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Lavoro carcerario e prescrizione: la Cassazione decide

La Corte di Cassazione, con la sentenza n. 19004/2024, ha stabilito che i molteplici periodi di attività lavorativa svolti da un detenuto durante la detenzione costituiscono un unico rapporto di lavoro. Di conseguenza, il termine di prescrizione per i crediti retributivi non decorre dalla fine di ogni singolo incarico, ma dal momento in cui cessa definitivamente il rapporto di lavoro carcerario, superando la tesi del Ministero della Giustizia che invocava la prescrizione per i periodi più risalenti.

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Pubblicato il 4 dicembre 2025 in Diritto del Lavoro, Giurisprudenza Civile, Procedura Civile

Lavoro Carcerario e Prescrizione: Un Unico Rapporto per la Tutela dei Diritti

Una recente e significativa sentenza della Corte di Cassazione ha affrontato il tema della prescrizione dei crediti retributivi derivanti dal lavoro carcerario. La questione centrale era stabilire se i diversi periodi di lavoro svolti da un detenuto durante la pena debbano essere considerati rapporti distinti, ciascuno con un proprio termine di prescrizione, o come un unico e continuativo rapporto. La Corte ha optato per questa seconda interpretazione, rafforzando la tutela del lavoratore detenuto.

I Fatti di Causa

Il caso nasce dalla richiesta di un ex detenuto che, dopo aver lavorato in diversi istituti penitenziari in un arco temporale di circa tre anni e mezzo (da gennaio 2014 ad agosto 2017), aveva citato in giudizio il Ministero della Giustizia per ottenere l’adeguamento della retribuzione percepita (la cosiddetta ‘mercede’) a quella prevista per legge. L’Amministrazione si era difesa eccependo la prescrizione dei crediti relativi ai periodi di lavoro più datati, sostenendo che ogni incarico lavorativo costituisse un rapporto a sé stante, la cui cessazione faceva decorrere il termine di prescrizione. Sia il Tribunale che la Corte d’Appello avevano respinto questa tesi, accogliendo la domanda del lavoratore e considerando l’intero periodo come un unico rapporto di “lavoro carcerario”.

La Questione del Lavoro Carcerario e la Prescrizione

Il Ministero ha quindi proposto ricorso in Cassazione, ribadendo che il lavoro carcerario si articola in rapporti distinti e discontinui, e che la prescrizione dovrebbe decorrere dalla cessazione di ciascuno di essi. La Corte Suprema, tuttavia, ha rigettato il ricorso, fornendo una dettagliata analisi sulla natura peculiare del lavoro svolto in regime di detenzione.

L’Evoluzione del Lavoro in Carcere

La Corte ha ripercorso l’evoluzione storica e normativa del lavoro carcerario, evidenziando come sia passato da un elemento puramente punitivo e afflittivo a uno strumento fondamentale del trattamento rieducativo, in linea con l’art. 27 della Costituzione. Oggi, il lavoro penitenziario non ha carattere afflittivo, è remunerato e mira a fornire al detenuto competenze professionali per facilitarne il reinserimento sociale. Sebbene formalmente non più obbligatorio come in passato, esso rimane una componente essenziale del percorso trattamentale, tanto che il suo svolgimento è “assicurato” al detenuto, salvo casi di impossibilità.

La Condizione di ‘Metus’ del Detenuto Lavoratore

Il punto cruciale della decisione risiede nel riconoscimento di una particolare condizione di soggezione del detenuto, definita con il termine latino ‘metus’. Questo stato non equivale necessariamente a un timore di ritorsioni da parte del datore di lavoro, ma è intrinseco alla condizione detentiva. Il detenuto, infatti, non ha potere di controllo sulla “chiamata al lavoro”. L’assegnazione dipende dalla discrezionalità dell’istituto, dalla scarsità di posti disponibili e dalle esigenze organizzative, come la rotazione tra i detenuti. Questa situazione di debolezza e incertezza impedisce al lavoratore di far valere tempestivamente i propri diritti per timore di non essere più chiamato a lavorare, compromettendo così il suo percorso rieducativo e le sue fonti di sostentamento.

Le motivazioni della Corte

Sulla base di queste premesse, la Cassazione ha concluso che i vari periodi lavorativi, anche se intervallati da periodi di inattività, non costituiscono rapporti di lavoro autonomi e distinti. Essi sono, piuttosto, momenti di un unico rapporto che si svolge all’interno di un unico contesto di detenzione. Le interruzioni non sono vere e proprie cessazioni contrattuali, ma piuttosto sospensioni funzionali alle esigenze organizzative dell’amministrazione penitenziaria. La frammentazione del rapporto in tanti contratti a termine distinti sarebbe un’interpretazione errata, poiché la realtà del lavoro carcerario è quella di un’attesa continua della “chiamata”, in una condizione di dipendenza che giustifica il differimento della decorrenza della prescrizione.

Le conclusioni

La Corte ha quindi affermato il principio secondo cui la prescrizione dei crediti retributivi del detenuto lavoratore non decorre dalla fine di ogni singolo incarico, ma dal momento in cui cessa effettivamente e definitivamente il rapporto di lavoro. Questo momento, in assenza di altre cause di cessazione (come l’età o l’inidoneità), coincide con la fine dello stato di detenzione. Questa sentenza rappresenta un importante passo avanti nella tutela dei diritti dei lavoratori detenuti, riconoscendo la specificità della loro condizione e garantendo che la loro debolezza contrattuale non si traduca in una perdita di diritti economici. La decisione allinea la giurisprudenza sulla prescrizione nel lavoro carcerario a quella dei rapporti di lavoro ‘libero’ caratterizzati da una debolezza strutturale del lavoratore, dove la prescrizione decorre solo alla cessazione del rapporto.

Quando inizia a decorrere la prescrizione per i crediti retributivi di un detenuto che lavora in carcere?
Secondo la Corte di Cassazione, la prescrizione non decorre dalla fine di ogni singolo periodo lavorativo, ma dal momento in cui il rapporto di lavoro cessa in modo definitivo, il che generalmente coincide con la fine della detenzione.

Perché i diversi periodi di lavoro svolti durante la detenzione sono considerati un unico rapporto?
Perché si inseriscono in un unico contesto di detenzione e sono caratterizzati da una funzione rieducativa unitaria. Le interruzioni non sono considerate cessazioni volontarie, ma sospensioni dovute alle esigenze organizzative dell’amministrazione penitenziaria, come la rotazione dei posti di lavoro.

Cosa intende la Corte per ‘metus’ (timore) del detenuto lavoratore?
Il ‘metus’ non è una paura di ritorsioni dirette, ma la condizione di soggezione e debolezza del detenuto rispetto alle decisioni discrezionali dell’amministrazione carceraria riguardo all’assegnazione del lavoro. Questa condizione può dissuadere il detenuto dal rivendicare i propri diritti durante il rapporto per non rischiare di perdere future opportunità lavorative.

La selezione delle sentenze e la raccolta delle massime di giurisprudenza è a cura di Carmine Paul Alexander TEDESCO, Avvocato a Milano, Pesaro e Benevento.

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