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Irrisorietà della pretesa: la Cassazione chiarisce

Una società ha richiesto un’equa riparazione per la durata irragionevole di una procedura fallimentare. Il Ministero della Giustizia si è opposto, sostenendo l’irrisorietà della pretesa creditoria, pari a 24.000 euro. La Corte di Cassazione, con l’ordinanza n. 11442/2025, ha respinto il ricorso del Ministero. Ha chiarito che la valutazione sull’irrisorietà della pretesa deve considerare sia il valore oggettivo della causa sia le condizioni soggettive del richiedente. Inoltre, ha ribadito che il danno da ritardo si presume, e spetta all’Amministrazione fornire la prova contraria per escludere il diritto al risarcimento.

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Irrisorietà della pretesa: quando il risarcimento per la lungaggine dei processi è dovuto?

L’eccessiva durata dei processi è una nota dolente del sistema giudiziario italiano. La Legge Pinto (n. 89/2001) offre uno strumento di tutela, ma cosa succede quando lo Stato ritiene che la richiesta di risarcimento sia troppo bassa per giustificare un indennizzo? La Corte di Cassazione, con l’ordinanza n. 11442 del 30 aprile 2025, fa luce sul concetto di irrisorietà della pretesa, stabilendo principi chiari su come valutarla e su chi ricada l’onere della prova. Questa decisione è fondamentale per comprendere i limiti del diritto all’equa riparazione.

I Fatti di Causa

Una società a responsabilità limitata si era insinuata nel passivo di una procedura fallimentare per un credito di circa 24.000 euro. A causa della durata irragionevole del procedimento, protrattosi per diciotto anni, la società aveva richiesto un’equa riparazione ai sensi della Legge Pinto. Il giudice designato aveva accolto la domanda, condannando il Ministero della Giustizia al pagamento di 10.800 euro.

Il Ministero si è opposto a tale decisione, portando la questione davanti alla Corte d’Appello, la quale ha però respinto l’opposizione. Secondo la Corte territoriale, il valore della pretesa non era irrisorio e il Ministero non aveva fornito prove sufficienti riguardo alle condizioni economiche della società che potessero escludere la legittimità della richiesta. Insoddisfatto, il Ministero ha proposto ricorso per Cassazione.

La questione sull’irrisorietà della pretesa

Il Ministero ha basato il suo ricorso su due motivi principali, strettamente connessi tra loro:

1. Errata valutazione dell’irrisorietà della pretesa: Secondo il ricorrente, la Corte d’Appello avrebbe sbagliato a considerare solo il valore economico del credito (€ 24.000) come non irrisorio, senza effettuare una valutazione globale che tenesse conto anche delle condizioni patrimoniali e personali della società creditrice. Per il Ministero, un’indagine soggettiva è necessaria sin dall’inizio e non un passaggio successivo alla valutazione oggettiva.
2. Violazione delle regole sull’onere della prova: Il Ministero sosteneva che, nella fase di opposizione, spettasse alla società dimostrare l’esistenza del pregiudizio subito, e non più all’Amministrazione provare il contrario. In altre parole, la presunzione di assenza di danno in caso di pretesa irrisoria avrebbe dovuto trovare applicazione anche nella fase a contraddittorio pieno.

Le Motivazioni della Corte di Cassazione

La Suprema Corte ha rigettato entrambi i motivi, giudicandoli infondati e chiarendo in modo definitivo i criteri per l’applicazione della norma sull’irrisorietà della pretesa.

La Corte ha ricordato che l’art. 2, comma 2-sexies, lett. g), della Legge n. 89/2001 introduce una presunzione iuris tantum (cioè superabile con prova contraria) di insussistenza del pregiudizio in caso di ‘irrisorietà della pretesa o del valore della causa, valutata anche in relazione alle condizioni personali della parte’.

Secondo gli Ermellini, questa valutazione deve basarsi su due elementi congiunti:

* Un elemento oggettivo: il valore del bene oggetto della lite. Nel caso di specie, un credito di 24.000 euro non è stato ritenuto ‘bagatellare’ o insignificante.
* Un elemento soggettivo: le condizioni personali e socio-economiche della parte che richiede l’indennizzo.

La Corte ha specificato che non è sufficiente un mero confronto tra l’importo del credito e il patrimonio o il volume d’affari di una società per escludere tout court il diritto al risarcimento. Spetta all’Amministrazione, che invoca l’irrisorietà, fornire elementi concreti per dimostrare che, data la specifica situazione economica del richiedente, quel ritardo non ha prodotto un pregiudizio apprezzabile. In assenza di tale prova, il danno non patrimoniale si presume esistente.

Inoltre, la Cassazione ha ribadito che l’onere della prova non si inverte nella fase di opposizione. L’opposizione non è un nuovo giudizio, ma la fase a contraddittorio pieno di un unico procedimento. Pertanto, il principio generale secondo cui il danno non patrimoniale da irragionevole durata si presume rimane valido, e spetta sempre all’Amministrazione fornire elementi idonei a escluderne la sussistenza.

Conclusioni

La decisione della Cassazione rafforza la tutela dei cittadini e delle imprese contro i ritardi della giustizia. Il principio affermato è chiaro: il diritto all’equa riparazione non può essere negato sulla base di una valutazione superficiale del valore della causa. Per considerare una pretesa ‘irrisoria’, non basta che il suo valore economico sia modesto in assoluto; è necessario che l’Amministrazione dimostri, con prove concrete, che esso è insignificante anche in relazione alla specifica condizione economica del danneggiato. In mancanza di questa prova, il danno si presume e l’indennizzo è dovuto.

Quando una richiesta di risarcimento per la durata irragionevole di un processo può essere considerata ‘irrisoria’ al punto da escludere l’indennizzo?
La richiesta è considerata irrisoria solo se, sulla base di una valutazione complessiva, risulta tale sia per il suo valore oggettivo (il valore della causa) sia in relazione alle specifiche condizioni personali e patrimoniali del richiedente. Non è sufficiente che il valore economico sia basso in assoluto.

A chi spetta l’onere di provare che la pretesa è irrisoria?
L’onere di provare l’irrisorietà della pretesa spetta all’Amministrazione statale (in questo caso, il Ministero della Giustizia). Il danno non patrimoniale derivante dal ritardo si presume, e sta allo Stato fornire prove concrete che dimostrino l’assenza di un pregiudizio per la parte, confutando tale presunzione.

La valutazione cambia se il richiedente è una società invece di una persona fisica?
Il principio di base non cambia, ma la valutazione delle ‘condizioni personali’ viene adattata. Per una società, si considerano aspetti come la sua situazione patrimoniale e il volume d’affari. Tuttavia, la Corte specifica che anche per le società non è sufficiente un semplice raffronto tra il valore del credito e il patrimonio per escludere automaticamente il diritto al risarcimento.

La selezione delle sentenze e la raccolta delle massime di giurisprudenza è a cura di Carmine Paul Alexander TEDESCO, Avvocato a Milano, Pesaro e Benevento.

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