Ordinanza di Cassazione Civile Sez. 2 Num. 9393 Anno 2025
Civile Ord. Sez. 2 Num. 9393 Anno 2025
Presidente: COGNOME
Relatore: COGNOME
Data pubblicazione: 10/04/2025
OGGETTO:
azione di rendiconto di beni in comunione
RG. 13971/2020
C.C. 25-3-2025
ORDINANZA
sul ricorso n. 13971/2020 R.G. proposto da:
COGNOME c.f. DMRGPP49E22F839D, rappresentato e difeso dall’avv. NOME COGNOME
ricorrente
contro
COGNOME c.f. LRAVCN31S29F839W, in persona del procuratore generale NOME COGNOME c.f. LNDGNN69C16G478T, rappresentato e difeso dall’avv. NOME COGNOME e dall’avv. NOME COGNOME controricorrente
nonché contro
NOME COGNOME c.f. CODICE_FISCALE, rappresentata e difesa dall’avv. NOME COGNOME
contro
ricorrente
nonché contro
NOME c.f. SLMLGU32M20F839J, NOMECOGNOME c.f. SLMMRC37E31F839H, NOMECOGNOME c.f. SLMGNN74A68Z133G, in proprio e quale procuratrice di NOME c.f. SLMMMCS62P16Z404B, NOME c.f.
SLMMFR66S50F839O, NOME c.f. SLMCLD65P70Z120F, in proprio e quale procuratrice di NOMECOGNOME c.f. SLMPRZ67B45Z103E, NOMECOGNOME c.f. SLMMLS63D45Z120P, in proprio e quale procuratrice di NOME, c.f. SLMSLV74H56Z103S, NOME c.f. SPDCRL69L29F839Y, in proprio e quale procuratore di NOME, c,f, SPDFRC66M42F839P1, di NOMECOGNOME c.d. SPDLSN73A65F839C, NOME c.f. SPDSFN40T54D086M, di NOME, c.f. SPDNCL82B44F839P, di NOME o NOME c.f. HRTFDR59D21Z404V, di NOME o NOME c.f. CODICE_FISCALE, di NOME c.f. CODICE_FISCALE, di NOME c.f. CODICE_FISCALE, rappresentati e difesi dall’avv. NOME COGNOME controricorrenti
nonché contro
NOME intimati avverso la sentenza n. 6280/2019 della Corte d’ appello di Napoli, depositata il 23-12-2019,
udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 25-32025 dal consigliere NOME COGNOME
FATTI DI CAUSA
1.Con sentenza n. 5736/2013 depositata il 6-5-2013 il Tribunale di Napoli, per quanto ancora interessa, ha deciso sulle cause riunite, quella promossa da NOME COGNOME e altri attori, consorti COGNOME, COGNOME e COGNOME, nei confronti di NOME COGNOME al fine di ottenere il rendiconto della sua gestione dei beni comuni e il pagamento delle somme indebitamente trattenute, e quella proposta da NOME COGNOME nei confronti di NOME COGNOME e NOME COGNOME
NOME al fine di ottenere a sua volta il rendiconto della loro amministrazione dei beni comuni in Calabria.
La sentenza ha considerato che i conti resi -in ragione del godimento esclusivo di beni in comunione tra le parti provenienti dalla successione di NOME COGNOME-, rispettivamente da NOME COGNOME per il periodo dal 1962 al 1996 e da NOME COGNOME per il periodo dal 1988 al 2002, erano stati contestati; interpretati i titoli che disciplinavano le vicende successorie relative ai beni in comunione, ha dichiarato che NOME COGNOME aveva diritto di trattenere i frutti pari alla quota di 1200/40320 della comunione ereditaria COGNOME fino al decesso nel 2000 di NOME COGNOME la quale vantava il diritto di usufrutto in virtù di testamento; ha disposto la compensazione fino alla reciproca concorrenza dei crediti di NOME COGNOME e NOME COGNOME e ha accolto la domanda di NOME COGNOME e degli altri attori, condannando NOME COGNOME a corrispondere a ciascuno la quota di rispettiva spettanza delle rendite incassate, oltre gli interessi legali dal 10-3-2008.
Avverso la sentenza NOME COGNOME ha proposto appello, che la Corte d’appello di Napoli con sentenza n. 6280/2019 pubblicata il 23-12-2019 ha integralmente rigettato.
2.Avverso tale sentenza NOME COGNOME ha proposto ricorso per cassazione affidato a cinque motivi.
NOME COGNOME già costituito in appello quale erede di NOME COGNOME in persona del procuratore generale NOME COGNOME in forza di procura notarile, ha resistito con controricorso.
NOME COGNOME già costituita in appello quale coerede di NOME COGNOME ha a sua volta resistito con controricorso.
NOME COGNOME NOME COGNOME NOME COGNOME in proprio e quale procuratrice di NOME COGNOME in forza di procura notarile, NOME COGNOME NOME COGNOME in proprio e in qualità di
procuratrice della sorella NOME COGNOME in forza di procura notarile, NOME COGNOME, in proprio e in qualità di procuratrice della sorella NOME COGNOME in forza di procura notarile, NOME COGNOME, in proprio e quale procuratore di NOME COGNOME, NOME COGNOME, NOME COGNOME, NOME COGNOME, NOME COGNOME, NOME COGNOME NOME COGNOME e NOME COGNOME in forza di procure notarili e consolari, hanno resistito con unico controricorso.
Le altre parti sono rimaste intimate.
Il ricorso è stato avviato alla trattazione camerale ex art. 380bis.1 cod. proc. civ. e in prossimità dell’adunanza in camera di consiglio il ricorrente ha depositato memoria illustrativa.
All’esito della camera di consiglio del 25-3-2025 la Corte ha riservato il deposito dell’ordinanza.
RAGIONI DELLA DECISIONE
1.Preliminarmente si dà atto che, in ragione dell’esito del giudizio, non si pone questione sulle modalità di proposizione del ricorso per cassazione nei confronti delle parti rimaste intimate, in applicazione del principio sulla ragionevole durata del processo, che impone di evitare condotte che ostacolino una sollecita definizione del giudizio, tra le quali rientrano quelle che si traducono in un inutile dispendio di attività processuale, non giustificata dalla struttura dialettica del processo; ingiustificata sarebbe nella fattispecie la fissazione di termine per rinnovare le notifiche non andate a buon fine o per l’integrazione del contraddittorio nei confronti dei soggetti non destinatari di notificazione, in quanto la fissazione di tale termine si tradurrebbe, oltre che in un aggravio di spese, in un allungamento dei termini per la definizione del giudizio di cassazione, senza comportare alcun beneficio per la garanzia dell’effettività dei diritti processuali delle parti (Cass. Sez. 1 11-3-2020 n. 6924 Rv. 657479-01, Cass. Sez. 6-3 17-6-2019
n. 16141 Rv. 654313-01, Cass. Sez. 2 21-5-2018 n. 12515 Rv. 648755-01).
2.Con il primo motivo di ricorso, proposto ‘ex art. 360, I comma n. 3 c.p.c., in violazione e/o falsa applicazione degli articoli 167, 169, 670, 682 e 1362 c.c.’ , il ricorrente NOME COGNOME censura la sentenza impugnata per avere rigettato il suo primo motivo di appello, con il quale aveva criticato l’interpretazione della volontà testamentaria di NOME COGNOME eseguita dal giudice di primo grado.
Per quanto interessa, con il testamento del 18-6-1981 NOME COGNOME aveva nominato erede universale il nipote NOME COGNOME; con primo codicillo del 3-10-1981 la testatrice aveva disposto ‘Gentile Amica, nel confermare in tutto il suo tenore il mio testamento olografo del 18-6-1981 depositato fiduciariamente nelle sue mani, dispongo che mia sorella NOME durante la sua vita goda delle rendite della mia proprietà calabrese’; con secondo codicillo del 14 -10-1981 aveva disposto ‘Gentile Amica, la pr ego di volere aggiungere alle mie volontà testamentarie presso di Lei fiduciariamente depositate in forma olografa le seguenti disposizioni: Tutti i beni immobili lasciati a mio nipote NOME COGNOME, figlio di mio fratello NOME, istituito mio erede universale, dispongo che siano costituiti in fondo patrimoniale ai sensi dell’art. 167 cpc per far fronte ai bisogni della famiglia del predetto mio nipote’.
La sentenza impugnata, confermando la pronuncia di primo grado, ha ritenuto che con il primo codicillo NOME COGNOME era stata istituita usufruttuaria della ‘proprietà calabrese’ e ha escluso che il secondo codicillo integrasse revoca tacita del primo codicillo ex art. 682 cod. civ. Ha rilevato che, in difetto di previsioni ostative, non sussisteva alcuna incompatibilità tra il diritto di usufrutto in favore di NOME COGNOME, limitato ai soli immobili calabresi dei quali la testatrice era comproprietaria, e il fondo patrimoniale costituito su tutti gli immobili
attribuiti in eredità a NOME COGNOME, che non erano solo gli immobili calabresi; ha osservato che, essendo i beni calabresi solo una parte di un più ampio compendio ereditario, restava smentita la prospettazione, sulla quale si fondava l’appello, in ordine all’impossibilità di desti nare i frutti dei beni ereditari ai bisogni della famiglia, nel rispetto del vincolo di cui agli artt. 167 e ss. cod. civ.; ha aggiunto che la beneficiaria del legato di usufrutto era nata il 26-101981 e all’epoca della redazione dei codicilli aveva circa ottant’anni, così che era ragionevole ritenere che la testatrice, per il limitato periodo in cui la legataria avrebbe ancora vissuto, intendesse beneficiarla dei frutti della sola proprietà calabrese in comproprietà con NOME COGNOME che, al suo decesso, sarebbero stati destinati alla famiglia dell’erede universale NOME COGNOME Ha altresì rilevato che la volontà di revoca del precedente legato doveva essere radicalmente esclusa, in ragione del tenore inequivoco delle espressioni utilizzate dalla testatrice, la quale -rivolgendosi al notaio NOME COGNOME che custodiva i testamentiaveva voluto ‘aggiungere’ alle volontà testamentarie quelle dei codicilli.
Il ricorrente censura la pronuncia, sostenendo una incompatibilità oggettiva tra le disposizioni, in quanto sul medesimo bene caduto in successione -riferito ai frutti delle quote immobiliari delle rendite calabresi- non potevano coesistere due diritti, di contenuto uguale ma di contrapposta titolarità; quindi sostiene che la previsione del primo codicillo sia stata travolta dal secondo codicillo ed evidenzia come il secondo codicillo non contenga alcuna previsione di attribuzione di nuda proprietà al nipote istituito erede; sostiene che anche le rendite calabresi dovevano compiere la previsione del secondo codicillo, e cioè soddisfare i bisogni della famiglia dell’erede universale; ulteriormente evidenzia come non sarebbe stato possibile dare contemporaneamente esecuzione a entrambe le disposizioni, perché l’onere di destinare i
frutti ai bisogni della famiglia presuppone logicamente il diritto di percepire tali frutti. Rileva altresì che neppure la locuzione ‘aggiungere’ adduce alcun elemento a favore dell’interpretazione eseguita dalla sentenza impugnata, in quanto la testatrice aveva voluto lasciare inalterate solo le altre disposizioni; sostiene che neppure la vicinanza temporale delle disposizioni possa essere dirimente e che, invece, sia dirimente l’incompatibilità oggettiva tra le disposizioni. Sotto il profilo letterale, rileva che la sentenza ha individuato nel primo codicillo un legato di usufrutto vitalizio che non trova sostegno nel contenuto della disposizione, a fronte della dimestichezza della testatrice con i termini giuridici ; quindi sostiene che l’unica interpretazione aderente al testo del primo codicillo sia nel senso della previsione non di usufrutto ma di un legato di prestazioni periodiche pari alle rendite, a favore della sorella della testatrice NOME e a carico del l’erede universale NOME COGNOME COGNOME
2.1.Il motivo è infondato.
In linea generale, l’interpretazione della volontà del testatore espressa nella scheda testamentaria, risolvendosi in un accertamento di fatto demandato al giudice di merito, è compito esclusivo di questo, nel senso che al giudice di merito è riservata la scelta e la valutazione degli elementi di giudizio più idonei a ricostruire la predetta volontà, potendo egli avvalersi in tale attività interpretativa, con gli opportuni adattamenti per la particolare natura dell’atto, delle stesse regole ermeneutiche di cui all’art. 1362 cod. civ.; con la conseguenza che, se siffatta operazione è compiuta nel rispetto delle predette regole e se le conclusioni che vengono tratte sono aderenti alle risultanze processuali e sorrette da logica motivazione, il giudizio formulato in sede di merito non è sindacabile in sede di legittimità (Cass. Sez. 2 11-4-2005 n. 7422 Rv. 581698-01, Cass. Sez. 2 21-2-2007 n. 4022 Rv. 595401-01).
Inoltre, in caso -come nella fattispecie- di testamenti successivi, fuori dall’ipotesi di revoca espressa del precedente testamento -che nella fattispecie non sussiste- può ricorrere un caso di incompatibilità oggettiva o intenzionale tra il testamento precedente e il successivo; sussiste la prima allorché, indipendentemente da un intento di revoca, sia materialmente impossibile dare contemporanea esecuzione alle disposizioni contenute in entrambi gli atti e sussiste la seconda quando, dal contenuto del testamento successivo, si evinca la volontà del testatore di revocare, in tutto o in parte, quello precedente e, dal raffronto del complesso delle disposizioni o di singole previsioni contenute nei due atti, si desuma che il contenuto della volontà più recente del testatore è inconciliabile con quanto risultante nell’atto precedente; la relativa indagine, involgendo apprezzamenti di fatto riservati al giudice di merito, non è censurabile in sede di legittimità, se non per vizio attinente alla motivazione (Cass. Sez. 2 11-5-2017 n. 11587 Rv. 644023-01, Cass. Sez. 2 12-11-1983 Rv. 431465-01). Nella fattispecie il motivo di ricorso non è neppure proposto prospettando vizio nella motivazione, che non è ravvisabile nella sentenza impugnata, il cui contenuto rispetta pienamente il minimo costituzionale entro il quale è limitato il sindacato di legittimità (Cass. Sez. U 7-4-2014 n. 8053 Rv. 629830-01). Infatti, nessuna delle affermazioni del ricorrente rileva al fine di ritenere l’esistenza in capo alla testatrice di un intento di revoca, che la sentenza impugnata ha escluso con ragionamento immune da vizi logici e giuridici, evidenziando la breve distanza intercorsa tra i due successivi codicilli, il contenuto letterale degli stessi -per la manifestazione della volontà di aggiungere disposizioni alle precedenti-, nonché evidenziando la composizione del compendio ereditario e l’età della sorella destinataria della disposizione , che giustificava l’attribuzione a lei dell’usufrutto d ella ‘proprietà calabrese’, che era solo una parte degli immobili
lasciati all’erede universale . Le critiche del ricorrente a queste deduzioni rimangono nell’ambito della critica all’apprezzamento in fatto del giudice di merito, irrilevante in questa sede.
Nessuno degli argomenti del ricorrente è utile neppure al fine di ritenere che erroneamente la sentenza impugnata abbia escluso l’incompatibilità oggettiva tra la previsione del secondo codicillo rispetto a quella del primo codicillo. Infatti, la previsione dell’art. 682 cod. civ., laddove dispone che il testamento posteriore, quando non revoca in modo espresso il precedente, annulla in questo soltanto le disposizioni incompatibili, fissa un principio generale di conservazione delle disposizioni precedenti e di loro coesistenza con quelle nuove, che circoscrive la possibilità di ritenere caducate le une per effetto delle altre al solo caso in cui esse risultino, in concreto, sicuramente inconciliabili (Cass. Sez. 2 17-10-2001 n. 12649 Rv. 549685-01, Cass. Sez. 2 13-11-1991 n. 12113 Rv. 474610-01, Cass. Sez. 2 22-1-1982 n. 423 Rv. 418122-01). Nella fattispecie la sentenza impugnata ha esposto in termini immuni da vizi logici e giuridici le ragioni per le quali ha escluso tale sicura inconciliabilità, per il fatto che nell’asse ereditario non vi erano s oltanto i beni ‘della proprietà calabrese’ , le cui rendite con il primo codicillo sono state attribuite alla sorella NOME; quindi, nel fondo patrimoniale della cui costituzione il secondo codicillo ha onerato l’erede universale erano compresi tutti i beni ereditari , compresa la nuda proprietà della ‘proprietà calabrese’, perché all’erede universale erano stati lasciati tutti gli immobili; i frutti di tutti i beni sarebbero stati da lui destinati ai bisogni della sua famiglia, con eccezione dell ‘usufrutt o della proprietà calabrese destinata a NOME COGNOME. Risulta chiaro che la lettura delle disposizioni testamentarie eseguite dalla sentenza impugnata è pienamente rispettosa del principio di conservazione che deve guidare l’interpretazione dei testamenti successivi, mentre è l’interpretazione del ricorrente che
vuole giungere al risultato di annullare le disposizioni a lui non favorevoli, senza che ne sussistano i presupposti.
3. Con il secondo motivo il ricorrente deduce ‘ ex art. 360 I comma n. 3 c.p.c., in violazione e/o falsa applicazione degli artt. 649, 662, 670, 671, 1362 e 1872, 2° comma, c.c.’ e censura la sentenza impugnata per avere rigettato il suo motivo di appello, con il quale aveva sostenuto che il legato avente a oggetto le ‘rendite della proprietà calabrese’ a favore della sorella NOME non costituiva un legato di usufrutto ma un legato di prestazioni periodiche ex art. 670 cod. proc. civ.
La sentenza impugnata ha dichiarato che l’art. 670 cod. proc. civ. si riferiva all’ipotesi in cui fosse oggetto di legato ‘una somma di denaro o una quantità di altre cose fungibili, da prestarsi a termini periodici’ e cioè un legato di rendita di ammontare determinato, mentre nella fattispecie la disposizione aveva a oggetto tutti i frutti della proprietà calabrese, di ammontare non agevolmente determinabile, di cui la legataria poteva godere. Ha aggiunto che, anche ad accedere alla prospettazione dell’app ellante in ordine alla previsione di legato di prestazioni periodiche, non ne poteva discendere la fondatezza della sua pretesa di ottenere la restituzione delle somme versate da NOME COGNOME alla legataria NOME COGNOME; ciò in quanto ai sensi dell’art . 649 co. 2 cod. civ. il diritto si trasmetteva dal testatore al legatario alla morte del testatore e quindi esattamente NOME COGNOME aveva versato a NOME COGNOME i risultati della gestione degli immobili calabresi nella quota di 1200/40320, pari alla quota di piena proprietà sui beni calabresi in capo a NOME COGNOME fino al decesso di NOME COGNOME.
A fronte di questo contenuto della pronuncia, il ricorrente in primo luogo lamenta che sul fatto che la disposizione testamentaria fosse a titolo di legato di usufrutto non via sia stata alcuna indagine e sostiene
che si è trattato di legato ex art. 670 cod. proc. civ., e cioè legato obbligatorio a esecuzione periodica, che gravava sull’asse ereditario e che il legatario avrebbe dovuto incassare dall’erede .
3.1.Il motivo è infondato in quanto l’interpretazione quale legato di usufrutto della disposizione testamentaria a favore della sorella NOME resiste alle critiche del ricorrente; da ciò consegue che tutte le altre questioni poste dal motivo non devono neppure essere esaminate, in quante svolte sul presupposto che la disposizione integrasse legato di rendita vitalizia.
Richiamando quanto sopra esposto in ordine al fatto che l’interpretazione del contenuto del testamento spetta al giudice di merito, si impone il rilievo che nessuno degli argomenti svolti dal ricorrente è utile a fare emergere una qualche violazione di legge che si sia riflessa sull ‘interpretazione della disposizione testamentaria quale legato di usufrutto anziché quale legato di rendita vitalizia. La sentenza impugnata ha evidenziato che il legato di rendita, secondo la previsione de ll’art. 670 cod. civ. relativa al legato di prestazioni periodiche, si riferisce a legato avente a oggetto somma di denaro o altre cose fungibili da prestarsi in termini periodici, mentre nella fattispecie la volontà testamentaria era di attribuire alla legataria tutti i frutti delle varie proprietà calabresi, di ammontare non agevolmente determinabile e delle quali la legataria poteva godere. In effetti, la rendita vitalizia, che può essere costituita anche per testamento secondo la previsione de ll’art. 1872 co. 2 cod. civ., comporta rapporto obbligatorio che ha per oggetto la prestazione periodica di una determinata somma di denaro o di cose fungibili, la cui durata è collegata a un termine incerto. Nella fattispecie non vi era nella clausola testamentaria alcun elemento indicante la volontà di porre a carico dell’erede universale l’ obbligo di versare alla legataria una somma determinata: la previsione era, testualmente, che la sorella NOME
‘goda delle rendite della proprietà calabrese’ e perciò era tale da manifestare la volontà della testatrice di attribuire alla sorella il diritto di godere di tutti i frutti -le rendite- degli immobili calabresi, senza però attribuirle il potere di disporre degli immobili.
4. Il terzo motivo è proposto ‘ ex art. 360 I comma n. 3 c.p.c., in violazione degli artt. 1284, 1713 e 1714 c.c. e 342 c.p.c.’ e con esso il ricorrente censura la sentenza impugnata nel capo in cui ha dichiarato inammissibile il motivo di appello con il quale aveva chiesto il riconoscimento degli interessi legali e della rivalutazione monetaria sulle somme riscosse, a decorrere dalla data in cui sarebbe dovuta avvenire la consegna delle somme all’avente diritto.
La sentenza impugnata ha considerato che la sentenza di primo grado aveva rigettato la domanda avente a oggetto la rivalutazione monetaria e aveva riconosciuto gli interessi dalla data della divisione avvenuta nel 2008, dichiarando che il debito da frutti civili era di valuta e richiamando precedenti relativi a ipotesi di rendiconto tra coeredi; ha evidenziato che, a fronte di questo contenuto della pronuncia, l’appellante si era limitato a fare genericamente riferimento all’art. 1714 cod. civ., senza neppure accennarne l’incidenza alla fattispecie e senza farsi carico di attingere le specifiche rationes decidendi.
Il ricorrente censura la pronuncia, con limitato riferimento al mancato riconoscimento degli interessi a decorrere dal singolo taglio anziché a fare data dalla divisione, evidenziando di avere dedotto nell’atto di appello che la sentenza di primo grado aveva erroneamente riconosciuto gli interessi dalla data della divisione e aveva richiamato l’art. 1714 co d. civ. quale disposizione applicabile alla rendicontazione; rileva che ciò era sufficiente a devolvere al giudice d’appello la questione, stante la natura di revisio prioris instantiae rivestita dall’appello.
4.1.Il motivo è fondato, laddove censura la pronuncia di dichiarazione di inammissibilità del motivo di appello.
E’ stato enunciato dalla Cassazione anche a Sezioni Unite e deve essere data continuità al principio secondo il quale gli artt. 342 e 434 cod. proc. civ., nel testo formulato dal d.l. 83/2012 conv. con mod. dalla legge 134/2012, vanno interpretati nel sens o che l’impugnazione deve contenere, a pena di inammissibilità, una chiara individuazione delle questioni e dei punti contestati della sentenza impugnata e, con essi, delle relative doglianze, affiancando alla parte volitiva una parte argomentativa che confuti e contrasti le ragioni addotte dal primo giudice, senza che occorra l’utilizzo di particolar i formule sacramentali o la redazione di un progetto alternativo di decisione da contrapporre a quella di primo grado, tenuto conto della permanente natura di revisio prioris instantiae del giudizio di appello, il quale mantiene la sua diversità rispetto alle impugnazioni a critica vincolata (Cass. Sez. U 1312-2022 n. 36481 Rv. 666375-01, Cass. Sez. 6-3 30-5-2018 n. 13535 Rv. 648722-01, Cass. Sez. U 16-11-2017 n. 27199 Rv. 645991-01).
Nella fattispecie la sentenza impugnata, seppure ha richiamato tale principio, non ne ha fatto applicazione perché -per quanto interessa in relazione al contenuto del motivo di ricorso- la circostanza che l’appellante avesse censurato la sentenza impugnata per avere fatto decorrere gli interessi legali sui frutti dalla data della divisione e avesse richiamato, a sostegno della sua domanda di fare decorrere gli interessi dei singoli tagli, la disposizione dell’art. 1714 cod. civ. , era sufficiente a devolvere al giudice d’appello la questione della decorrenza degli interessi. Infatti, con questo contenuto, l’appello conteneva non solo la parte volitiva -volta a ottenere la riforma della sentenza impugnata con il riconoscimento della più favorevole data di decorrenza degli interessi- ma anche la parte argomentativa, fondata sulla tesi che si applicasse alla fattispecie l’art. 1714 cod. civ. e perciò
la decorrenza degli interessi prevista da quella disposizione, dalla data in cui il mandatario avrebbe dovuto consegnare al mandante le somme riscosse per suo conto. La sentenza ha, in sostanza, ritenuto una insufficienza della parte argomentativa, per il fatto che non era stata indicata l’incidenza alla fattispecie dell’art. 1714 cod. civ., ma non si trattava di insufficienza in sé ostativa alla disamina nel merito della questione.
Sussistono i presupposti per decidere ex art. 384 co. 2 cod. proc. civ., rilevando come il ricorrente non individui le ragioni che giustifichino l’applicazione dell’art. 1714 cod. civ. alla fattispecie. L’art. 1714 cod. civ., imponendo al mandatario di corrispondere al mandante gli interessi sulle somme riscosse per suo conto dal giorno in cui avrebbe dovuto fargliele consegna o impiegarle secondo le istruzioni ricevute, opera come sanzione per l’inesatto adempimento dell’incarico (Cass. Sez. 2 21-7-1980 n. 4777 Rv. 408595-01). Quindi, la disposizione presuppone che il soggetto che la invoca, non solo dimostri l’esistenza di un contratto di mandato avente a oggetto anche la riscossione di somme, ma anche che il mandato prevedesse la data di consegna delle somme o che il mandante avesse dato istruzioni per l’impiego. Nessuna allegazione in tal senso risulta avere eseguito in corso di causa il ricorrente, per cui si deve escludere l’esiste nza dei presupposti per la decorrenza degli interessi da lui sostenuta.
5. Il quarto motivo è proposto ‘ ex art. 360, I comma, n.3 c.p.c., in violazione e/o falsa applicazione dell’articolo 2697 e 2729 c.c. In subordine, per altro profilo, la violazione è ascrivibile anche nel diverso paradigma dell’art. 360 I comma n. 5 in combinato disposto con gli articoli 115 e 116 c.p.c. ‘ e con esso il ricorrente censura la sentenza impugnata per avere rigettato il suo primo motivo di appello, con il quale egli aveva censurato la pronuncia di primo grado che aveva inserito, tra gli importi incassati da NOME COGNOME e dei quali lo
stesso doveva rendere conto, il canone di locazione relativo all’anno 2002 dell’officina in Aprigliano condotta in locazione da NOME COGNOME.
La sentenza impugnata, confermando la sentenza di primo grado, ha dichiarato che, nel rendiconto tra coeredi, NOME COGNOME era tenuto a restituire pro quota i frutti da lui incassati, per il periodo della resa dei conti, dal 1988 al 2002; ha rilevato che la prova della riscossione dei canoni corrisposti da NOME COGNOME da parte di NOME COGNOME emergeva dalla deposizione della teste NOME COGNOME amministratrice della comunione, la quale aveva dichiarato di avere appreso dallo stesso COGNOME che NOME COGNOME aveva concluso il contratto di locazione a titolo personale dal 1989, incassando sempre i relativi canoni. Di seguito ha evidenziato che l’appellante NOME COGNOME non aveva negato di avere incassato il canone dell’anno 2002, ma aveva solo dedotto che al momento del deposito del rendiconto il canone non era stato pagato, aggiungendo che a corroborare la conclusione del giudice di primo grado vi erano, oltre gli argomenti di valenza indiziaria presi in esame dal giudice di primo grado, anche la lettera 11-12-1998 sottoscritta dallo stesso NOME COGNOME, avente valenza confessoria in ordine al suo possesso dei locali dell’officina; ha infine rilevato che, se Altomare non avesse ancora corrisposto, nell’anno 2003, il canone relativo all’an nualità 2002, NOME COGNOME lo avrebbe evidenziato, palesando una sopravvenuta morosità del conduttore.
A fronte di questo contenuto della pronuncia, il ricorrente sostiene che la sentenza impugnata, indicando la prova ‘regina’ ai fini dell’incasso del canone 2002 nella lettera 11 -12-1998, sia incorsa in violazione di legge, perché ha voluto sottintendere ch e l’appellante avrebbe dovuto dare la prova negativa del mancato incasso, mentre era in capo agli appellati ex art. 2697 cod. civ. la dimostrazione dell’avvenuto incasso ; rileva che il valore confessorio della lettera,
scritta nel 1998, non poteva riguardare il canone del 2002. Aggiunge che la lettera 11-121998 nulla dice in ordine all’anno 2002 e che vi è stata violazione degli artt. 115 e 116 cod. proc. civ., in quanto non è stata data alcuna risposta in ordine alle contestazioni sulle dichiarazioni della teste inattendibile NOME COGNOME che aveva riferito circostanze de relato. Quindi, sostiene che non sussista alcuna prova dell’incasso della somma e dichiara che l’omessa valutazione degli elementi da lui indicati possa essere inquadrata ex art. 360 co. 1 n. 5 cod. proc. civ., sotto il profilo dell’erroneo apprezzamento della prova.
5.1.Il motivo è inammissibile sotto distinti profili.
In primo luogo, il motivo laddove è proposto ai sensi dell’art. 360 co. 1 n. 5 cod. proc. civ. è inammissibile ai sensi dell’art. 348 -ter co.5 cod. proc. civ. ratione temporis vigente, in ragione dell’introduzione del giudizio d’appello successivamente all’11 -92012 e all’introduzione del giudizio di cassazione prima del 28-2-2023, vertendosi in ipotesi di “doppia conforme”. In tale caso il ricorso per cassazione proposto per il motivo di cui al n.5 dell’art. 360 cod. proc. civ. è inammissibile se non indica le ragioni di fatto poste a base, rispettivamente, della decisione di primo grado e della sentenza di rigetto dell’appello, dimostrando che esse sono tra loro diverse (Cass. Sez. 3 28-2-2023 n. 5947 Rv. 667202 -01, Cass. Sez. 1 22-12-2016 n. 26774 Rv. 64324403, per tutte); nella fattispecie la sentenza di secondo grado ha integralmente confermato la valutazione delle risultanze istruttorie eseguite dal giudice di primo grado, indicando gli ulteriori elementi che ha individuato a conferma della pronuncia di primo grado, per cui si esclude qualsiasi diversità tra le due pronunce.
Inoltre, laddove è proposto ai sensi dell’art. 360 co. 1 n. 3 cod. proc. civ. deducendo la violazione dell’art. 2697 cod. civ., dell’art. 2729 cod. civ. (per di più evocato solo nell’intitolazione del motivo) e degli artt. 115 e 116 cod. proc. civ., il motivo è inammissibile, in quanto non
individua alcuna violazione di tali disposizioni, ma si risolve in una censura sulla complessiva valutazione delle risultanze probatorie, in termini che rimangono estranei al sindacato di legittimità.
Infatti, la violazione dell’art. 2697 cod. civ. è configurabile solo nell’ipotesi in cui il giudice abbia attribuito l’onere della prova a una parte diversa da quella che ne era onerata e non invece nel caso in cui oggetto di censura sia la valutazione che il giudice abbia dato delle prove offerte dalle parti (Cass. Sez. 3 29-5-2018 n. 13395 Rv. 64903801, Cass. Sez. Sez. 3 17-6-2013 n. 15107 Rv- 626907-01). Nella fattispecie il ricorrente sostiene la violazione dell’art. 2697 cod. civ. consistita in una er ronea inversione dell’onere della prova e, diversamente, sulla base della valutazione complessiva delle risultanze probatorie che rimane estranea al motivo come proposto, la sentenza ha ritenuto raggiunta la prova che il canone dell’anno 2002 era stato pagato dal conduttore a NOME COGNOME.
Inoltre, nessuno degli argomenti svolti dal ricorrente è utile a ritenere la violazione dell’art. 115 cod. proc. civ. o dell’art. 116 cod. proc. civ, perché per dedurre la violazione dell’art. 115 cod. proc. civ. occorre denunciare che il giudice, in contraddizione con la disposizione, abbia posto a fondamento della decisione prove non introdotte dalle parti ma disposte di sua iniziativa fuori dei poteri officiosi riconosciutigli (salvo il dovere di considerare i fatti non contestati e la possibilità di ricorrere al notorio), mentre è inammissibile la diversa doglianza che egli, nel valutare le prove proposte dalle parti, abbia attribuito maggiore forza di convincimento ad alcune piuttosto che ad altre prove, essendo tale attività valutativa consentita dall’ art. 116 cod. proc. civ. (Cass. Sez. U 30-9-2020 n.20867 Rv. 659037-01). A sua volta, la doglianza circa la violazione dell’art. 116 cod. proc. civ. è ammissibile solo se si alleghi che il giudice, nel valutare una risultanza probatoria, non abbia operato -in assenza di diversa indicazione normativa-
secondo il suo prudente apprezzamento, pretendendo di attribuirle un altro e diverso valore, oppure il valore che il legislatore attribuisce a una differente risultanza probatoria (come, ad esempio, il valore di prova legale), oppure, qualora la prova sia soggetta a una specifica regola di valutazione, abbia dichiarato di valutare la stessa secondo il suo prudente apprezzamento, mentre, ove si deduca che il giudice abbia solamente male esercitato il suo prudente apprezzamento della prova, la censura è ammis sibile ai sensi dell’art. 360 co.1 n.5 cod. proc. civ. solo nei limiti in cui è ancora consentito il sindacato di legittimità sui vizi di motivazione (Cass. Sez. U 30-9-2020 n. 20867 Rv. 65903702). Nessuna delle deduzioni del ricorrente è nel senso richiesto al fine di fare emergere la violazione o falsa applicazione degli artt. 115 e 116 cod. proc. civ.
6. Il quinto motivo è proposto ‘ ex art. 360 I comma n. 3 c.p.c., in violazione e/o falsa applicazione degli artt. 99, 112 e 263 e ss. c.p.c. in combinato disposto con gli artt. 1102 e ss e 2697 c.c. In subordine, per altro profilo, la violazione è ascrivibile anche nell’alveo di cui all’ art. 360 I comma n. 5 in combinato disposto con gli articoli 115 e 116 e 263 e ss. c.p.c. in combinato disposto con gli artt. 1102 e ss. ‘; con esso il ricorrente lamenta che sia stato rigettato il suo motivo di appello, con il quale aveva censurato la pronuncia di primo grado che aveva posto a suo carico l’importo complessivo di Euro 19.800,00 a titolo di indennità per l’esclusiva occupazione da parte sua dell’appartamento di Aprigliano dal 1992 al 2002.
La sentenza impugnata in primo luogo ha richiamato il principio secondo il quale il coerede che sia nel possesso esclusivo di beni fruttiferi è tenuto al pagamento in favore degli altri coeredi del corrispettivo pro quota di tale godimento, non solo nel caso di cessione del godimento della cosa a terzi ma anche nel caso di godimento diretto, da determinare con riferimento al valore del canone locativo di
mercato. Ha dichiarato che, a provare il godimento esclusivo da parte dell’appellante dell’immobile di Aprigliano, valeva richiamare le sue dichiarazioni confessorie nella lettera 11-12-1998, laddove si dichiarava che NOME COGNOMEdetiene il possesso, che non intende lasciare, sulla casa di Apri gliano’.
A fronte di questo contenuto della pronuncia, il ricorrente dichiara che non vi è mai stata dimostrazione di alcuna occupazione esclusiva, perché NOME COGNOME si è solo assunto i costi di ristrutturazione dell’appartamento per alloggiarvi nelle sue trasferte in Calabria, senza impedire agli altri comproprietari di farne parimenti uso. Quindi sostiene che non vi sia spazio per riconoscere una indennità ai comproprietari per il solo fatto dell’occupazione del bene da parte di un comproprietario, ove l’ occupazione non si connoti di illiceità per superamento dei limiti di cui all’art. 1102 cod. civ.; aggiunge che non valga a dimostrare una illegittima sottrazione da parte del comproprietario delle facoltà di godimento spettanti agli altri comproprietari la lettera 11-12-1998, nella quale COGNOME dichiarava di non voler lasciare il possesso, ma non di proibire ad altri l’utilizzo dell’immobile , e quindi lamenta che la sentenza abbia addossato all’appellante la prova negativa di non avere impedito l’utili zzo agli altri condividenti, aggiungendo che la violazione sia ascrivibile anche al paradigma di cui all’art. 360 co. 1 n. 5 cod. proc. civ.
6.1.Il motivo è infondato laddove deduce violazione di legge.
La sentenza impugnata, dichiarando che era stato provato il godimento esclusivo dell’immobile da parte di NOME COGNOME, ha dimostrato di fare applicazione del principio corretto, secondo il quale, in tema di divisione, in caso di utilizzazione esclusiva del bene comune da parte di un comproprietario, l’occupante è tenuto al pagamento della corrispondente quota di frutti civili ricavabili dal godimento indiretto, nel caso in cui sussista la prova di un impedimento assoluto all’esercizio
delle facoltà dominicali di godimento e disposizione del bene comune spettanti agli altri contitolari o una violazione dei criteri stabiliti dall’art. 1102 cod. civ. (Cass. Sez. 2 8-11-2023 n. 31105 Rv. 669396-01, Cass. Sez. 2 3-7-2019 n. 17876 Rv. 654465-01, Cass. Sez. 2 5-9-2013 n. 20394 Rv. 628074-01).
Diversa questione è quella della prova del fatto che NOME COGNOME abbia effettivamente avuto il godimento esclusivo dell’immobile, che in quanto tale abbia impedito il godimento da parte degli altri comproprietari. Sul punto l’accertamento svolto dalla sentenza impugnata non è attinto in termini ammissibili dal ricorrente, sia per l’inammissibilità del motivo proposto ex art. 360 co. 1 n. 5 cod. proc. civ. in presenza di doppia conforme, sia perché nessuna delle ragioni svolte è utile a fare emergere violazione o falsa applicazione degli artt. 115 e 116 cod. proc. civ., che sussiste solo nei casi individuati da Cass. Sez. U 20867/2020 già richiamata. In termini immuni da qualsiasi vizio logico e giuridico la sentenza impugnata ha ritenuto che l’affermazione dell’appellante nella lettera 11 -12-1998 di avere il possesso dell’immobile e di non avere intenzione di lasciarlo era espressivo di un godimento esclusivo e tale da impedire il godimento altrui; gli argomenti di segno diverso del ricorrente sono volti esclusivamente a ottenere un diverso apprezzamento delle risultanze istruttorie, in modo inammissibile in sede di legittimità.
7.In conclusione il ricorso è integralmente rigettato.
Le spese seguono la soccombenza e sono liquidate in dispositivo, in importo unitario per tutti i controricorrenti difesi dall’avv. NOME COGNOME in quanto non si giustifica la redazione di separati controricorsi per parti aventi la stessa posizione processuale.
In considerazione dell’esito del ricorso, ai sensi dell’art. 13 co . 1quater d.P.R. 30 maggio 2002 n. 115 si deve dare atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente,
di ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso ai sensi del comma 1-bis dello stesso art. 13, se dovuto.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso;
condanna il ricorrente alla rifusione delle spese di legittimità liquidate compensi complessivamente a favore di tutti i controricorrenti difesi dall’avv.
in Euro 200,00 per esborsi ed Euro 5.000,00 per NOME e in Euro 200,00 per esborsi ed Euro 4.100,00 per compensi a favore dell’altro controricorrente NOME, oltre 15% dei compensi a titolo di rimborso forfettario delle spese, iva e cpa ex lege; con distrazione a favore dell’avv. NOME COGNOME dichiaratosi antistatario .
Sussistono ex art.13 co.1-quater d.P.R. 30 maggio 2002 n.115 i presupposti processuali per il versamento da parte del ricorrente di ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso ai sensi del co.1-bis dello stesso art. 13, se dovuto.
Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della seconda sezione