Ordinanza di Cassazione Civile Sez. L Num. 5510 Anno 2025
Civile Ord. Sez. L Num. 5510 Anno 2025
Presidente: NOME
Relatore: COGNOME
Data pubblicazione: 02/03/2025
ORDINANZA
sul ricorso n. 13666/2024 proposto da:
COGNOME AndreaCOGNOME rappresentato e difeso dall’Avv. NOME COGNOME ed elettivamente domiciliato in Roma, INDIRIZZO
-ricorrente –
contro
Ministero della Giustizia, in persona del legale rappresentate p.t., rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato e domiciliato per legge in INDIRIZZO
-controricorrente-
avverso la SENTENZA della Corte d’appello di Roma n. 138/2024 pubblicata il 19 gennaio 2024.
Udita la relazione svolta nella camera di consiglio del 10 gennaio 2025 dal Consigliere NOME COGNOME
SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
NOME COGNOME premesso di essere detenuto in carcere in diversi istituti penitenziari dal 1° novembre 2006 e di avere prestato attività lavorativa in
favore dell’amministrazione penitenziaria da gennaio 2009 a dicembre 2013 e nel mese di dicembre 2017, con mansioni di porta vitto, cat. C, aiuto cuciniere, cat. B, addetto alle pulizie, cat. C del CCNL Addetti ai servizi vari d’Istituto CCNL Turismo Pubblici esercizi, ha dedotto di avere percepito dei compensi inferiori rispetto a quelli previsti dalla contrattazione collettiva applicabile in relazione alle concrete mansioni svolte e a quelli previsti dall’art. 22 della legge n. 354 del 1975.
Egli ha chiesto, quindi, al Tribunale di Roma, di condannare il Ministero della Giustizia a pagare la somma di € 7.488,03, a titolo di differenze retributive.
Il Tribunale di Roma, nel contraddittorio delle parti, con sentenza del 19 gennaio 2023, ha rigettato la domanda.
NOME COGNOME ha proposto appello.
Il Ministero della Giustizia si è costituito e ha proposto appello incidentale condizionato.
La Corte d’appello di Roma, con sentenza n. 138/2024, ha rigettato l’appello principale e dichiarato assorbito l’incidentale.
NOME COGNOME ha proposto ricorso per cassazione sulla base di due motivi.
Il Ministero della Giustizia si è difeso con controricorso.
Il ricorrente ha depositato memoria.
MOTIVI DELLA DECISIONE
Con il primo motivo il ricorrente lamenta la violazione degli artt. 82, commi 2 e 3, 112, 115, 132, n. 4, 182, 417 e 417 bis c.p.c., 2697, comma 2, c.c., 118 disp. att. c.p.c. in quanto la corte territoriale avrebbe errato nel ritenere sanata, in seguito alla costituzione dell’Avvocatura generale dello Stato, l’attività processuale posta in essere in precedenza da un funzionario delegato dalla P.A.
Il primo motivo è fondato, in quanto il Collegio ritiene di condividere i precedenti di cui alle decisioni di questa Sezione della Corte Suprema di Cassazione, n. 2092 del 19 gennaio 2024 e n. 27372 del 22 ottobre 2024 (entrambe non massimate).
Nella presente controversia il Ministero della Giustizia si era costituito in primo grado tramite un suo funzionario delegato ex art. 417 bis c.p.c.
Il Tribunale di Roma, ritenuto che, nella specie, venendo in rilievo l’attività lavorativa svolta da un carcerato durante la detenzione, detta disposizione non fosse applicabile, ha concesso un termine ex art. 182 c.p.c., al fine di sanare la rilevata irregolarità, alla P.A., la quale si è costituita, quindi, a mezzo dell’Avvocatura dello Stato.
Ciò rileva in quanto, nella memoria difensiva presentata dal funzionario che per primo aveva rappresentato il Ministero della Giustizia, era stata sollevata eccezione di prescrizione, fatta propria, in seguito, dall’Avvocatura dello Stato.
Secondo la corte territoriale, l’ottemperanza all’ordine previsto dall’art. 182 c.p.c. avrebbe esteso il suo effetto sanante anche all’attività processuale precedente e, dunque, avrebbe reso possibile l’esame dell’eccezione citata.
Al contrario, il ricorrente sostiene la tesi per la quale le deduzioni e le produzioni del menzionato funzionario sarebbe state nulle-inesistenti e, pertanto, ‘inesistenti ed inutilizzabili giuridicamente’.
Preliminarmente, si osserva che l’art. 417 bis c.p.c., rubricato la ‘difesa delle pubbliche amministrazioni’, prevede che ‘nelle controversie relative ai rapporti di lavoro dei dipendenti delle pubbliche amministrazioni di cui al quinto comma dell’articolo 413, limitatamente al giudizio di primo grado le amministrazioni stesse possono stare in giudizio avvalendosi direttamente di propri dipendenti’; si tratta di norma che, in senso lato, appartiene all’ambito in cui la legge consente la difesa ‘personale’ delle parti, cioè non a mezzo di ‘difensore’ (art. 82 c.p.c.), per tale intendendosi un avvocato abilitato alla difesa tecnica, secondo le norme proprie della relativa professione.
L’art. 417 bis c.p.c. ha, quindi, portata derogatoria rispetto a una diversa regola generale e, pertanto, non è suscettibile di applicazioni analogiche.
Si tratta di una disposizione che riguarda le ‘controversie relative ai rapporti di lavoro dei dipendenti delle pubbliche amministrazioni di cui al quinto comma dell’articolo 413’, con la conseguenza che la sua operatività, nella specie, dipende dal fatto che il lavoro carcerario sia ritenuto o meno come ricompreso fra detti ‘rapporti’.
Al riguardo, questa S.C., pur pronunciandosi in tema di competenza territoriale, ha chiarito – con orientamento reiterato nel tempo e dal quale non vi è ragione di dissentire che la regola di cui all’art. 413, comma 5, c.p.c. è da intendere specificamente riferita ai rapporti di lavoro pubblico, mentre al lavoro carcerario sono applicabili i criteri previsti dall’art. 413, comma 2, c.p.c., trattandosi di prestazioni svolte sia pure per il perseguimento dell’obiettivo di fornire alle persone detenute occasioni di lavoro e sotto la gestione degli istituti di pena, all’interno o all’esterno degli stessi penitenziari -nell’ambito di una struttura aziendale finalizzata alla produzione di beni per il soddisfacimento di commesse pubbliche e private, con conseguente instaurazione di un rapporto di lavoro privato (Cass., Sez. 6L, n. 12205 dell’8 maggio 2019; Cass., Sez. L, n. 18309 del 17 agosto 2009).
Ne deriva che, nella presente controversia, non trova applicazione l’art. 417 bis c.p.c., come esattamente ritenuto dalle corti di merito.
Sorge, allora, il problema se l’irregolarità in esame sia sanabile, ai sensi dell’art. 182, comma 2, c.p.c., come sostenuto dai giudici dei gradi precedenti.
L’art. 182 c.p.c., nel testo applicabile (il giudizio di primo grado è stato introdotto nel 2021), anteriore alle modifiche introdotte dall’art. 3 del d.lgs. n. 149 del 2022 e posteriore a quelle previste dall’art. 46, comma 2, della legge n. 69 del 2009, stabilisce che:
‘Il giudice istruttore verifica d’ufficio la regolarità della costituzione delle parti e, quando occorre, le invita a completare o a mettere in regola gli atti e i documenti che riconosce difettosi.
Quando rileva un difetto di rappresentanza, di assistenza o di autorizzazione ovvero un vizio che determina la nullità della procura al difensore, il giudice assegna alle parti un termine perentorio per la costituzione della persona alla quale spetta la ra ppresentanza, o l’assistenza, o per il rilascio delle necessarie
autorizzazioni, ovvero per il rilascio della procura alle liti o per la rinnovazione della stessa. L’osservanza del termine sana i vizi, e gli effetti sostanziali e processuali della domanda si producono fin dal momento della prima notificazione’.
Le Sezioni Unite della S.C., con sentenza n. 37434 del 21 dicembre 2022, hanno affermato che l’art. 182, comma 2, c.p.c., nella formulazione introdotta dall’art. 46, comma 2, della legge n. 69 del 2009, non permette di sanare l’inesistenza o la mancanza i n atti della procura alla lite (diversamente da quanto consentito nel testo dell’art. 182 c.p.c. come novellato dal d.lgs. n. 149 del 2022, ove si è espressamente estesa la possibilità di sanatoria anche alle fattispecie di inesistenza: Cass., Sez. 3, n. 28251 del 9 ottobre 2023).
Ne deriva che la sanatoria de qua riguarda le procure conferite, ma nulle, e non quelle inesistenti.
Pertanto, se si ritenesse che l’irregolarità, sicuramente riferibile all’attività processuale compiuta dal funzionario del Ministero della Giustizia, vada ricondotta alla figura dell’inesistenza della procura, non potrebbe trovare spazio l’art. 182, comma 2, c.p.c.
Se, invece, si considerasse siffatta attività viziata da una nullità processuale, nella sostanza qualificando come una procura il provvedimento di designazione del funzionario delegato, il ricorso a tale disposizione sarebbe possibile.
Ritiene questo Collegio che, nella specie, non vi fosse una procura, neppure invalida.
In primo luogo, si evidenzia che, nella fase iniziale del giudizio di primo grado, il Ministero della Giustizia, essendo rappresentato da un suo dipendente, era in una situazione del tutto equiparabile a quella di una parte che si difenda da sé.
Se le cose stanno così, però, non trovando applicazione, come detto, l’art. 417 bis c.p.c. (o altre disposizioni che consentono la difesa della parte di persona), il menzionato Ministero doveva essere considerato contumace, almeno fino al momento della sua costituzione tramite Avvocatura dello Stato, come già affermato dalla giurisprudenza di questa S.C. (Cass., Sez. 3, n. 9844 del 19 luglio 2001).
D’altronde, è principio generale che non possa prospettarsi una sanabilità dell’atto promosso direttamente dalla parte priva di ius postulandi (Cass., Sez. 6, n. 24257 del 4 ottobre 2018).
Inoltre, si rileva che la sanatoria ex art. 182, comma 2, c.p.c. presuppone che vi sia un vizio emendabile.
Diversa è, invece, la situazione che si verifica nell’ipotesi di assenza della difesa tecnica, incidente sulla validità dell’instaurazione del rapporto processuale, nella quale è impedita ab origine la produzione di qualsiasi effetto giuridico.
Infatti, l’art. 182, comma 2, c.p.c., come modificato dalla legge n. 69 del 2009, presuppone la regolarizzazione in favore del soggetto o del suo procuratore già costituiti e non consente, pertanto, la costituzione in giudizio di un soggetto diverso da quello al quale la procura, da sanare, sia riferibile, mirando la disposizione in esame, più semplicemente, all’integrazione dei poteri di un avvocato già abilitato alla difesa tecnica, come si evince dal fatto che il suo testo fa espressamente riferimento ad ‘un vizio che determina la nullità della procura’ (Cass., SU, n. 37434 del 21 dicembre 2022; Cass., SU, n. 10414 del 27 aprile 2017).
Ne consegue che il motivo di ricorso merita accoglimento e questo comporta che , non potendo ritenersi rituale la costituzione a mezzo del funzionario al fine della eccezione di prescrizione
Con il secondo motivo il ricorrente contesta la violazione degli artt. 2246, 2697, comma 2, 2729 c.c., 112, 115 e 132, n. 4, c.p.c., 19, n. 4, d.lgs. n. 81 del 2015, 118 disp. att. c.p.c., 111 Cost. e 6 CEDU in quanto la ritenuta esistenza di autonomi e distinti rapporti di lavoro a termine tra le parti era, in realtà, rimasta priva di prova.
Egli afferma che il rapporto di lavoro non sarebbe cessato nel dicembre 2013, ma sarebbe continuato fino al 2017, senza che potesse ipotizzarsi l’esistenza di una pluralità di contratti a termine autonomi.
In ogni caso, sostiene che i presupposti applicativi della prescrizione dovrebbero essere provati da chi l’adduce e non potrebbero essere ricavati dalla mera discontinuità dei conteggi.
Comunque, rileva che, in presenza di una pluralità di rapporti di lavoro subordinato, nessuno dei quali assistito da stabilità reale, il termine relativo alla prescrizione quinquennale del primo non sarebbe dovuto decorrere, ove caduto durante la vigenza del successivo.
Inoltre, evidenzia che i rapporti di lavoro a termine sarebbero un’eccezione alla regola.
Lamenta, poi, che non sarebbe stata considerata ammissibile documentazione ritualmente prodotta.
La doglianza va accolta, perché, come si è detto, la irrituale costituzione del Ministero a mezzo del funzionario produce effetti anche sulla proposizione della eccezione di prescrizione.
Comunque, in linea generale, va ricordato quanto segue.
La giurisprudenza di questa Corte ha già chiarito che, con riferimento al lavoro carcerario, non rilevano, ai fini della prescrizione, le cessazioni intermedie, che, a ben guardare, neppure sono realmente tali, configurandosi, piuttosto, come sospensioni del rapporto di lavoro, se si considera che vi sono una chiamata e un prefissato periodo di lavoro secondo turni e per un tempo limitato, cui seguono altre chiamate in un unico contesto di detenzione.
Certamente, una cessazione del rapporto di lavoro vi è con la fine dello stato di detenzione, che non dipende dalla volontà del recluso o internato, il quale non può rifiutarla, al fine di mantenere il rapporto di lavoro (come affermato da Cass., Sez. L, n. 396 del 5 gennaio 2024, la cessazione per fine pena del rapporto di lavoro intramurario svolto alle dipendenze dell’amministrazione penitenziaria dà luogo ad uno stato di disoccupazione involontaria rilevante ai fini della tutela previdenziale della NASPI). Peraltro, prima di questo momento, le peculiari caratteristiche dell’attività lavorativa e la sua funzione rieducativa e di reinserimento sociale che, per tali motivi, prevede la predisposizione di meri elenchi per l’ammissione al lavoro ed è soggetta a turni di rotazione ed avvicendamento, escludono la configurabilità di periodi di lavoro, come quelli dei contratti a termine, volontariamente concordati in un sistema legislativamente disciplinato quanto a causali, oggetto e durata.
Coerentemente, la giurisprudenza di legittimità ha affermato che, in tema di lavoro svolto dai detenuti in regime carcerario, la prescrizione dei crediti retributivi del lavoratore inizia a decorrere non già dalla cessazione dello stato detentivo, bensì dalla fine del rapporto di lavoro, il quale va considerato un unico rapporto, non essendo configurabili interruzioni intermedie, volontariamente concordate, nei periodi in cui la persona privata della libertà è in attesa della chiamata al lavoro, rispetto alla quale il detenuto non ha alcun potere di controllo o di scelta e versa in una condizione di soggezione e di metus (Cass., Sez. L, n. 17484 del 25 giugno 2024; Cass., Sez. L, n. 19007 dell’11 luglio 2024, non massimate).
Risulta, allora, onere dell’amministrazione individuare il momento nel quale il rapporto di lavoro, sostanzialmente unico, debba considerarsi concluso, qualora ciò sia avvenuto prima della fine dello stato di detenzione e, a tal fine, oltre alla cessazione della detenzione, possono rilevare altre circostanze (come, ad esempio, l’età, lo stato di salute o di idoneità al lavoro etc.).
La decorrenza della prescrizione non va collegata, quindi, alla data di cessazione dello stato di detenzione (in conformità con i plurimi precedenti di questa S.C. sopra ricordati), ma al momento del venire meno, per ragioni obiettivamente valutabili, del rapporto di lavoro (da ritenersi unico, non essendo configurabili cessazioni intermedie).
Ne consegue l’accoglimento del motivo, avendo ritenuto, invece, la corte territoriale che ‘la cessazione dell’attività lavorativa e della corresponsione del compenso connessa a tale attività fa presumere la cessazione del rapporto, salva la prova contraria della sua sospensione’.
In conclusione, è stato indebitamente posto a carico del lavoratore l’onere di provare la continuità del rapporto quando, al contrario, era la P.A. a dovere allegare e dimostrare il tempo della sua cessazione nei termini sopra esposti.
Sicché sul punto può formularsi il seguente principio di diritto:
‘In tema di lavoro svolto dai detenuti in regime carcerario, la prescrizione dei crediti retributivi del lavoratore inizia a decorrere non già dalla cessazione dello stato detentivo, bensì dalla fine del rapporto di lavoro, il quale va considerato un unico rapporto, non essendo configurabili interruzioni intermedie,
volontariamente concordate, nei periodi in cui la persona privata della libertà è in attesa della chiamata al lavoro, rispetto alla quale il detenuto non ha alcun potere di controllo o di scelta e versa in una condizione di soggezione e di metus . Ne deriva che è onere della P.A., che tale prescrizione eccepisca, allegare e dimostrare il momento nel quale detto rapporto è definitivamente terminato, che può coincidere o con la cessazione dello stato di detenzione o, se anteriore, con il verificarsi di altre situazioni obiettivamente incompatibili con la sua prosecuzione, dipendenti, ad esempio, dall’età, dallo stato di salute o dall’idoneità al lavoro dell’interessato’.
3) Il ricorso è accolto.
Dati gli effetti dell’accoglimento del primo motivo sulla proposizione della eccezione di prescrizione, resta soltanto da determinare con precisione il credito del ricorrente, mai determinato nei precedenti gradi di giudizio.
Per questo la sentenza impugnata è cassata con rinvio alla Corte d’appello di Roma, la quale, in diversa composizione, deciderà la causa nel merito, anche in ordine alle spese di legittimità, applicando i seguenti principi di diritto:
‘In tema di lavoro svolto dai detenuti in regime carcerario, l’erronea costituzione della P.A. tramite un suo funzionario designato ex art. 417 bis c.p.c. integra un’ipotesi di inesistenza della procura , con la conseguenza che non è applicabile l’art. 182, comma 2, c.p.c., nel testo anteriore alle modifiche introdotte dall’art. 3 del d.lgs. n. 149 del 2022 e posteriore a quelle previste dall’art. 46, comma 2, della legge n. 69 del 2009, e che, quindi, ove la medesima P.A., nel termine assegnato dal giudice, provveda a regolarizzare la sua posizione, l’attività processuale fino a quel momento svolta non è, comunque, sanata’;
‘in tema di lavoro carcerario la irrituale costituzione della P.A. tramite un proprio funzionario designato ex art. 417 bis c.p.c. integra un’ipotesi di inesistenza della procura e pertanto riverbera i propri effetti sulla eccezione di prescrizione proposta dalla P.A.’
P.Q.M.
La Corte,
accoglie il ricorso;
-cassa la sentenza impugnata con rinvio alla Corte d’appello di Roma, in