ‘RAGIONE_SOCIALE‘ ed infine quanto alla Tedde per un periodo unico dal 5.1.1983 al 4.4.1983 e per un secondo periodo di oltre due anni, per mansioni di operaia generica presso il cantiere
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‘RAGIONE_SOCIALE‘, nonché i principi delle ordinanze rescindenti di questa S.C.
Riteneva che la legittimità dei rapporti a termine non potesse derivare dalla loro astratta riconducibilità a progetti per lo sviluppo e l’occupazione finanziati dalla Regione Sardegna e smentiva altresì che una tale finalità potesse integrare una ragione oggettiva idonea ad escludere l’applicazione della clausola 5 dell’Accordo Quadro allegato alla Direttiva 1999/70/CE, in quanto tale scopo avrebbe potuto essere assicurato in modo più incisivo, da rapporti a tempo indeterminato « ove i contratti siano diretti -come nei casi di specie, rientrando il trasporto scolastico e più in generale pubblico, le manutenzioni e la cura del verde pubblico fra i servizi istituzionali -a soddisfare esigenze dell’Amministrazione prive del necessario carattere della temporaneità ».
Dichiarava su tali basi la nullità dei termini apposti ai contratti di lavoro successivi all’entrata in vigore del d. lgs. n. 165 del 2001 e, confermato il diniego della conversione per effetto del divieto sancito dall’art. 36 del medesimo d. lgs., riconosceva a titolo risarcitorio gli importi già sopra menzionati, da essa attribuiti facendo applicazione dell’art. 32, co. 5, della legge n. 183 del 2010 illo tempore vigente. Quanto alle spese di lite, ne disponeva la compensazione in misura di un terzo, per effetto della parziale soccombenza dei ricorrenti, stante il rigetto della domanda di conversione a tempo indeterminato dei rapporti, condannando il Comune al pagamento in favore delle controparti dei restanti due terzi, di cui procedeva alla liquidazione dando atto di fare riferimento alle tariffe proprie delle cause di valore indeterminabile di complessità bassa e dei parametri medi,
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con riduzione del 30 % per la medesimezza delle questioni di diritto comuni a più persone patrocinate dallo stesso difensore.
Per la cassazione di tale decisione ricorreva il Comune di Sassari, affidando l’impugnazione a quattro motivi, cui hanno resistito, con controricorso, tre degli originari istanti e, in qualità di eredi di NOME COGNOME, NOME COGNOME NOME e NOME COGNOME, i quali tutti a loro volta hanno proposto un autonomo e successivo ricorso per cassazione, con tre motivi, cui ha opposto difese il Comune di Sassari, con controricorso.
Il Comune di Sassari ha infine depositato memoria in entrambi i giudizi.
All’adunanza camerale del 3 aprile 2025 il giudizio conseguente al ricorso introdotto dai lavoratori (N.R.G. 16392/2024) è stato preliminarmente riunito al ricorso proposto dal Comune di Sassari (N.R.G. 13399/2024) ed entrambi sono stati decisi nei termini che seguono.
RAGIONI DELLA DECISIONE
Preliminarmente va precisato che, in presenza di altra impugnazione già pendente avverso la medesima sentenza, il ricorso per cassazione successivo si converte, con la riunione al principale, in ricorso incidentale (Cass. 13 dicembre 2011, n. 26723; Cass. 16 luglio 2014, n. 16221), senza che nel caso di specie si ponga questione alcuna di tempestività, essendo anche il ricorso successivo intervenuto nei termini propri di impugnazione ed anche nel rispetto del termine di cui al combinato disposto degli artt. 370 e 371 c.p.c.
Il primo motivo del ricorso principale denuncia la violazione dell’art. 384 c.p.c., in relazione all’art. 360 n. 4
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c.p.c., per non avere la Corte d’Appello ottemperato ai principi di diritto enucleati dalla Suprema Corte nelle ordinanze di cassazione con rinvio.
Il motivo è sviluppato sostenendo che nella sentenza impugnata fosse mancato il vaglio della fattispecie concreta alla luce di tutti gli elementi rilevanti al fine di verificarne la sussumibilità nella fattispecie astratta prevista dal legislatore regionale ed al fine di valutare correttamente l’abusività o meno dei contratti stipulati .
In particolare, si legge nel motivo, la Corte territoriale aveva omesso di verificare in concreto se i contratti di lavoro prevedessero lo svolgimento di attività corrispondenti ai progetti comunali approvati, nonché il fatto di essersi stipulati i contratt i all’esito di apposite selezioni indette annualmente da Centri per l’impiego, sulla base dei requisiti di disagio sociale volta a volta individuati e prescegliendosi coloro che, pur se ripetutamente, si erano collocati in posizione utile nelle graduatorie, trascurandosi infine che i contratti conclusi fossero di tipo privatistico e che i lavoratori non fossero stati assunti per sostituire il personale di ruolo.
Nella censura si precisa come non potesse ritenersi sufficiente la mera verifica del solo numero di contratti intercorsi con ciascun lavoratore o delle mansioni in essi indicate, così come l’affermazione che si trattava delle attività normalmente svolte dal Comune e la conclusione del tutto semplicistica nel senso dell’illegittimità per essere quei rapporti destinati a soddisfare esigenze permanenti e stabili dell’ente .
Viceversa, un corretto esame della fattispecie avrebbe fatto concludere che le prestazioni di giardiniere, autista e
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manutentore rese erano indispensabili per lo svolgimento delle attività previste nei progetti comunali annualmente approvati, i quali necessariamente, per disposto della legislazione regionale che ne giustificava l’adozione, dovevano rispondere ad attività istituzionali dell’ente finalizzate alla realizzazione, manutenzione e gestione di opere o attività pubbliche o di pubblica utilità e alla promozione o sostegno di progetti occupazionali connessi al migliore utilizzo delle risorse locali.
I l secondo motivo denuncia l’omesso esame di un fatto decisivo, ai sensi dell’art. 360 n. 5 c.p.c., che è individuato nell’avvenuto compimento dell’iter procedurale propedeutico alla stipulazione dei contratti di lavoro a termine quale prevista dalla legge della Regione Sardegna n. 11 del 1988 e quindi attraverso l’adozione di progetti comunali annuali, le successive selezioni e la stipulazione dei contratti di tipo privatistico.
Il terzo motivo -formulato in via subordinata -assume la violazione e falsa applicazione (art. 360 n. 3 c.p.c.) della clausola 2 della Direttiva 1999/70/CE (Accordo Quadro), per avere la Corte d’Appello erroneamente ritenuto che i contratti di lavoro oggetto di causa rientrassero nel campo di applicazione di essa, nonostante si trattasse di rapporti definiti nel quadro di un programma specifico di formazione e inserimento lavorativo finanziato con risorse pubbliche.
Infine, ancora in via ulteriormente subordinata, con il quarto motivo si sostiene la violazione e falsa applicazione dell’art. 36 del d. lgs. n. 165 del 2001 e della clausola n. 5 lett. a) della Direttiva 1999/70/CE (Accordo Quadro), in relazione all’art. 3 60 n. 3 c.p.c., per avere il giudice erroneamente ritenuto che i contratti in questione non
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potessero rientrare tra le ipotesi per le quali è ammesso il ricorso al lavoro a tempo determinato, non essendo stati essi destinati a soddisfare esigenze permanenti e durevoli dell’ente e risultando pienamente corrispondenti alla fattispecie delineata dalla legge regionale n. 11 del 1988.
I suesposti motivi vanno esaminati congiuntamente secondo l’ordine logico -giuridico delle questioni ed anche a prescindere dai nessi di subordinazione impostati nel ricorso per cassazione, data la stretta connessione tra i vari profili posti a base dell’imp ugnazione.
Va premesso il richiamo ai principi sanciti dalle ordinanze rescindenti, ovverosia da Cass. 28 giugno 2022 n. 20717 (Carta), n. 20718 (Cardone) e n. 20678 (Sanna), sulla cui base si deve definire il contenzioso.
Esse hanno delineato i seguenti punti fermi, in estrema sintesi riconducibili al fatto che la legge regionale n. 11 del 1988, art. 94, va intesa, in doverosa coerenza con i principi della Costituzione (sul piano del coordinamento tra la disciplina regionale e le norme fondamentali dell’ordinamento civile di cui all’art. 117 della Costituzione) e del diritto dell’Unione Europea (sul piano della stipula a tempo indeterminato come forma comune dei rapporti di lavoro), nel senso che l’adozione di ‘specifici progetti’ sulla base della citata disciplina regionale deve essere coordinata con il rispetto della regola di causalità e temporaneità delle esigenze imposte ai contratti a termine dalla normativa statale all’epoca vigente, al fine di assicurare l’osservanza dell’art. 36 del d. lgs. n. 165 del 2001 e del d.lgs. n. 368 del 2001, con verifica da effettuare in concreto e non per la sola astratta riconducibilità dei contratti ai menzionati progetti.
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L ‘incentivo all’occupazione non costituisce in sé ragione oggettiva rilevante al fine di impedire, ai sensi della clausola 5, lett. a dell’Accordo Quadro allegato alla Direttiva 1999/70/CE, l’applicazione delle regole di tutela avverso la reiterazione abusiva di contratti a termine, in quanto le finalità di politica sociale in tanto possono essere valorizzate, in quanto siano perseguite con il rispetto delle regole poste dall’ordinamento interno, in coerenza con il diritto dell’Unione, al fine di evitare l’ abuso nella contrattazione a termine e quindi -nel caso di specie e secondo il regime interno vigente -attraverso il rispetto della disciplina sulla causale e ciò perché in realtà, quel medesimo fine potrebbe essere assicurato, in modo ancora più incisiv o, mediante l’instaurazione di rapporti a tempo indeterminato.
S olo l’effettiva ricorrenza di fattispecie riportabili alla clausola 2 paragrafo 2 (esigenze di ‘formazione professionale iniziale e di apprendistato o ricorrenza ‘programmi specifici di formazione’) possono consentire agli Stati membri -nei corrispondenti casi – di non applicare l’Accordo Quadro, con verifica da effettuarsi in concreto, rispetto al concreto atteggiarsi dei rapporti, onde evitare l’esclusione del diritto dell’Unione .
La sentenza qui impugnata, a propria volta, richiamate le mansioni, la pluralità e l’arco temporale dei rapporti quali sopra riepilogati al punto 1 dello storico di lite, ha evidenziato che: « la sola giustificazione inserita » nei contratti tra le parti era la « dicitura ‘ex L.R. 11/88 art. 94’, rubricato ‘Progetti comunali di sviluppo finalizzati all’occupazione’ e si riferisse appunto a siffatti progetti »;
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il rispetto dell’art. 36 del d. lgs. n. 165 del 2001 e della regola di cui all’art. 1 del d. lgs. n. 368 del 2001 « non può discendere esclusivamente » dalla riconducibilità dei rapporti ai « progetti per lo sviluppo e l’occupazione finanziati dalla Regione Sardegna », ciò non integrando « il concetto di ragione tecnica, produttiva, organizzativa o sostitutiva di carattere temporaneo o eccezionale »; per identiche ragioni non ricorreva un obiettivo idoneo ad integrare una ragione oggettiva rilevante ai sensi della clausola 5 per escludere l’applicazione delle misure e delle tutele avverso la reiterazione abusiva di contratti a termine; nel caso di specie i contratti erano viceversa diretti « rientrando il trasporto scolastico e più in generale pubblico, le manutenzioni e la cura del verde pubblico fra i servizi istituzionali -a soddisfare esigenze dell’Amministrazione prive del necessario carattere della temporaneità »
5.1. Ciò posto ed iniziando dai profili più generali, va detto che la sentenza impugnata resiste al motivo di ricorso (il terzo) con il quale si prospetta ancora la possibilità che i contratti si sottraggano alla disciplina eurounitaria ed alla declinazione di e ssa nell’ordinamento interno di cui al d. lgs. n. 368 del 2001 e 36 del d. lgs. n. 165 del 2001, per essere essi motivati da esigenze di formazione o inserimento al lavoro di cui all’art. 2, paragrafo 2 dell’Accordo Quadro .
La sentenza ha infatti evidenziato, ponendosi pienamente nel solco delle pronunce rescindenti (v. supra , punto 4 lett. c) e del diritto eurounitario come inteso dalla Corte di Giustizia (Corte di Giustizia 11 dicembre 2019, Città di Verviers ), che la « sola » giustificazione inserita nei contratti fosse il richiamo alla legge regionale ed alla mera finalizzazione all’occupazione .
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Nulla è stato accertato su scopi di formazione ed anche il motivo di ricorso, nel sostenere l’esistenza di tali scopi formativi, fa leva sull’esigenza di alleviare lo stato di disagio di soggetti disoccupati, che è cosa diversa, e sulla pubblica utilità delle opere e dei servizi cui i lavoratori venivano addetti, che è in sé inconferente sotto il profilo qui in esame. Si tratta dunque di esigenze incoerenti rispetto a quelle formative e di ingresso nel modo del lavoro che potrebbero giustificare la deroga, senza contare che il discorrere di scopi formativi rispetto a contratti più volte reiterati nel corso di diversi anni è in sé manifestamente contraddittorio. Non senza rilevare che il ricorso per cassazione del Comune non è impostato nei termini di inesistenza o apparenza della motivazione (art. 132 n. 4 c.p.c.), non può poi comunque dirsi che sia mancato l’accertamento dell’assenza di valide causali nel senso preteso dalle sentenze rescindenti e riepilogato sopra al punto 5 lett. a).
L a sentenza impugnata, nel passaggio sull’assenza di idonee ragioni giustificative della temporaneità dei diversi contratti, va intesa nel senso -espressamente affermato -che le causali erano « prive » di tali connotazioni per riguardare il trasporto scolastico, le manutenzioni e la cura del verde pubblico quali servizi « istituzionali », con ciò evidentemente intendendosi non tanto lo scontato riferirsi ad utilità dell’ente in quanto gestore di quei settori, quanto il rispondere essi ad esigenze non transitorie, ma stabili della P.A. di riferimento.
Del resto – non senza dimenticare il principio generale per cui, stante la natura eccezionale del rapporto di lavoro a tempo determinato rispetto a quello a tempo indeterminato, è a carico del datore l’onere non solo di specificare la causale
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ma anche di provare la legittimità del termine (v. già Cass. 27 gennaio 2011, n. 1931, poi sempre confermata e in tema di lavoro privato, ma con principi che non vi è ragione di non applicare nel discorrere sull’applicazione della medesima norma in ambito di pubblico impiego privatizzato) -non si può non osservare che ancora nel ricorso per cassazione il Comune continua a fare riferimento agli specifici progetti di cui alla legge regionale, senza indicare in modo esatto, ma solo con formule generiche, quali fossero le causali in ipotesi realmente temporanee che giustificassero il ricorso a lavoratori a termine ed in particolare quali fossero specificamente le opere o i servizi indicati dai progetti presentati.
Così come analogamente sterili sono i richiami, sempre del primo motivo, al rispetto delle selezioni e delle graduatorie, alla stipula di contratti privatistici -profili tutti in sé irrilevanti quanto al connotato della temporaneità in concreto delle esigenze come anche all’assenza di ragioni sostitutive, in quanto anche quest’ultimo profilo non significa necessariamente che le assunzioni andassero a sopperire a necessità non temporanee dell’ente .
Ciò comporta la reiezione del primo motivo di ricorso, ma va parimenti detto che sono prive di pregio anche le deduzioni sub specie di omesso esame di fatto decisivo di cui al secondo motivo, ove il richiamo al rispetto delle procedure di cui alla legge regionale non ha alcun rilievo rispetto al profilo sostanziale dell’esplicitazione ed esistenza di una causale temporanea delle assunzioni.
Per quanto precisato nelle ordinanze rescindenti ( supra punto 5 lett. b) va da sé che, in assenza di una causale giustificativa delle assunzioni a termine e quindi
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dell’osservanza di una delle regole che il legislatore interno ratione temporis aveva posto onde evitare il ricorso abusivo a tale forma contrattuale, anche sotto il profilo della successiva reiterazione per analoghe esigenze, non si può in alcun modo parlare di ragioni obiettive correlate all’intento di favorire l’occupazione, come si è detto ben più tutelata semmai da assunzioni a tempo indeterminato e ciò comporta il rigetto anche del quarto motivo.
Il ricorso principale va quindi complessivamente rigettato.
6. Il primo motivo del ricorso successivo/incidentale assume l’omessa, erronea, insufficiente o contraddittoria motivazione circa un fatto controverso e decisivo del giudizio (art. 360 n. 5 c.p.c.), nonché la violazione o falsa applicazione dell’art. 91 c.p.c. (art. 360 n. 3 c.p.c.).
Il motivo evidenzia come la Corte territoriale abbia compensato per un terzo le spese dell’intero processo, condannando il Comune a rifondere ai lavoratori i restanti due terzi e ciò sull’assunto di una parziale soccombenza di questi ultimi, per essersi visti rigettare la domanda di conversione a tempo indeterminato dei rapporti a termine.
Secondo i lavoratori la decisione sarebbe errata, per violazione del principio di soccombenza, in quanto nel giudizio di rinvio la domanda di conversione non era stata più proposta e quindi il Comune aveva visto integralmente disattendere le proprie ragioni, così come non poteva dirsi che il tema della conversione fosse stato coinvolto dal giudizio di cassazione;
6.1. Il motivo è infondato.
È pacifico che la domanda di conversione fosse stata proposta in primo e secondo grado, ove le pretese dei lavoratori erano state integralmente rigettate ed il tema del
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giudizio di legittimità, per come emerge dalle pronunce rescindenti, era quello pregiudiziale della legittimità o meno dei termini apposti ai contratti.
È dunque improprio parlare di mancata riproposizione, davanti alla S.C., della domanda di conversione, in quanto quest’ultima riguardava semmai gli effetti di quelle nullità, che erano consequenziali a quanto fosse stato poi deciso in sede di legittimità.
Ciò posto, è indubbio che in sede di rinvio la domanda non sia stata più avanzata e che tuttavia la Corte d’Appello, in almeno due passaggi motivazionali, ovverosia quando ha richiamato il divieto di conversione sancito dall’art. 36 del d. lgs. n. 165 del 2001 e quando ha deciso sulle spese, ne abbia valutato l’infondatezza .
Ne deriva che, in questa prospettiva, vi è stata parziale soccombenza rispetto alle domande originariamente proposte.
Vale quindi il principio per cui, in tema di spese processuali, il giudice del rinvio, al quale la causa sia stata rimessa anche per provvedere sulle spese del giudizio di legittimità, si deve attenere al principio della soccombenza applicato all’esito globale del processo, piuttosto che ai diversi gradi del giudizio ed al loro risultato, sicché non deve liquidare le spese con riferimento a ciascuna fase del giudizio, ma, in relazione all’esito finale della lite, può legittimamente pervenire ad un provvedimento di compensazione delle spese, totale o parziale, ovvero, addirittura, condannare la parte vittoriosa nel giudizio di cassazione – e, tuttavia, complessivamente soccombente – al rimborso delle stesse in favore della controparte (Cass., S.U., 8 novembre 2022, 32906; Cass. 9 ottobre 2015, n. 20289).
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La Corte territoriale ha dunque giustamente ritenuto, rispetto all’intero processo, la parziale soccombenza dei lavoratori e correttamente, valutandone la portata in misura minoritaria rispetto ai capi di domanda accolti, ha disposto solo la compensazione in misura di un terzo, condannando il Comune, in quanto maggiormente soccombente sul merito, al pagamento dei restanti due terzi alle parti vittoriose.
Il secondo motivo del ricorso successivo/incidentale denuncia la violazione o falsa applicazione dell’art. 4, co. 4 del D.M. n. 55 del 2014 (art. 360 n. 3 c.p.c.) e ciò sul presupposto che la Corte territoriale, nel liquidare le spese, ha applicato la riduzione del 30 % per l’avere il medesimo difensore affrontato le stesse questioni di fatto e di diritto rispetto alla pluralità di parti da lui difese, nonostante le cause fossero state separatamente introdotte e così condotte fino alla fase di rinvio, ove esse erano state poi riunite in sede decisionale.
7.1. La definizione del motivo impone una più ampia disamina complessiva del tema.
È principio diffuso, nella giurisprudenza di questa S.C., quello per cui non è sindacabile in sede di legittimità la determinazione dei compensi da rimborsare alla controparte vittoriosa allorquando non siano violati i minimi ed i massimi della tariffa vigente.
Ciò veniva affermato nel vigore dei più risalenti criteri di liquidazione attraverso il principio per cui « la determinazione degli onorari di avvocato costituisce esercizio di un potere discrezionale del giudice che, se contenuto tra il minimo ed il massimo della tariffa, non richiede specifica motivazione e non può formare oggetto di
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sindacato in sede di legittimità » (Cass. 23 maggio 2002, n. 7527; Cass. 22 giugno 2004, n. 11583, quest’ultima con riferimento anche all’attività stragiudiziale; Cass. 9 ottobre 2015, n. 20289).
A seguire, Cass. 10 maggio 2019, n. 12537 ha ritenuto, con riferimento al d.m. n. 140 del 2012, che « la disciplina secondo cui i parametri specifici per la determinazione del compenso sono, “di regola”, quelli di cui alla allegata tabella A va intesa nel senso che l’esercizio del potere discrezionale del giudice contenuto tra i valori minimi e massimi non è soggetto a sindacato in sede di legittimità, attenendo pur sempre a parametri fissati dalla tabella, mentre la motivazione è doverosa allorquando il giudice medesimo decida di aumentare o diminuire ulteriormente gli importi da riconoscere, essendo necessario, in tal caso, che siano controllabili sia le ragioni dello scostamento dalla “forcella” di tariffa, sia le ragioni che ne giustifichino la misura ».
Analoghe conclusioni sono state estese, pur nella diversità del testo tariffario, anche al sistema di cui al D.M. n. 55 del 2014, che qui rileva, essendosi ritenuto che anche in tale ambito, « l’esercizio del potere discrezionale del giudice, contenuto tra il minimo e il massimo, non è soggetto a sindacato di legittimità, attenendo pur sempre a parametri fissati dalla tabella, mentre la motivazione è doverosa allorquando il giudice decida di aumentare o diminuire ulteriormente gli importi da riconoscere, essendo necessario, in tal caso, che siano controllabili le ragioni che giustificano lo scostamento e la misura di questo » (Cass. 13 luglio 2021, n. 19989; Cass. 5 maggio 2022, n. 14198, nonché, in sostanza, anche Cass. 7 gennaio 2021, n. 89 e Cass. 20 dicembre 2024, n. 33642).
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Q uest’ultimo indirizzo va qui confermato in quanto l’art. 4, co. 1 del D.M. n. 55 del 2014 -pur dopo la limitazione del ‘di regola’ ai soli aumenti (D.M. 37/2018) e poi la sua totale eliminazione (D.M. 147/2022) – muove dai parametri ‘medi’, di cui assume che il giudice « tiene conto », ma immediatamente fissa un aumento (ora) fino al 50 % ed una riduzione non oltre il 50 per cento, così ponendo, pur senza riproporre la dizione (« di regola ») di cui al precedente art. 11 d.m. n. 140 del 2012, un analogo criterio elastico entro cui devono muoversi le liquidazioni giudiziali dei compensi. Ciò in un contesto in cui si è altresì chiarito, coerentemente con il senso della citata disposizione tariffaria (il ‘tiene conto’) che in tema di liquidazione delle spese processuali successiva al d.m. n. 55 del 2014, non trova fondamento normativo un vincolo alla determinazione secondo i valori medi ivi indicati, dovendo il giudice solo quantificare il compenso tra il minimo ed il massimo delle tariffe (Cass. 31 gennaio 2017, n. 2386; Cass. 7 gennaio 2021, n. 89; Cass. 20 dicembre 2024, n. 33642).
Vale dunque in pieno il principio icasticamente già ribadito da Cass. 24 febbraio 2020, n. 4782, secondo cui « la determinazione in concreto della misura del compenso per prestazioni professionali di avvocato è rimessa esclusivamente al prudente apprezzamento del giudice di merito (p. es. Cass. 29 marzo 1962, n. 656; Cass. 26 ottobre 1968, n. 3589) ».
A tale assetto, cui va data continuità per la coerenza con il dato normativo, va poi affiancata la risalente considerazione -parimenti fondante -secondo cui la denuncia del vizio nella liquidazione delle spese non attiene all’ambito degli errores in procedendo , ma degli errores in iudicando (Cass.
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29 ottobre 2014, n. 22983; Cass. 29 ottobre 2000, n. 6864) che a propria volta si rende coerente con la regola di insindacabilità della misura di tale liquidazione se essa si ponga entro i minimi ed i massimi stabiliti dalla tariffa, per la lineare considerazione che, in tanto si può ritenere realizzata una violazione della legge sostanziale, in quanto siano superati quei limiti e non altrimenti.
C iò è stato detto al fine di ritenere l’irrilevanza dell’errore nella determinazione dello scaglione (Cass. 11 febbraio 2004, n. 2626), ma vale anche rispetto ad errori motivazionali che non superino quei limiti, non potendosi a tali errori attribuire effetti superiori a quelli che avrebbe una totale carenza di motivazione.
D etto altrimenti, i vizi procedurali e nell’articolazione della motivazione non rilevano, se non quando si accompagnino ad una violazione certa della regola sostanziale elastica di individuazione tra i minimi ed i massimi, anche perché la fissazione giudiziale, al di là dei meccanismi tecnici esposti, ha ad oggetto alla fine un importo, che è quello su cui si manifesta la decisione.
7.2. Poste tali premesse, vanno definite anche ulteriori conseguenze.
La giurisprudenza di questa S.C. si è in effetti consolidata nel senso che, partire dalle modifiche apportate al D.M. n. 55 del 2014 dal D.M. 37/2018, i minimi di tariffa sono assolutamente inderogabili in quanto le riduzioni sui valori medi possono operare « in ogni caso non oltre il 50 per cento » (Cass. 13 aprile 2023, n. 9815; poi anche Cass. 20 ottobre 2023, n. 19184).
Viceversa, restano derogabili i massimi di tariffa, ma, secondo quanto precisato da Cass. 10 maggio 2019, n.
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12537 e poi da Cass. 3 giugno 2024, n. 15506, solo sulla base di specifica motivazione.
I n quest’ultimo caso la motivazione assume dunque portata sostanziale, perché necessaria al superamento della regola e dunque la sua mancanza o la sua manifesta irrazionalità possono viziare la decisione.
In questo contesto si pongono quindi altri temi, dati dal rilievo da attribuire alle riduzioni (art. 4, co. 4, cit.) ed agli aumenti (art. 4, co. 2, cit.) che possono intervenire in ragione della difesa di pluralità di parti e o dell’essere coinvolte questioni comuni a più contendenti patrocinati dal medesimo difensore.
Quanto alle riduzioni, la menzionata regola di inderogabilità dei minimi esclude certamente che, attraverso esse, si possa scendere al di sotto di tali minimi per effetto dell’applicazione di un siffatto criterio .
Q uanto agli aumenti, va evidenziato come l’art. 4, co. 2, del D.M. n. 55 sia stato modificato dal D.M. n. 147 del 2022, nel senso che per essi non è più riproposta la dizione per cui essi potrebbero essere attuati ‘di regola’ .
Ciò non va però inteso nel senso di una riduzione della discrezionalità, ma di un suo ampliamento, ma pur sempre entro un elastico percentuale prefissato dalla tariffa (30 per cento, fino a un massimo di dieci soggetti, e del 10 per cento per ogni soggetto oltre i primi dieci, fino a un massimo di trenta), sicché si deve ritenere che anche tale previsione sia da riportare, per coerenza di fondo del sistema, al principio per cui la liquidazione entro i margini di tariffa non necessita di motivazione (v. supra , punto 13).
P ertanto, l’applicazione o meno di quegli aumenti non può essere censurata in sede di legittimità.
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Ciò è stato del resto già ritenuto da Cass. 5 dicembre 2024, n. 31217 la quale -in concreto discostandosi da Cass. 14 gennaio 2020, n. 461 (poi seguita da Cass. 5 gennaio 2024, n. 376; Cass. 13 giugno 2024, n. 16465) – ha affermato che non possa esservi sindacato rispetto agli aumenti praticati ai sensi dell’art. 4, co. 2 del D.M. citato .
C iò sul presupposto che solo l’aumento al di fuori dei parametri massimi di tariffa imporrebbe la motivazione, proprio per essere di «ampiezza indiscriminata » (Cass. 12537/2019 cit.) e per riguardare « casi del tutto eccezionali » (Cass. 15506/2024 cit.), quale in sé solo non è certamente quello della difesa in caso di pluralità di parti munite di analoga posizione processuale.
Ciò per concluderne quindi che gli aumenti previsti dalla tariffa per il caso della difesa di o contro una pluralità di parti (art. 4, co. 2 del DM n. 55 del 2014) non sono sindacabili perché si basano su parametri esplicitati nella tariffa, secondo una logica da ricostruire nel senso che quanto viene stabilito dal giudice sulla base di regole dettate dalla tariffa non è viziato anche qualora manchi una specifica motivazione, mentre quanto è liberamente definibile senza parametri prefissati va invece munito di motivazione.
La conseguenza è che -data la bilateralità degli argomenti -l’essersi o meno applicati gli aumenti di cui all’art. 4, co. 2 per la difesa di una pluralità di parti non comporta in sé vizio della sentenza impugnata, se non siano violati i minimi (in caso di mancata applicazione) o i massimi (in caso di applicazione).
Principio che del resto è insito anche nella motivazione di Cass., S.U., 27 novembre 2019, n. 31030 ove -con riferimento alla riduzione, ma con ragionamento che vale
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appieno per l’aumento si afferma che il corrispondente potere « ha natura discrezionale, sicché il suo mancato esercizio non è sindacabile in sede di legittimità (Cass. 10/1/2017, n. 269; nello stesso senso, Cass. 18/04/2005, n. 8084, in motivazione; Cass. 03/07/2003, n. 10532) ».
V a solo precisato, in chiusura, che l’esclusione del sindacato sugli aumenti o riduzioni contenuti entro i minimi e massimi di tariffa riguarda solo le cause riguardanti soggetti caratterizzati dalla « stessa posizione processuale » (art. 4, co. 2 e co. 4 citt.) e non evidentemente il diverso caso in cui l’autonomia di tali posizioni comporta necessariamente separatezza di liquidazioni (v. anche Cass. 6 giugno 2022, n. 18047).
7.3. Applicando al caso di specie i menzionati principi, ne deriva che il secondo motivo va disatteso.
È corretta la difesa in esso contenuta secondo cui la riduzione ai sensi dell’art. 4, co. 4 non può operare nelle fasi in cui i giudizi erano separati, per l’inevitabile autonomia delle posizioni giuridiche e processuali dei diversi contendenti (Cass., S.U., 31030/2019 cit.). Tuttavia, stante la menzionata irrilevanza della motivazione, non essendo dimostrata e neppure addotta come tale l’avvenuta complessiva violazione dei minimi assoluti di tariffa, la censura intercetta in sostanza un profilo non censurabile in sede di legittimità.
Le considerazioni sopra esposte comportano anche l’inammissibilità del terzo motivo del ricorso successivo/incidentale con il quale i lavoratori ricorrenti denunciano il vizio di motivazione in ordine alla mancata applicazione dell’aumento del 30% del compenso unico dovuto all’avvocato che assiste più s oggetti aventi la stessa
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posizione processuale, secondo quanto previsto dall’art. 4, comma 2, del D.M. n. 55/2014, che assumono presupporre da parte del giudice del merito un obbligo di motivazione in ordine al non essersi avvalso della facoltà ivi prevista.
In via conclusiva vanno rigettati entrambi i ricorsi.
La soccombenza reciproca giustifica la compensazione integrale tra le parti delle spese di questo giudizio di cassazione conseguente alla fase di rinvio.
P.Q.M.
La Corte decidendo sui ricorsi riuniti li rigetta entrambi e compensa le spese del giudizio di cassazione.
Ai sensi dell’art. 13, comma 1 -quater , del d.P.R. n. 115 del 2002, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente principale e dei ricorrenti successivi/incidentali, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per i rispettivi ricorsi, a norma del comma 1bis , dello stesso art. 13, se dovuto.
Così deciso in Roma, nella camera di consiglio del 3.4.2025.
La Presidente NOME COGNOME