Ordinanza di Cassazione Civile Sez. 2 Num. 13013 Anno 2025
Civile Ord. Sez. 2 Num. 13013 Anno 2025
Presidente: COGNOME
Relatore: COGNOME
Data pubblicazione: 15/05/2025
ORDINANZA
sul ricorso 21736/2020 R.G. proposto da:
NOME COGNOME, elettivamente domiciliata in ROMA, INDIRIZZO presso lo studio dell’avvocato NOME COGNOME che la rappresenta e difende con l’avvocato NOME COGNOME giusta procura in atti;
-ricorrente –
contro
COMUNE DI PALERMO, in persona del Sindaco pro tempore elettivamente domiciliato presso gli uffici dell’Avvocatura Comunale in PALERMO INDIRIZZO rappresentata e difesa dall’avvocato NOME COGNOME giusta procura in atti;
-controricorrente –
e
RAGIONE_SOCIALE in persona del Direttore pro tempore domiciliata, ex lege , presso l’Avvocatura Generale dello Stato, in Roma, INDIRIZZO
-resistente-
avverso la sentenza n. 608/2020 della CORTE D’APPELLO di PALERMO, depositata il 24/04/2020; udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del
20/02/2025 dal Consigliere NOME COGNOME
Osserva
Il Tribunale di Palermo rigettò la domanda di NOME COGNOME nel contraddittorio con il Comune di Palermo e l’Agenzia del Demanio (quest’ultima chiamata a integrare il contraddittorio), diretta alla declaratoria di acquisizione per usucapione del diritto di proprietà di uno stacco di terreno, nonché dell’unità immobiliare posta al piano terra, con annesso giardino, che faceva parte del fabbricato destinato a INDIRIZZO e adibito, nella restante parte, a sede della Postazione decentrata Villagrazia/Falsomiele dei Servizi Demografici.
La Corte d’appello di Palermo rigettò l’impugnazione della Marchese.
2.1. Per quel che qui rileva deve, in sintesi, ricordarsi che la Corte locale giunge all’anticipato epilogo attraverso i passaggi argomentativi di cui appresso:
-i beni di cui si discute facevano parte del complesso immobiliare ceduto con il verbale del 24/11/1871 dal Demanio statale al Comune di Palermo, tanto che poi quest’ultimo nel tempo ne aveva disposto concedendolo in locazione al dante causa della odierna ricorrente;
la casetta rurale e accessori, poi confluiti nel patrimonio disponibile del Comune di Palermo, erano stati da lungo tempo condotti in locazione, dopo l’uso fattone da NOME COGNOME fin dal 1845, per concessione dei Francescani: con contratto del 1925, stipulato con il Commissario prefettizio (essendo passato l’intiero compendio in mano pubblica per legge) e con contratto del 1947, stipulato col Comune con il figlio NOME, che regolarmente ebbe
a corrispondere i canoni, siccome il di lui figlio NOME; ciò fino al novembre 1984, avendo, di poi, il conduttore smesso di pagare i canoni, dopo che il Comune gli aveva chiesto chiarimenti;
la concessione in locazione di un bene pubblico disponibile non implicava sdemanializzazione tacita;
-doveva escludersi che dal gennai 1985 si fosse avuto possesso ‘ad usucapionem’, di conseguenza non era utilmente decorso il ventennio di legge allorquando l’Amministrazione, nel 2011, notificò intimazione di rilascio, mancando prova che dimostrasse il mutamento della detenzione in possesso, non potendo il solo inadempimento contrattuale dell’obbligazione di corrispondere i canoni di locazione procurare un tale effetto.
NOME COGNOME propone ricorso sulla base di cinque motivi.
Il Comune di Palermo resiste con controricorso, ulteriormente illustrato da memoria. L’Agenzia del Demanio si è costituita in giudizio al solo fine di partecipare all’eventuale discussione in pubblica udienza.
Con il primo motivo viene denunciata <>, cui sarebbe conseguita l’improcedibilità della causa.
5.1. La doglianza è manifestamente infondata: l’art. 5, co. 2 del d. lgs n. 28/2010 prevede che ‘L’improcedibilità è eccepita dal convenuto, a pena di decadenza, o rilevata d’ufficio dal giudice non oltre la prima udienza’.
Pertanto, l’eccezione sollevata solo con il ricorso per cassazione risulta palesemente tardiva.
Con il secondo motivo viene denunciata falsa applicazione dell’art. 20 del r.d. n. 3036/1866, nonché delle leggi nn. 2987/1866 e 3848/1867.
Si assume che il complesso normativo evocato, di confisca dei patrimoni ecclesiastici, si poneva in contrasto con i documenti di causa e con l’interpretazione del verbale di cessione.
In particolare la Corte di Palermo, secondo la ricorrente, aveva trascurato di considerare che i Francescani non avrebbero potuto occupare il compendio dopo il 1845 e, quindi, non avrebbero potuto <>.
Con il terzo motivo viene denunciata nullità della sentenza per motivazione apparente, con violazione degli artt. 6 CEDU, 111 Cost e 132 cod. proc. civ., nonché degli artt. 183, 2703 cod. civ., 115 cod. proc. civ.
La ricorrente lamenta che la sentenza impugnata aveva aderito a quella di primo grado attraverso un costrutto motivazionale apparente; inoltre non aveva disposto consulenza tecnica e mancato di valutare la perizia giurata prodotta dalla parte senza spiegarne le ragioni.
Con il quarto motivo viene denunciata falsa applicazione degli artt. 822, 826, 828, 829, 947, 1141 e 1164 cod. civ.
Si assume che la sentenza sia incorsa in errore per non avere considerato che del bene non era stato fatto alcun pubblico utilizzo e per avere negato sdemanializzazione tacita dello stesso, che invece avrebbe dovuto rinvenirsi nei comportamenti univoci e concludenti dell’Amministrazione pubblica.
Inoltre, la motivazione sarebbe stata contraddittoria, per avere il giudice, per un verso, affermato la demanialità del bene e, per altro verso, aver negato la sussistenza degli elementi integranti il
possesso ‘ad usucapionem’, del quale la ricorrente aveva fornito le necessarie prove.
A fronte della presunzione di possesso ex art. 1141 cod. civ., sarebbe spettato alla controparte dimostrare che si fosse in presenza di detenzione.
Nonostante il pieno possesso, manifestatosi anche nella coltivazione del terreno circostante la casa, la sentenza aveva, senza spiegare la ragione del discostamento del portato di cui all’art. 1141 cod. civ., affermato non essere intervenuto il mutamento della detenzione in possesso, a fronte del lungo disinteresse del Comune e dell’abbandono del cespite da parte di quest’ultimo (a sintomo del possesso la ricorrente allega il verbale del 21/7/1987 di contestazione di opere abusive dalla medesima effettuate).
Infine, la mancata sottoscrizione del contratto dal gennaio 1985 in poi avrebbero costituito, secondo la prospettazione impugnatoria, mutamento della detenzione in possesso.
I motivi da due a quattro sono inammissibili.
(a) Il complesso censorio non coglie la ragione decisoria: vi era rapporto di locazione e, quindi, il conduttore aveva un rapporto di detenzione con la ‘res’.
(b) L’inadempimento del contratto fonte della detenzione, consistito nel mancato pagamento dei canoni o nella mancata riconsegna della ‘res’, non procura mutamento della detenzione in possesso.
Questa Corte, per vero, ha più volte chiarito che l’interversione nel possesso non può aver luogo mediante un semplice atto di volizione interna, ma deve estrinsecarsi in una manifestazione esteriore -rivolta specificamente contro il possessore, in maniera che questi possa rendersi conto dell’avvenuto mutamento -dalla quale sia consentito desumere che il detentore abbia cessato
d’esercitare il potere di fatto sulla cosa in nome altrui ed abbia iniziato ad esercitarlo esclusivamente in nome proprio, con correlata sostituzione al precedente “animus detinendi” dell'”animus rem sibi habendi”. Non rilevano, a tal fine, l’inottemperanza alle pattuizioni in forza delle quali la detenzione era stata costituita, verificandosi, in questo caso, un’ordinaria ipotesi di inadempimento contrattuale, né meri atti di esercizio del possesso, traducendosi gli stessi in un’ipotesi di abuso della situazione di vantaggio determinata dalla materiale disponibilità del bene. -Nella specie, la S.C. ha escluso l’interversione nel possesso, da parte del conduttore ed ex proprietario del bene poi espropriato, osservando, da un lato, che la stipula di contratti di locazione e la percezione dei relativi canoni, lo svolgimento di opere di manutenzione e la gestione delle utenze, erano tutte condotte non rivolte nei confronti del soggetto espropriante, e, dall’altro, che la proposizione del giudizio di opposizione alla stima e della domanda di retrocessione dell’immobile erano atti comportanti il riconoscimento del diritto di quest’ultimo (Sez. 1, n. 26327, 20/12/2016, Rv. 642763 -01; conf. ex pluribus, Cass. nn.26326/2016, 8213/2016, 2392/2009, 12007/2004).
(c) Prescindendo da ogni altra considerazione, la denuncia di motivazione apparente e il profilo di doglianza afferente alla scelta di non avvalersi di un consulente tecnico d’ufficio, né di prestare esplicita attenzione alla perizia giurata, non sorretti da apprezzabile spiegazione in ordine alla loro decisività, alla luce di quanto esposto ai punti (a) e (b) si presentano inconferenti. Nessuna pretesa d’usucapione può vantare, come si è visto, il mero detentore.
(d) La natura del bene (disponibile o non disponibile) non rileva, stante che la sentenza ha correttamente escluso il mutamento della detenzione in possesso.
(e) La ricostruzione storica è irrilevante, stante non essere dubbio che il rapporto con la ‘res’ degli antenati della ricorrente era stato dipendente da un contratto di locazione.
(f) Nel resto il complesso censorio è, peraltro, assertivo e privo di sufficiente specificità.
Il quinto motivo, con il quale viene denunciata violazione e/o falsa applicazione degli artt. 91 e 92 cod. proc. civ., per avere la sentenza della Corte locale posto a carico della ricorrente anche il rimborso delle spese in favore dell’Agenzia del Demanio, chiamata in causa per ordine del giudice, è destituito di giuridico fondamento.
Il carico delle spese è retto dal principio di causalità, che impone di addebitare il costo del processo alla parte che vi ha dato luogo o che a esso ha resistito avendo torto, non solo nei confronti della parte convenuta in prima battuta, ma anche nei confronti dei soggetti chiamati in causa per ordine del giudice.
Colui che attivamente o passivamente si espone all’esito del processo, oltre a conseguire i vantaggi, deve anche sopportare le eventuali conseguenze sfavorevoli che, in ordine alle spese, sono stabilite a suo carico in base al principio della soccombenza e ciò anche se si tratti di spese non rigorosamente conseguenziali e strettamente dipendenti dall’attività della parte rimasta soccombente ma derivante dagli eventuali errori in cui può incorrere il giudice nei vari gradi o nelle diverse fasi del processo, come nel caso di quelle che vengono sopportate da coloro che sono chiamati a partecipare al giudizio quali terzi evocati per ordine del giudice, ancorché rivelatosi successivamente ingiustificato: solo in tal modo, infatti, rimane efficacemente salvaguardato il fondamentale diritto di difesa delle parti che vengono, anche se ingiustamente, chiamate in giudizio (Sez. L. n.
9049, 19/04/2006, Rv. 588484 -01; conf. Cass. nn. 8886/2013, 4386/2007).
Rigettato il ricorso nel suo complesso, il regolamento delle spese segue la soccombenza e le stesse vanno liquidate, tenuto conto del valore e della qualità della causa, nonché delle svolte attività, siccome in dispositivo, in favore del controricorrente.
Ai sensi dell’art. 13, comma 1-quater D.P.R. n. 115/02 (inserito dall’art. 1, comma 17 legge n. 228/12), applicabile ratione temporis (essendo stato il ricorso proposto successivamente al 30 gennaio 2013), sussistono i presupposti processuali per il versamento da parte della ricorrente di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso principale, a norma del comma 1-bis dello stesso art. 13, se dovuto.
P.Q.M.
rigetta il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento in favore del Comune di Palermo delle spese del giudizio di legittimità, che liquida in euro 3.500,00 per compensi, oltre alle spese forfettarie nella misura del 15 per cento, agli esborsi liquidati in euro 200,00, e agli accessori di legge.
Ai sensi dell’art. 13, comma 1-quater D.P.R. n. 115/02 (inserito dall’art. 1, comma 17 legge n. 228/12), si dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento da parte della ricorrente di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso principale a norma del comma 1-bis dello stesso art. 13, se dovuto.
Così deciso in Roma nella camera di consiglio del 20 febbraio