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Irragionevole durata processo: limiti alla deroga

La Corte di Cassazione ha accolto il ricorso di alcune società creditrici che lamentavano l’irragionevole durata di una procedura fallimentare durata quasi 24 anni. La Corte ha stabilito che la ‘particolare complessità’ del caso può giustificare un’estensione del termine di sei anni, ma solo fino a un massimo di sette. Inoltre, ha ribadito che il danno non patrimoniale si presume, invertendo l’onere della prova a carico dello Stato. La sentenza della Corte d’Appello, che aveva negato l’indennizzo, è stata cassata con rinvio.

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Irragionevole Durata del Processo Fallimentare: La Complessità Non Giustifica Tutto

La giustizia lenta è una giustizia negata. Questo principio fondamentale trova concreta applicazione nella disciplina sull’irragionevole durata del processo, volta a garantire ai cittadini un’equa riparazione per i ritardi del sistema giudiziario. Un’ordinanza recente della Corte di Cassazione ha riaffermato con forza i paletti entro cui la durata di un procedimento, anche se complesso, può essere considerata ‘ragionevole’, ponendo un freno a interpretazioni eccessivamente estensive. Il caso riguardava una procedura fallimentare protrattasi per quasi 24 anni, una durata che ha spinto i creditori a chiedere un indennizzo.

I Fatti di Causa: Una Procedura Durata Quasi 24 Anni

Un gruppo di società, creditrici di un’impresa edile dichiarata fallita, si vedeva coinvolto in una procedura concorsuale iniziata nel 1995 e conclusasi solo nel 2019, con una soddisfazione solo parziale dei propri crediti. Vista l’enorme dilatazione dei tempi, le società decidevano di agire in giudizio contro il Ministero della Giustizia per ottenere l’indennizzo previsto dalla Legge n. 89/2001 (nota come ‘Legge Pinto’) per l’irragionevole durata del processo.

Inizialmente, la loro richiesta veniva rigettata sia dal Consigliere delegato che, in sede di opposizione, dalla Corte d’Appello. La motivazione dei giudici di merito si fondava sull’assunto che l’eccezionale e straordinaria complessità della procedura fallimentare giustificasse una durata ben superiore ai termini standard stabiliti per legge.

Irragionevole Durata del Processo e i Motivi del Ricorso in Cassazione

Le società ricorrenti hanno impugnato la decisione della Corte d’Appello dinanzi alla Corte di Cassazione, basando il loro ricorso su due argomenti principali.

In primo luogo, hanno sostenuto che la Corte d’Appello avesse violato la legge nel ritenere che la complessità del caso potesse consentire di superare il termine massimo di sei anni fissato dall’art. 2, comma 2-bis della Legge 89/2001. Secondo i ricorrenti, tale termine è un limite inderogabile e un allungamento sarebbe possibile solo in presenza di ‘circostanze particolari’ legate alla posizione dei singoli richiedenti, non alla complessità generale del procedimento.

In secondo luogo, hanno contestato l’inversione dell’onere della prova operata dalla Corte d’Appello riguardo al danno non patrimoniale. I giudici di merito avevano negato il risarcimento a una delle società in quanto non aveva provato i danni subiti. I ricorrenti hanno invece affermato che, in tema di equa riparazione, il danno non patrimoniale è una conseguenza normale della violazione del termine di ragionevole durata e si presume fino a prova contraria, che deve essere fornita dall’Amministrazione.

Le Motivazioni della Suprema Corte

La Corte di Cassazione ha ritenuto fondati i motivi di ricorso, accogliendoli integralmente. Gli Ermellini hanno chiarito punti cruciali in materia di irragionevole durata del processo.

Anzitutto, hanno confermato che la soglia ordinaria di ragionevolezza per una procedura concorsuale è di sei anni. Pur riconoscendo che, in linea con la giurisprudenza della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo (CEDU), la particolare complessità del caso può giustificare un ‘temperamento’, tale estensione non può essere illimitata. La Corte ha specificato che si può arrivare fino a un massimo di sette anni, ma solo a condizione che vengano valutate circostanze specifiche ed eccezionali, come il numero elevato di creditori, la natura complessa dei beni da liquidare o la presenza di numerosi giudizi collegati. La Corte d’Appello aveva invece dilatato il termine in modo generico e ingiustificato.

Inoltre, la Cassazione ha riaffermato il principio della presunzione del danno non patrimoniale. Una volta superato il termine di ragionevole durata, il danno si presume esistente. Spetta all’Amministrazione resistente (in questo caso, il Ministero) fornire la prova contraria, dimostrando che, in concreto, il ritardo non ha causato alcun pregiudizio. La Corte d’Appello aveva quindi errato nell’invertire l’onere probatorio, addossandolo ai creditori danneggiati.

Le Conclusioni

In conclusione, la Suprema Corte ha cassato il decreto impugnato e ha rinviato la causa alla Corte d’Appello di Brescia, in diversa composizione, affinché riesamini la domanda applicando i principi di diritto enunciati. Questa decisione è di fondamentale importanza perché riafferma che la complessità di un procedimento non può diventare un alibi per ritardi indefiniti e che il diritto a un processo di ragionevole durata è un pilastro dello Stato di diritto. La presunzione del danno non patrimoniale, inoltre, rafforza la tutela del cittadino, evitando di imporgli una prova spesso difficile da fornire e riequilibrando la sua posizione nei confronti dello Stato.

La particolare complessità di una procedura fallimentare può giustificare una durata superiore ai sei anni previsti dalla legge?
Sì, ma solo in misura limitata. La Corte di Cassazione ha chiarito che la particolare complessità può giustificare un temperamento della soglia di sei anni, estendendola fino a un massimo di sette anni, a condizione che sussistano specifiche circostanze eccezionali (es. elevato numero di creditori, complessità dei beni da liquidare).

In caso di irragionevole durata del processo, chi deve provare il danno non patrimoniale?
Il danno non patrimoniale si presume. Non è il cittadino a dover provare di aver subito un danno, ma è l’Amministrazione resistente (lo Stato) che deve fornire la prova contraria, dimostrando che il ritardo non ha causato alcun pregiudizio.

Qual è la conseguenza della decisione della Corte di Cassazione in questo caso?
La Corte di Cassazione ha annullato (cassato) la decisione della Corte d’Appello e ha rinviato il caso allo stesso ufficio giudiziario, ma con un collegio di giudici diverso. Questo nuovo collegio dovrà decidere nuovamente sulla richiesta di indennizzo, attenendosi ai principi stabiliti dalla Cassazione, ovvero rispettando il limite massimo di durata e applicando la presunzione del danno.

La selezione delle sentenze e la raccolta delle massime di giurisprudenza è a cura di Carmine Paul Alexander TEDESCO, Avvocato a Milano, Pesaro e Benevento.

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