Ordinanza di Cassazione Civile Sez. L Num. 23317 Anno 2025
Civile Ord. Sez. L Num. 23317 Anno 2025
Presidente: COGNOME NOME
Relatore: COGNOME NOME COGNOME
Data pubblicazione: 15/08/2025
ORDINANZA
sul ricorso 21294-2021 proposto da:
NOME COGNOME rappresentato e difeso dagli avvocati NOME COGNOME NOME COGNOME
– ricorrente –
contro
RAGIONE_SOCIALE in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentata e difesa dagli avvocati COGNOME NOME COGNOME NOME COGNOME
– controricorrente –
avverso la sentenza n. 747/2020 della CORTE D’APPELLO di MILANO, depositata il 04/02/2021 R.G.N. 541/2019; udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 13/05/2025 dal Consigliere Dott. NOME COGNOME.
Oggetto
Differenze retributive
R.G.N.21294/2021
COGNOME
Rep.
Ud13/05/2025
CC
FATTI DI CAUSA
Con sentenza n. 97/2019 il Tribunale di Como, in parziale accoglimento del ricorso proposto da NOME nei confronti della RAGIONE_SOCIALE e di COGNOME NOME, condannava la RAGIONE_SOCIALE a corrispondere al ricor rente l’importo di € 10.680 netti e quello di € 6.972,80 lordi, maggiorati di interessi legali dal dovuto al saldo per i titoli specificati in motivazione; accoglieva parzialmente la domanda riconvenzionale dei convenuti per l’importo di € 3.600,00 netti, maggiorato di interessi legali dal dovuto al saldo; compensava gli importi di cui sopra; condannava la RAGIONE_SOCIALE a corrispondere al ricorrente l’ulteriore importo di € 3.402,25, pari alla differenza tra quanto liquidato al Raafat in base al livello I del CCNL di appartenenza anziché al livello H (da riconoscersi a decorrere dal dicembre 2013) dalla Corte d’appello di Milano con sentenza n. 1151/2018 (e dall’ordinanza conclusiva della fase Fornero, confermata con riferimento al licenziamento orale); rigettava per il resto le domande di cui al ricorso e alla memoria difensiva; rigettava la domanda formulata nei confronti di NOME COGNOME
Con la sentenza in epigrafe indicata la Corte d’appello di Milano dichiarava inammissibile l’appello proposto da COGNOME NOME avverso la suddetta sentenza; in parziale riforma della stessa sentenza, respingeva la domanda azionata dal Raafat, avente ad oggetto il pagamento della differenza inerente l’indennità risarcitoria di cui all’art. 18 dello Statuto dei lavoratori; rigettava per il resto l’appello della RAGIONE_SOCIALE contro la medesima sentenza; compensava interamente tra le parti le spese del doppio grado del giudizio.
Per quanto qui interessa, la Corte territoriale, dopo aver diffusamente dato conto: di quanto considerato e deciso dal primo giudice; dei tre motivi di appello della RAGIONE_SOCIALE e di COGNOME NOME; e di come vi avesse resistito il lavoratore COGNOME, disattendeva anzitutto la richiesta, formulata dalla difesa di quest’ultimo, di dichiarare cessata la materia del contendere.
Riteneva, ancora, che doveva essere dichiarato inammissibile l’appello interposto da COGNOME NOME, per difetto d’interesse ad impugnare (essendo stata rigettata in primo grado la domanda del lavoratore nei suoi confronti).
La Corte, inoltre, giudicava ammissibile, ma infondato il primo motivo d’appello della società, atteso che, sulle relative censure articolate in appello, il C.T.U. di primo grado aveva già risposto.
Per la Corte andava disatteso il secondo motivo d’appello, in quanto l’appellante non aveva contestato lo svolgimento, in concreto, delle mansioni svolte dall’appellato, né aveva contestato l’applicabilità alla fattispecie in esame della norma del contr atto collettivo di cui all’art. 47, comma 17.
La Corte riteneva, invece, fondato il terzo motivo d’appello, sul rilievo che la stessa Corte d’appello di Milano, con la sentenza n. 1151/2018, aveva parzialmente riformato la sentenza n. 73/2016 del Tribunale di Como, richiamata dal primo giudice nel presente giudizio, per cui ne derivava l’erroneità del conteggio effettuato dal primo giudice nella determinazione della differenza dovuta tra il livello I e il livello H in relazione alle 5 mensilità relative al licenziamento orale che
sulla base della pronuncia della Corte d’appello di Milano non risultavano dovute.
Infine, per la Corte l’accoglimento del terzo motivo di appello giustificava ex se il rigetto della domanda di condanna per lite temeraria ex art. 96 c.p.c., formulata dall’appellato, e il complessivo esito del giudizio e la reciproca parziale soccombenza giustificavano, altresì, l’integrale compensazione delle spese del doppio grado del giudizio.
Avverso tale decisione NOME ha proposto ricorso per cassazione, affidato a due motivi.
Ha resistito l’intimata società con controricorso.
RAGIONI DELLA DECISIONE
Con il primo articolato motivo il ricorrente denuncia ‘Violazione e falsa applicazione dell’art. 18 commi 1, 2 e 5 dello Statuto dei lavoratori e dell’art. 1423 c.c. (art. 360, comma 1, n. 3, c.p.c.) Motivazione inesistente (art. 360, comma 1, n. 4, c.p.c.).
1.1. Dopo aver riportato stralcio della parte di motivazione censurata, il ricorrente deduce che ‘Il Giudice di seconde cure ha, in primo luogo, fatto pedissequo parziale e come tale incomprensibile riferimento, senza fornire nessuna motivazione e, dunque, in violazione dell’obbligo di motivazione di cui all’art. 360, comma 4, c.p.c., all’erronea interpretazione giuridica dell’art. 18, commi 1, 2 e 5 St. Lav. proposta da controparte’.
1.1. Da diverso punto di vista, deduce che, ‘oltre che priva di motivazione, la decisione in esame è comunque contraria
all’art. 18, commi 1, 2 e 5 St. lav. pro tempore applicabile ed all’art. 1423 c.c.’, tanto in sintesi sull’assunto che la sent. n. 1151/2018 della Corte di Appello di Milano, resa tra le medesime parti attuali, avrebbe confermato le statuizioni originariamente adottate dal Tribunale di Como nell’ordinanza della fase sommaria del procedimento ex lege n. 92/2012, in ordine al licenziamento verbale intimato al lavoratore l’1.12.2015, e quindi anche la condanna della società ‘al pagamento dell’indennità di € 7. 830,00 oltre rivalutazione monetaria e interessi legali dall’1/12/2015 al saldo’.
Con un secondo motivo denuncia ‘Violazione e/o falsa applicazione degli artt. 92 comma 2 c.p.c. e 2233 c.c. (art. 360, comma 1, n. 3, c.p.c.). Motivazione inesistente (art. 360, comma 1, n. 4, c.p.c.)’. Censura la sentenza impugnata anche nella parte in cui ha statuito che ‘Il complessivo esito del giudizio e la reciproca parziale soccombenza giustificano l’integrale compensazione delle spese del doppio grado di giudizio’, ritenendola contraria a taluni precedenti di questa Corte Suprema.
Il primo motivo non può trovare accoglimento in entrambe le sue articolazioni, sopra riassunte.
Per chiarezza, giova premettere che il giudizio definito in secondo grado dalla sentenza attualmente impugnata è caratterizzato da un quasi parallelo procedimento tra le medesime parti attuali (il lavoratore COGNOME e la RAGIONE_SOCIALEr.lRAGIONE_SOCIALE), procedimento, trattato con il rito ex lege n. 92/2012, che aveva ad oggetto la contestuale impugnativa da parte del COGNOME di due licenziamenti, susseguitisi in breve torno di tempo, il
primo, per il lavoratore verbale e intimatogli l’1.12.2015 e, il secondo, intimatogli per iscritto il 17.12.2015.
Invece, il procedimento in cui è stata resa la sentenza qui impugnata aveva ad oggetto, oltre ad una domanda riconvenzionale avanzata dalla società e da COGNOME NOME (quest’ultimo, come già riferito in narrativa, è ormai estraneo al giudizio di cassazione), una serie di domande di condanna del lavoratore, tra le quali, per quanto qui ora interessa, quella di condanna al pagamento ‘per le differenze dovute per il maggior inquadramento per il risarcimento liquidato ex art. 18 St. Lav. come stabilito dalla sentenza n. 73/18 del Tribunale di Como e confermata dalla sent. 1151/2018 della Corte d’Appello di Milano’; decisioni, queste, rese nel quasi parallelo procedimento circa i licenziamenti di cui s’è detto.
Ebbene, come già riferito in narrativa, sempre per quello che interessa, il Tribunale di Como, con sent. n. 97/2019, aveva condannato ‘la RAGIONE_SOCIALE a corrispondere al ricorrente l’ulteriore importo di € 3.402,25, pari alla differenza tra quanto liquidato al Raafat in base al livello I del CCNL di appartenenza anziché al livello H) (da riconoscersi a decorrere dal dicembre 2013) dalla Corte d’Appello di Milano con la sentenza numero 1151/2018 (e dall’ordinanza conclusiva della fase Fornero, conferma ta con riferimento al licenziamento orale)’.
La Corte di merito, poi, ha dato diffusamente conto del terzo motivo d’appello della società che attingeva appunto quest’ultima statuizione e di come il lavoratore avesse replicato in proposito (cfr. pagg. 12-15 della sua sentenza).
Nell’accogliere quel motivo, i giudici di secondo grado hanno considerato: .
Tutto ciò considerato, secondo un consolidato orientamento di questa Corte, più volte confermato anche a Sezioni unite, è denunciabile in cassazione solo l’anomalia motivazionale che si tramuta in violazione di legge costituzionalmente rilevante, in qua nto si riferisce all’esistenza della motivazione in sé, purché il vizio risulti dal testo della sentenza impugnata, a prescindere dal confronto con le
risultanze processuali. Anomalia che si esaurisce nella mancanza assoluta di motivi sotto l’aspetto materiale e grafico, nella motivazione apparente, nel contrasto insanabile tra affermazioni inconciliabili e nella motivazione perplessa ed obiettivamente incomprensibile, esclusa qualunque rilevanza del semplice difetto di sufficienza della motivazione (così, tra le altre, Cass., sez. un., 21.12.2022, n. 37406).
Orbene, a fronte di tali principi di diritto, l’anomalia motivazionale che il ricorrente denuncia in rubrica quale ‘motivazione inesistente’ (variamente declinandola nello sviluppo di tale punto di censura: cfr. pagg. 28-30 del ricorso), non ricorre assolutamente nella specie.
10.1. A prescindere dalla considerazione che il ricorrente in proposito si riferisce anche a quanto dedotto dalla controparte in atto esterno alla decisione (laddove il vizio denunciato deve risultare dal solo testo del provvedimento), la motivazione resa in parte qua dalla Corte di merito, non solo è graficamente presente, ma è anche perfettamente comprensibile, viepiù alla luce delle precedenti parti narrative e motivazionali della stessa sentenza.
In particolare, a fronte della tesi del lavoratore, condivisa dal primo giudice di questo procedimento, secondo la quale la pronuncia di condanna al risarcimento del danno pari a 5 mensilità di retribuzione, ab origine emessa dal giudice della fase sommaria del giudizio relativo ai licenziamenti (orale e per iscritto), ma specificamente riferibile al licenziamento orale, era stata ‘confermata dalla Corte d’appello di Milano con la sentenza n. 1151/2018’, la Corte d’appe llo ha constatato in realtà l’interven uta riforma parziale della sentenza n. 73/2018 del Tribunale di Como, per avere la sentenza d’appello n.
1151/2018 riconosciuto al lavoratore la sola tutela risarcitoria c.d. forte di cui all’art. 18, comma quinto, l. n. 300/1970 in relazione all’illegittimità del licenziamento intimato per iscritto, sicché le ‘5 mensilità relative al licenziamento orale’ non risultavano dovute.
Pertanto, tale ragionamento decisorio, tenendo conto che la Corte, come già notato, aveva dato ampiamente conto delle contrapposte tesi delle parti circa la portata da annettere alla precedente sentenza n. 1151/2018 della stessa Corte a riguardo, è senz’al tro argomentato e chiaro.
Esclusa, perciò, l’anomalia motivazionale denunciata nella parte iniziale del primo motivo, la parte seguente in cui è denunciata la violazione delle norme di diritto di cui agli artt. 18, commi 1, 2 e 5, St. lav. e 1423 c.c. è inammissibile.
A riguardo, occorre specificare che la pur discussa questione della portata da annettere in causa alla sent. n. 1151/2018 della Corte d’appello di Milano non risulta assolutamente essere stata trattata in secondo grado dal punto di vista di un suo passaggio in cosa giudicata formale e sostanziale. Neanche emerge ex actis che le parti e la Corte di merito abbiano fatto il benché minimo cenno alla sentenza di questa Corte Suprema n. 31529/2019 (cui invece pure si riferisce il ricorrente per cassazione: cfr. pagg. 38-39 del ricorso), decisione relativa al ricorso per cassazione e al ricorso incidentale della società appunto contro la sent. n. 1151/2018 della Corte d’appello di Milano.
Quest’ultima sentenza, invece, è stata considerata dalle parti e dalla stessa Corte solo per stabilire se e in che misura avesse fondamento la specifica pretesa azionata dal lavoratore
in questo procedimento volta ad ‘incrementare’ le cinque mensilità di retribuzione già riconosciutegli nel parallelo giudizio a titolo risarcitorio per la nullità del licenziamento orale, in ragione del miglior inquadramento richiesto sempre in questo giudizio.
Osserva allora il Collegio che la Corte d’appello non era certamente chiamata a stabilire se e quale tutela competesse al lavoratore nel diverso giudizio relativo ai due licenziamenti e, segnatamente, non doveva occuparsi della questione se al lavoratore, a fronte del licenziamento orale, spettasse o meno la tutela piena di cui all’art. 18, commi primo e secondo, l. n. 300/1970 in aggiunta o meno a quella prevista dall’art. 18, comma quinto, della stessa legge.
Piuttosto, la Corte d’appello, per quanto già detto, stanti a riguardo apposito motivo d’appello e il dibattito tra le parti, doveva solo fornire una propria interpretazione del decisum della ridetta sentenza (sebbene neppure ne fosse dedotto il passaggio in giudicato) sul punto specifico controverso di cui s’è detto, e tanto ha fatto. Invero, proprio l’attuale ricorrente aveva ribattuto al terzo motivo d’appello, eccependo ‘una non corr etta interpretazione della richiamata sentenza della Corte d’Appello di Milano …’ delle controparti (così in particolare a pag. 14 dell’impugnata sentenza).
Per conseguenza, un’ammissibile censura in sede di legittimità a riguardo doveva rimanere sempre su questo terreno interpretativo di detta sentenza, e non invece delle norme che il ricorrente assume essere state violate o falsamente applicate.
15.1. Nota a riguardo il Collegio che lo svolgimento del primo motivo, dove si sofferma su quanto statuito, prima, nell’ordinanza n. 765/2017 del Tribunale di Como, poi, nella sent. n. 73/2018 del medesimo Tribunale e, infine, nella sent. n. 1151/2018 dell a Corte d’appello di Milano, in base ai relativi testi (cfr. pagg. 33-36 del ricorso), pare porsi, anche se non dichiaratamente, in una tale ottica di una differente interpretazione di tali decisioni.
Va da sé, però, che su questo ben differente piano esegetico i parametri normativi di cui il ricorrente denuncia ora la violazione o la falsa applicazione, e cioè gli artt. 18, commi 1, 2 e 5, l. n. 300/1970 e 1423 c.c., sono assolutamente incongrui e non pertinenti, ed infatti a tali norme la Corte di merito non ha fatto il benché minimo cenno.
16. Il secondo motivo è infondato.
Risulta incensurabile in questa sede di legittimità la compensazione integrale delle spese del doppio grado del giudizio, tra tutte le parti, compreso COGNOME NOME; compensazione integrale che la Corte ha giustificato sul duplice rilievo del ‘complessivo esito del giudizio’ e della ‘reciproca parziale soccombenza’.
In particolare, già in prime cure le diverse domande del lavoratore avevano trovato parziale accoglimento nei confronti della sola società, e non anche contro COGNOME NOME, peraltro, risentendo nel quantum della disposta compensazione giudiziale, in virtù del parziale accoglimento della domanda riconvenzionale dei convenuti; in secondo grado, poi, quanto ottenuto dal lavoratore era stato ulteriormente ridimensionato per effetto dell’accoglimento del terzo motivo d’appello della
società (di cui si è ampiamente detto in precedenza), e la sua domanda di condanna al risarcimento dei danni per lite temeraria ex art. 96 c.p.c. era stata rigettata; sempre in secondo grado, da un lato, l’appello di COGNOME NOME era stato dichiarato inammissibile, mentre il medesimo appello, proposto a mezzo di unico atto anche da parte della società, era stato accolto limitatamente al terzo motivo, ma rigettato per il resto.
Il ricorrente, in quanto soccombente dev’essere condannato al pagamento, in favore della controricorrente, delle spese di questo giudizio di legittimità, liquidate come in dispositivo, ed è tenuto al versamento di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello previsto per il ricorso, ove dovuto.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso. Condanna il ricorrente al pagamento, in favore della controricorrente, delle spese del giudizio di legittimità, che liquida in € 200,00 per esborsi e in € 1.500,00 per compensi professionali, oltre rimborso forfetario delle spese generali nella misura del 15%, IVA e C.P.A. come per legge.
Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis, se dovuto.
Così dec iso in Roma nell’adunanza camerale del 13.5.2025.
La Presidente
NOME COGNOME