Sentenza di Cassazione Civile Sez. L Num. 31708 Anno 2024
Civile Sent. Sez. L Num. 31708 Anno 2024
Presidente: NOME
Relatore: COGNOME
Data pubblicazione: 10/12/2024
SENTENZA
Oggetto
Lavoro domenicale
–
indennità per la maggiore
penosità
–
liquidazione equitativa
–
Mansioni superiori
–
Prescrizione crediti
retributivi
–
non decorrenza in
corso di rapporto
R.G.N. 3193/2024
COGNOME
Rep.
sul ricorso 3193-2024 proposto da:
Ud. 06/11/2024
PU
RAGIONE_SOCIALE in persona del legale rappresentante pro tempore, domiciliata in ROMA, INDIRIZZO presso la CANCELLERIA DELLA RAGIONE_SOCIALE DI CASSAZIONE, rappresentata e difesa dagli avvocati NOME COGNOME NOME COGNOME NOME COGNOME che la rappresentano e difendono;
– ricorrente –
contro
NOME COGNOME, domiciliato in ROMA, INDIRIZZO presso la CANCELLERIA DELLA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE, rappresentato e difeso dagli avvocati NOME COGNOME NOME COGNOME;
– controricorrente –
avverso la sentenza n. 543/2023 della CORTE D’APPELLO di MILANO, depositata il 26/07/2023 R.G.N. 21/2023; udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 06/11/2024 dal Consigliere Dott. COGNOME udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. NOME COGNOME che ha concluso per il rigetto del ricorso; udito l’avvocato NOME COGNOME
FATTI DI CAUSA
La Corte d’Appello di Milano ha confermato la sentenza del Tribunale della stessa sede con cui era stato accertato il diritto del lavoratore in epigrafe, operaio pulitore nell’ambito del contratto di appalto presso la Metropolitana di Milano, all’inquadramento nel 4° livello CCNL Multiservizi per il periodo 1.6. -31.7.2015 e nel 3° livello per il periodo 1.8.2015 -31.8.2020; condannato il datore di lavoro a corrispondergli le differenze retributive per l’accertato superiore inquadramento; condannato il datore di lavoro al pagamento di somme a titolo di maggiorazione per lavoro domenicale, lavoro festivo e lavoro notturno, nonché a titolo di incidenze del diritto al superiore inquadramento e dell’indennità per lavoro notturno sulla malattia, sulle ferie, sulle mensilità supplementari, sui permessi e sulle festività.
Avverso la sentenza d’appello la società ha proposto ricorso per cassazione con 3 motivi, che ricalcano corrispondenti motivi di appello, poi ulteriormente illustrati da memoria; ha resistito con controricorso il lavoratore.
il P.G. ha concluso per il rigetto del ricorso.
RAGIONI DELLA DECISIONE
La società ricorrente deduce con il primo motivo, ai sensi dell’art. 360, n. 3, c.p.c., violazione o falsa applicazione degli artt. 2697 e 1226 c.c., quanto al riconoscimento di indennizzo (equitativo, nella misura del 20% della retribuzione oraria) per le prestazioni lavorative svolte nella giornata della domenica, senza richiedere la prova della maggiore gravosità del lavoro domenicale.
2. Il motivo è infondato.
La pronuncia impugnata si pone (espressamente) in continuità con quanto affermato in materia da questa Corte (Cass. n. 21626/2013, n. 24682/2013, n. 12318/2011, n. 2610/2008), ossia che il lavoro prestato nella giornata di domenica, anche nell’ipotesi di differimento del riposo settimanale in un giorno diverso, deve essere in ogni caso compensato con un quid pluris che, ove non previsto dalla contrattazione collettiva, può essere determinato dal giudice e può consistere anche in benefici non necessariamente economici, salva restando l’applicabilità della disciplina contrattuale collettiva più favorevole; dunque, il lavoratore che presti la propria attività nella giornata di domenica, ha diritto, anche nell’ipotesi di differimento del riposo settimanale in un giorno diverso, ad essere in ogni caso compensato, per la particolare penosità, con un quid pluris .
Né è riscontrabile violazione del principio di riparto dell’onere probatorio, perché la sentenza gravata non ha affermato trattarsi di danno in re ipsa , ma ha ritenuto provato il danno sulla base della presunzione della maggiore penosità del lavoro domenicale, per massima d’esperienza sociale.
Con il secondo motivo, la società deduce, ai sensi dell’art. 360, n. 3, c.p.c., violazione o falsa applicazione dell’art. 10 CCNL RAGIONE_SOCIALE: sostiene erronea riconduzione, nella sentenza impugnata, dell’utilizzo della macchina lavasciuga uomo a bordo, della idropulitrice e della mono-spazzola al novero delle «macchine operatrici complesse», menzionate nel contratto collettivo, disattendendo la declaratoria esemplificativa fornita dalle parti sociali.
Il motivo non è meritevole di accoglimento.
Secondo la consolidata giurisprudenza di questa Corte, nel procedimento logico-giuridico diretto alla determinazione dell’inquadramento di un lavoratore subordinato non può prescindersi da tre fasi successive, e cioè, dall’accertamento in fatto delle attività lavorative in concreto svolte, dall’individuazione delle qualifiche e dei gradi previsti dal contratto collettivo di categoria, e dal raffronto tra il risultato della prima indagine ed i testi della normativa contrattuale individuati nella seconda; l’accertamento della natura delle mansioni concretamente svolte dal dipendente, ai fini dell’inquadramento del medesimo in una determinata categoria di lavoratori, costituisce giudizio di fatto riservato al giudice del merito, insindacabile in sede di legittimità, se sorretto da logica ed adeguata motivazione (così Cass. n. 28284/2009; tra le molte successive conformi, v. Cass. n. 8589/2015, n. 18943/2016, n. 14413/2024, n. 21296/2024).
Nel caso in esame, tale procedimento trifasico è stato svolto e adeguatamente motivato sulla base di elementi probatori congrui e conseguenti, tenuto conto delle peculiarità della fattispecie concreta, tanto in relazione alle mansioni svolte, quanto alle caratteristiche tecniche e di utilizzo delle
macchine, in base a valutazione di merito delle prove orali e documentali raccolte.
Con il terzo motivo, la società deduce, ai sensi dell’art. 360, n. 3, c.p.c., violazione o falsa applicazione degli artt. 2935 e 2948, n. 5 c.c., 2 d. lgs. n. 23/2015, 36 Cost., in riferimento alla questione della decorrenza della prescrizione dei crediti retributivi in corso di rapporto.
Il motivo è infondato.
La sentenza impugnata sul punto si pone espressamente in linea con il principio di diritto secondo cui il rapporto di lavoro a tempo indeterminato, così come modulato per effetto della legge n. 92 del 2012 e del decreto legislativo n. 23 del 2015, mancando dei presupposti di predeterminazione certa delle fattispecie di risoluzione e di una loro tutela adeguata, non è assistito da un regime di stabilità; sicché, per tutti quei diritti che non siano prescritti al momento di entrata in vigore della legge n. 92 del 2012, il termine di prescrizione decorre, a norma del combinato disposto degli artt. 2948, n. 4 e 2935 c.c., dalla cessazione del rapporto di lavoro (Cass. n. 26246/2022; tra le molte successive conformi, v. Cass. n. 29831/2022, n. 30957/2022, n. 30958/2022, n. 4186/2023, n. 4321/2023).
In conclusione, il ricorso va rigettato e le spese di lite liquidate in dispositivo, seguono il criterio della soccombenza.
Sussistono le condizioni processuali di cui all’art. 13, comma 1 quater, d.P.R.115 del 2002;
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle spese del giudizio, che liquida in € 3.000 per compensi
professionali, € 200 per esborsi, oltre al 15% per spese forfettarie e oltre agli accessori dovuti per legge.
Ai sensi dell’art. 13 comma 1 -quater del d.P.R. n. 115 del 2002 dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento da parte della ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso a norma dell’art.13 comma 1 -bis del citato d.P.R., se dovuto.
Così deciso in Roma, nella camera di consiglio del 6 novembre