Ordinanza di Cassazione Civile Sez. 1 Num. 6938 Anno 2025
Civile Ord. Sez. 1 Num. 6938 Anno 2025
Presidente: COGNOME
Relatore: COGNOME
Data pubblicazione: 15/03/2025
ORDINANZA
sul ricorso n. 11766/2019 r.g. proposto da:
Comune di Montebelluna, in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentato e difeso, tanto congiuntamente quanto disgiuntamente tra loro, per procura speciale in calce al ricorso, dall’Avv. NOME COGNOME e dall’Avv. NOME COGNOME i quali chiedono di ricevere le comunicazioni ai propri indirizzi di posta elettronica certificata indicato, elettivamente domiciliato presso lo studio di quest’ultima sito in Roma, INDIRIZZO
-ricorrente –
contro
RAGIONE_SOCIALE in persona del suo legale rappresentante pro tempore, rappresentata e difesa dall’Avv. NOME COGNOME in virtù di procura speciale in calce al controricorso, elettivamente domiciliata in Roma presso lo studio dell’Avv. NOME COGNOME, sito in Roma, INDIRIZZO
– controricorrente –
e
RAGIONE_SOCIALE in persona del suo legale rappresentante pro tempore, rappresentata e difesa dall’Avv. NOME COGNOME in virtù di procura speciale in calce al controricorso, elettivamente domiciliata in Roma presso lo studio dell’Avv. NOME COGNOME, sito in Roma, INDIRIZZO
-controricorrente-
avverso la sentenza della Corte di appello di Milano, n. 5105/2018, depositata in data 22/11/2018;
udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 26/11/ 2024 dal Consigliere dott. NOME COGNOME
RILEVATO CHE:
Il Comune di Montebelluna stipulava con RAGIONE_SOCIALE il contratto di appalto del 27/3/1997, avente ad oggetto la realizzazione dei lavori edili, ed il contratto del 22/7/1997, per la realizzazione degli impianti termo tecnici della casa di riposo Umberto I.
I lavori termo tecnici venivano ultimati in data 7/9/1998, mentre le opere edili terminavano il 9/11/1998.
Con atto di citazione del 23/12/2002 il Comune di Montebelluna citava dinanzi al Tribunale di Treviso la RAGIONE_SOCIALE (ora RAGIONE_SOCIALE, chiedendo l’accertamento della responsabilità della società RAGIONE_SOCIALE per i vizi e difetti dell’opera nei lavori di ristrutturazione e ampliamento della casa di riposo Umberto I, con condanna della «convenuta» al risarcimento dei danni pari ad euro 86.355,59.
RAGIONE_SOCIALE quale convenuta – si costituiva in giudizio.
Nelle more dello svolgimento del processo con atto notarile del 21/12/2007 RAGIONE_SOCIALE conferiva il ramo d’azienda avente per oggetto gli appalti pubblici, e cioè quello ricomprendente anche il contratto d’appalto oggetto della vertenza promossa dal Comune di Montebelluna, nella RAGIONE_SOCIALE (primo conferimento di azienda).
RAGIONE_SOCIALE quindi, spiegava intervento volontario in giudizio ai sensi dell’art. 111, terzo comma, c.p.c., con atto di intervento depositato in data 11/9/2009.
3.1. Con atto notarile del 6/8/2009 RAGIONE_SOCIALE conferiva il medesimo ramo aziendale in RAGIONE_SOCIALE
RAGIONE_SOCIALE spiegava intervento volontario in giudizio ai sensi dell’art. 111, terzo comma, c.p.c., con la comparsa di costituzione depositata in data 16/10/2009.
In sede di udienza di precisazione delle conclusioni del 30/11/ 2009, oltre che nella successiva udienza di precisione le conclusioni del 20/5/2013, a seguito di un rinvio per l’espletamento di un supplemento di CTU, il Comune di Montebelluna rassegnava le proprie conclusioni del seguente tenore: «accertata e dichiarata la responsabilità della società RAGIONE_SOCIALE (ora RAGIONE_SOCIALE e già RAGIONE_SOCIALE) per i vizi e i difetti dell’opera nei lavori di ristrutturazione ed ampliamento della casa di riposo Umberto I condannare la convenuta al risarcimento dei danni per euro 86.355,59 ».
In sede di comparsa conclusionale, sia il 29/1/2010 che il 18/7/ 2013, il Comune di Montebelluna dava atto di intendere l’espressione tra parentesi «ora RAGIONE_SOCIALE e già RAGIONE_SOCIALE» facendo richiamo «al duplice conferimento d’azienda, precisando che
ai sensi dell’art. 2560 c.c. e dell’art. 111 c.p.c. le tre società in considerazione dovevano essere condannate in solido».
Con la sentenza n. 2511/2013, depositata il 27/12/2013, il Tribunale di Treviso, così decideva: «condanna la convenuta a pagare all’attore la somma di euro 84.947,42 ; condanna la convenuta rimborsare all’attore le spese di lite ; condanna la convenuta rimborsare al terzo chiamato le spese di lite».
Nell’intestazione della sentenza si indicava (per errore) solo la RAGIONE_SOCIALE senza riportare i dati della RAGIONE_SOCIALE, poi RAGIONE_SOCIALE, e della RAGIONE_SOCIALE (prima cessionaria di azienda).
Con atto di precetto, notificato il 17/6/2014 ed il 18/6/2014, il Comune di Montebelluna intimava RAGIONE_SOCIALE (già RAGIONE_SOCIALE) – originaria convenuta nel giudizio dinanzi al Tribunale di Treviso -, RAGIONE_SOCIALE (prima conferitaria del ramo d’azienda) e RAGIONE_SOCIALE (seconda conferitaria del medesimo ramo d’azienda), a pagare, in solido tra loro, la complessiva somma di euro 134.756,85.
Con atti di citazione in opposizione a precetto entrambi del 30/ 6/2014, RAGIONE_SOCIALE – originaria convenuta – e RAGIONE_SOCIALE (prima conferitaria del ramo d’azienda) proponevano opposizione al precetto dinanzi al Tribunale di Milano, per la dichiarazione di nullità del precetto «stante l’insussistenza del diritto del Comune di Montebelluna di procedere in esecuzione forzata nei loro confronti sulla base della sentenza n. 2511/2013 del Tribunale di Treviso, a loro dire recante condanna nei confronti della sola RAGIONE_SOCIALE.
In sostanza, si sosteneva che il giudice del Tribunale di Treviso, nella sentenza richiamata, aveva sì condannato la «convenuta», RAGIONE_SOCIALE già RAGIONE_SOCIALE come si leggeva
nel dispositivo, ma aveva «erroneamente indicato nel frontespizio della sentenza, quale parte convenuta, RAGIONE_SOCIALE benché quest’ultima non la convenuta ma terzo intervenuto volontariamente nel processo».
Pertanto – ad avviso delle opponenti – «il titolo si formato nei confronti della sola RAGIONE_SOCIALE».
8. Il Tribunale di Milano, con sentenza n. 10218 del 19/9/2016, rilevava che «in questa causa non può che prendersi atto del fatto che il titolo esecutivo si è formato nei soli confronti del successore ora RAGIONE_SOCIALE e questo perché l’art. 111 c.p.c. prevede che il titolo esecutivo possa essere pronunciato anche contro il successore a titolo particolare e le conclusioni evidenziano la identità della convenuta ora nella soc. RAGIONE_SOCIALE» e così decideva: «dichiara nullo il precetto notificato dal Comune di RAGIONE_SOCIALE alla soc. RAGIONE_SOCIALE e alla soc. RAGIONE_SOCIALE.
A giudizio del Tribunale, dunque, con le conclusioni rassegnate nel giudizio il Comune «aveva unicamente indirizzato la domanda originariamente svolta nei confronti di RAGIONE_SOCIALE (in seguito denominata RAGIONE_SOCIALE) nei soli confronti di RAGIONE_SOCIALE ora RAGIONE_SOCIALE (già RAGIONE_SOCIALE)».
Per tale ragione, il giudice dell’esecuzione, una volta preso atto che il titolo esecutivo si era formato nei soli confronti del successore a titolo particolare (RAGIONE_SOCIALE) dell’originaria convenuta (RAGIONE_SOCIALE, poi RAGIONE_SOCIALE), «con esclusione di qualsiasi riferimento a ipotesi di responsabilità solidale nei confronti della originaria convenuta e sue ulteriori aventi causa» (cfr. sentenza di appello), aveva dichiarato l’inopponibilità a RAGIONE_SOCIALE e a RAGIONE_SOCIALE RAGIONE_SOCIALE del titolo esecutivo.
9. Il Comune di Montebelluna presentava, dinanzi al Tribunale di Treviso, istanza di correzione di errore materiale ai sensi dell’art. 288 c.p.c., chiedendo la correzione dell’intestazione della sentenza, in quanto nella stessa vi era la mancata indicazione «delle danti causa di RAGIONE_SOCIALE ossia di RAGIONE_SOCIALE, già RAGIONE_SOCIALE
10. Il Tribunale di Treviso respingeva l’istanza con ordinanza dello 11/12/2015, in quanto «la sentenza non contiene nessun errore materiale e riflette esattamente la domanda attorea, come conclusivamente delineata in sede di precisazione delle conclusioni».
In tale provvedimento si evidenziava che «la sentenza rispecchia fedelmente le conclusioni, da cui si ricava senza ombra di dubbio sia sul piano letterale, sia su quello logico – che il soggetto contro cui fu chiesta la condanna è la RAGIONE_SOCIALE quale avente causa dalla RAGIONE_SOCIALE (cfr. ‘RAGIONE_SOCIALE…ora RAGIONE_SOCIALE‘)».
11. Avverso la sentenza del Tribunale di Milano proponeva appello il Comune di Montebelluna sotto quattro distinti profili: a) per avere il Tribunale erroneamente individuato il soggetto condannato con la sentenza n. 2511/13 del Tribunale di Treviso nella sola RAGIONE_SOCIALE, anziché nell’unico soggetto convenuto in quel giudizio (RAGIONE_SOCIALE poi RAGIONE_SOCIALE); b) per avere omesso di considerare, nell’interpretare il titolo esecutivo, i ripetuti riferimenti alla convenuta (RAGIONE_SOCIALE) contenuti nella sentenza n. 2511/13 del Tribunale di Treviso; c) per aver erroneamente valutato la portata delle conseguenze derivanti dal combinato disposto degli articoli 2560 c.c. e 111 c.p.c.; d) per erroneità del frontespizio della sentenza n. 2511/13 del Tribunale di Treviso e delle conseguenze che ne trae la sentenza impugnata.
12. La Corte d’appello di Milano rigettava il gravame.
Esaminava congiuntamente i primi due motivi di impugnazione. Per l’appellante, dunque, con l’espressione «ora RAGIONE_SOCIALE e già RAGIONE_SOCIALE», in realtà, il Comune aveva inteso non già indirizzare la propria domanda nei confronti di RAGIONE_SOCIALE, bensì unicamente ‘riportarsi al fatto dell’intervenuta successione a titolo particolare nel diritto controverso’, non denotando affatto ‘l’intenzione di indirizzare la domanda nei confronti del solo successore a titolo particolare RAGIONE_SOCIALE rinunciando, contro ogni logica e buon senso, alle domande nei confronti di RAGIONE_SOCIALE e di RAGIONE_SOCIALE‘».
Il Comune insisteva nel senso di avere proposto la domanda per chiedere la condanna «solidale di tutte e tre le società coinvolte».
Rilevava la Corte d’appello che, a seguito dell’intervento spiegato volontariamente dai terzi successori (RAGIONE_SOCIALE e RAGIONE_SOCIALE non vi era stata alcuna estromissione della parte originaria, la dante causa (RAGIONE_SOCIALE.
Pertanto, «se ciò è vero, l’intestazione della sentenza pronunciata dal Tribunale di Treviso avrebbe dovuto contenere l’indicazione della parte originaria (oltre a quella delle parti intervenute volontariamente), quale dante causa delle due società succedute a titolo particolare nel diritto controverso, mai estromessa dal giudizio».
Al contrario, precisa la Corte d’appello, «nell’intestazione della sentenza emessa dal Tribunale di Treviso risultava indicata esclusivamente, quale convenuta, RAGIONE_SOCIALE quale avente causa dalla RAGIONE_SOCIALE pur risultando dagli atti che l’unica convenuta era RAGIONE_SOCIALE (poi denominata RAGIONE_SOCIALE), mentre RAGIONE_SOCIALE e RAGIONE_SOCIALE (anche quest’ultima pretermessa nell’intestazione della sentenza) erano terze intervenute volontariamente nel corso del giudizio, quali successore a titolo particolare nel diritto controverso».
La Corte territoriale, quindi, evidenziava che l’appellante aveva tentato di porre rimedio a tale omissione nell’intestazione della sentenza attraverso il procedimento di correzione dell’errore materiale. Tuttavia «tale circostanza avrebbe dovuto essere fatta valere mediante gli ordinari mezzi di impugnazione».
Aggiungeva la Corte d’appello che, una volta passata in giudicato la sentenza del Tribunale di Treviso «nei termini ora esposti», il giudice dell’esecuzione aveva «correttamente rilevato che, nella domanda ivi formulata, non vi è alcun cenno a vincolo di solidarietà tra diversi soggetti, essendone stato individuato uno solo (il successore a titolo particolare) quale destinatario della domanda».
Nella specie, dunque, era ininfluente il richiamo dell’appellante all’art. 111 c.p.c., in quanto, nel caso in esame, non era stata formulata domanda nei confronti della «parte originaria, dante causa», che, del resto, «neppure compar nell’intestazione quale parte del processo».
Di talché, « fronte di titolo formatosi unicamente nei confronti dell’ultimo successore a titolo particolare nel diritto controverso, è preclusa la facoltà di ritenere destinatario della condanna tanto il dante causa originario – ovvero la società convenuta RAGIONE_SOCIALE – quanto il primo successore a titolo particolare nel diritto controverso, RAGIONE_SOCIALE, non operando il disposto dell’art. 111 c.p.c. in assenza di condanna dell’originaria convenuta, allora titolare del diritto controverso».
Del pari ininfluente era il richiamo, nelle conclusioni rassegnate nel giudizio presupposto, al principio di cui all’art. 2560 c.c. «richiamato in questa sede dal Comune».
Avverso tale sentenza ha proposto ricorso per cassazione il Comune di Montebelluna, depositando memoria scritta.
Hanno resistito con controricorso RAGIONE_SOCIALE e RAGIONE_SOCIALE depositando memoria scritta.
CONSIDERATO CHE:
Con il primo motivo di impugnazione il Comune ricorrente deduce la «violazione e falsa applicazione dell’art. 161 c.p.c. e degli articoli 287 e 288 c.p.c. da parte della sentenza della Corte d’appello di Milano n. 5105/2018 laddove afferma che il Comune di Montebelluna avrebbe dovuto impugnare la sentenza n. 2511/13 del Tribunale di Treviso, con riferimento all’art. 360, primo comma, n. 3, c.p.c.».
In particolare, ad avviso del ricorrente non può condividersi la motivazione della sentenza della Corte d’appello, laddove, ha affermato che «l’odierna parte appellante ha ritenuto di poter porre rimedio a tale omissione mediante la procedura della correzione dello errore materiale ma rileva la Corte che, nel caso in esame, l’omessa indicazione della parte nell’intestazione della sentenza impedisce, di fatto, la possibilità di individuare detta parte quale soggetto nei cui confronti la sentenza è stata emessa in presenza di convenuta, ovvero dalla parte destinataria della condanna, individuata in un soggetto diverso dal originaria convenuta. Tale circostanza, tuttavia, avrebbe dovuto essere fatta valere mediante gli ordinari mezzi di impugnazione».
Per il ricorrente l’erronea indicazione delle parti nel frontespizio della sentenza «non ne determina la nullità ai sensi dell’art. 161 c.p.c., ma può essere corretta attraverso la procedura prevista dagli articoli 287 e 288 c.p.c.».
Il motivo è inammissibile.
2.1. Invero, costituisce principio giurisprudenziale di legittimità quello per cui il provvedimento di correzione di errore materiale, avendo natura ordinatoria, non è suscettibile di ricorso per cassazione ex art. 111 Cost. neppure per violazione del contraddittorio, in
quanto non realizza una statuizione sostitutiva di quella corretta e non ha, quindi, rispetto ad essa, alcuna autonoma rilevanza, ripetendo invece da essa medesima la sua validità, così da non esprimere un suo proprio contenuto precettivo rispetto al regolamento degli interessi in contestazione; dall’art. 288, quarto comma, cod. proc. civ. è, infatti, espressamente prevista l’impugnabilità delle «parti corrette», che costituisce rimedio diretto esclusivamente al controllo della legittimità della disposta correzione (Cass., sez. 2, 17 maggio 2010, n. 12034). Pertanto, il procedimento di correzione della sentenza, previsto e disciplinato dall’art. 287 seguenti c.p.c., non costituisce un nuovo giudizio o una nuova fase processuale rispetto a quella in cui la sentenza è stata emessa, ed ha natura amministrativa, in quanto finalizzato solo ad eliminare i difetti di formulazione esteriore dell’atto (Cass., 22 gennaio 2015, n. 207).
2.2.Tale impugnazione, dunque, prevista dall’art. 288, quarto comma, c.p.c., può avere anche lo scopo di verificare se, attraverso il surrettizio ricorso al procedimento di correzione di errori materiali, sia stato violato il giudicato formatosi in base alla sentenza oggetto del procedimento di correzione, in realtà inammissibilmente incisa per errori di giudizio (Cass., 9 settembre 2002, n. 13075; Cass., 12 marzo 2004, n. 5165; Cass., 14 marzo 2007, n. 5950). Lo specifico mezzo di impugnazione di cui all’art. 288, quarto comma, c.p.c. si riferisce alla sola ipotesi in cui, attraverso il surrettizio ricorso al procedimento di correzione, venga modificato il contenuto decisione della sentenza, affetta non da errori materiali o di calcolo, ma da errori di diritto (Cass., sez. L, 24 dicembre 2015, n. 25978). Ne consegue che, in relazione a tale ipotesi il termine di impugnazione decorre dalla notifica del provvedimento di correzione, come precisato dall’art. 288 quarto comma, c.p.c., secondo cui appunto le sentenze possono essere impugnate relativamente alle parti corrette nel ter-
mine ordinario decorrente dal giorno in cui è stata notificata l’ordinanza di correzione (Cass., n. 13075/2002).
Nella specie, invece, l’istanza di correzione materiale è stata rigettata dal Tribunale di Treviso; la sentenza di prime cure non è stata impugnata.
Con il secondo motivo di impugnazione il ricorrente deduce la «violazione e falsa applicazione dell’art. 183, sesto comma, n. 1, c.p.c. e 189 c.p.c. da parte della sentenza della Corte d’appello di Milano n. 5105/2018 laddove afferma che il Comune di Montebelluna avrebbe modificato le originarie conclusioni chiedendo la condanna di RAGIONE_SOCIALE al posto di quella dell’originaria convenuta RAGIONE_SOCIALE, con riferimento all’art. 360, primo comma, n. 3, c.p.c.».
La Corte d’appello ha, infatti, affermato che «il Comune di Montebelluna, aveva modificato, in quel giudizio, le originarie conclusioni chiedendo, in particolare: ‘nel merito: – accertata e dichiarata la responsabilità della società RAGIONE_SOCIALE, ora RAGIONE_SOCIALE e già RAGIONE_SOCIALE».
Pertanto, alla stregua delle conclusioni riportate «il giudice dell’esecuzione ha correttamente rilevato che, nella domanda ivi formulata, non vi è alcun accenno alla vincolo di solidarietà tra diversi soggetti, essendole stato individuato uno solo (il successore a titolo particolare) quale destinatario della domanda».
Tale affermazione – a giudizio del ricorrente – non potrebbe essere condivisa, in quanto ai sensi dell’art. 183 c.p.c. le parti avevano facoltà di modificare le conclusioni solo con la memoria da depositarsi entro il termine all’uopo assegnato dal giudice.
Pertanto, «le conclusioni non potevano più essere modificate successivamente al deposito della memoria ex art. 183 c.p.c. comma 5».
Tra l’altro, per il ricorrente non v’era stata modifica delle conclusioni riportate nell’atto di citazione del 23/12/2002.
In quella sede si era chiesta la dichiarazione di «responsabilità di Moncada per i vizi e difetti dell’opera nei lavori di ristrutturazione», con «condanna» della convenuta al risarcimento dei danni pari ad euro 86.355,59.
Nella memoria ex art. 183, quinto comma, c.p.c., del 24/3/2004, il Comune si era limitato ad insistere per l’integrale accoglimento delle conclusioni già rassegnate, senza apportare alcuna modifica alle stesse.
Vi erano stati poi i due interventi della RAGIONE_SOCIALE Moncada in data 11/9/2009 e della SICIEL in data 16/10/2009.
Nei fogli di precisazione delle conclusioni del 25/11/2009 della 18/5/2013 il Comune aveva rassegnato le seguenti conclusioni: «accertata e dichiarata la responsabilità della società RAGIONE_SOCIALE (ora RAGIONE_SOCIALE e già RAGIONE_SOCIALE) per i vizi e difetti dell’opera nei lavori di ristrutturazione», con «condanna» della «convenuta» al risarcimento dei danni pari ad euro 86.355,59.
Tra l’altro, nelle comparse conclusionali del 29/1/2010 delle 18/ 7/2013, depositate successivamente all’udienza di precisazione delle conclusioni, il Comune aveva «dedicato un intero paragrafo a spiegare che, ai sensi del disposto degli articoli 2560 c.c. e dell’art. 111 c.p.c., la convenuta RAGIONE_SOCIALE e le intervenute RAGIONE_SOCIALE e RAGIONE_SOCIALE dovevano essere condannate in solido a risarcire i danni al Comune di Montebelluna ai sensi degli articoli 2560 c.c. e 111 c.p.c.».
Il Comune ha dunque sempre chiesto «la condanna solidale di tutte e tre le società coinvolte».
Tale domanda sarebbe rimasta «immodificabile» nel successivo svolgimento del processo di prime cure.
Pertanto, il Comune di Montebelluna, in sede di udienza di precisazione delle conclusioni, «non poteva che insistere nella propria domanda di condanna risarcimento dei danni nei confronti della convenuta, RAGIONE_SOCIALE (in precedenza denominata RAGIONE_SOCIALE), precisando nelle comparse conclusionali che dovevano essere condannate in solido anche le intervenute RAGIONE_SOCIALE e RAGIONE_SOCIALE, per il disposto degli articoli 2560 c.c. e 111 c.p.c.».
L’espressione «(ora RAGIONE_SOCIALE e già RAGIONE_SOCIALE)» rappresentava solo «un richiamo al duplice conferimento d’azienda e al duplice intervento in giudizio di cui si è sopra dato conto, come spiegato nelle citate comparse conclusionali».
Il Comune aveva dunque esposto «con chiarezza la volontà di veder condannate tanto la convenuta quanto le intervenute».
Il motivo è infondato.
4.1. Non v’è stata alcuna violazione degli articoli 183 e 189 c.p.c. da parte della Corte d’appello di Milano, in quanto è ben possibile, in sede di precisazione delle conclusioni, anche rinunciare a parte delle domande originariamente articolate con l’atto di citazione e modificate con la memoria di cui all’art. 183 c.p.c., nella versione all’epoca vigente.
Ritiene, infatti, questa Corte che la rinuncia ad una domanda si può configurare soltanto quando la parte, dopo aver formulato determinate conclusioni nel proprio scritto introduttivo, utilizzi la facoltà di precisazione e modificazione delle stesse prevista dall’art. 183, comma 6, c.p.c. ovvero precisi le conclusioni all’udienza ex art. 189 c.p.c., senza riproporre integralmente le conclusioni originarie, in tal modo evidenziando la propria volontà di abbandonare le domande non espressamente riproposte. Nell’ipotesi in cui, invece, il procuratore della parte non si presenti all’udienza di precisazione
delle conclusioni o, presentandosi, non precisi le conclusioni o le precisi in maniera generica, vale la presunzione che la parte medesima abbia voluto tenere ferme le precedenti conclusioni (Cass., 9/7/ 2018, n. 18027; Cass., n. 15860 del 2014; Cass., n. 2093 del 2013).
È, quindi, ben possibile un’eventuale rinuncia alla domanda o a parti della stessa.
Con il terzo motivo di impugnazione il ricorrente deduce la «violazione e falsa applicazione dell’art. 2909 c.c., nonché per errata e contraddittoria motivazione da parte della sentenza della Corte d’appello di Milano n. 5105/2018 in ordine all’affermazione secondo cui il giudicato contenuto nella sentenza n. 2511/2013 del Tribunale di Treviso si sarebbe formato nei confronti di RAGIONE_SOCIALE, con riferimento all’art. 360, primo comma, n. 3, c.p.c.».
Sostiene il ricorrente l’erroneità del passaggio motivazionale della Corte territoriale laddove ha ritenuto che «considerato il passaggio in giudicato della sentenza del Tribunale di Treviso nei termini esposti, il giudice dell’esecuzione ha correttamente rilevato che, nella domanda ivi formulata, non vi è alcun cenno a vincolo di solidarietà tra diversi soggetti, essendone stato individuato uno solo (il successore a titolo particolare) quale destinatario della domanda».
Contesta, altresì, l’ulteriore argomentazione per cui «a fronte di tale titolo formatosi unicamente nei confronti dell’ultimo successore a titolo particolare nel diritto controverso, è preclusa la facoltà di ritenere destinatario della condanna tanto il dante causa originario ovvero la società RAGIONE_SOCIALE – quanto il primo successore a titolo particolare nel diritto controverso, RAGIONE_SOCIALE, non operando il disposto dell’art. 111 c.p.c. in assenza di condanna dell’originaria convenuta, allora titolare del diritto controverso».
La pronuncia della Corte d’appello meriterebbe censura con riferimento «all’interpretazione del giudicato esterno relativo alla sentenza del Tribunale di Treviso».
Ad avviso del ricorrente, il giudice di legittimità «può direttamente accertare l’esistenza e la portata del giudicato esterno con cognizione piena, che si estende al diretto riesame degli atti del processo ed alla diretta valutazione ed interpretazione degli atti processuali, mediante indagini ed accertamenti, anche di fatto, indipendentemente dall’interpretazione data al riguardo dal giudice di merito» (si cita Cass. Sez.U., 28/11/2017 , n. 24664).
In ossequio, poi, al principio di autosufficienza il ricorrente riporta il dispositivo della sentenza del Tribunale di Treviso n. 2511/ 2013, depositata il 27/12/2013, con il quale il Tribunale «condanna la convenuta», ripetendo tale affermazione tre volte.
Ebbene – chiosa il ricorrente – «l’unica società convenuta in detto giudizio la RAGIONE_SOCIALE oggi RAGIONE_SOCIALE».
Pertanto, si deve interpretare il dispositivo in relazione «non solo al frontespizio» (nell’ambito del quale in realtà si indicava, per errore, esclusivamente la seconda conferitaria del ramo d’azienda, ossia la RAGIONE_SOCIALE), «ma alla situazione fattuale complessivamente considerata»; sicché, così facendo, «è fuori di dubbio che la sentenza del Tribunale di Treviso condanni RAGIONE_SOCIALE».
Inoltre, a pagina 3 della sentenza n. 2511 del 2013, del Tribunale di Treviso si legge che «l’attore (quale committente) ha dedotto in giudizio il diritto al risarcimento del danno subito per inadempimento della convenuta alle obbligazioni assunte da quest’ultima (quale appaltatrice) nell’ambito di un complesso rapporto di appalto nascente del 1997. La convenuta resiste alla pretesa».
Anche in questo caso, il contratto d’appalto è stato stipulato con RAGIONE_SOCIALE nel 1997, sicché, a tale data, RAGIONE_SOCIALE e RAGIONE_SOCIALE «non esistevano neppure, essendo state costituite nel 2007 nel 2009, quindi oltre 10 anni dopo».
Per tale ragione, ad avviso del ricorrente – «la convenuta che ha resistito alla pretesa, ancora una volta, può essere solo RAGIONE_SOCIALE».
Di nuovo, pagina 3 della sentenza del Tribunale di Treviso, si legge «la convenuta fu gravemente inadempiente alle obbligazioni su di essa gravanti in qualità di appaltatrice».
A pagina 4 della sentenza si ribadisce che «la convenuta, nei limiti processuali destinati alla cristallizzazione del thema decidendum ha sollevato l’eccezione di ‘prescrizione e/o decadenza delle domande attoree’», sicché, nel riferirsi alla ‘convenuta’ alla sentenza fa univoco riferimento a RAGIONE_SOCIALE
Ulteriore riferimento alla «convenuta» lo si rinviene a pagina 6 della sentenza del Tribunale di Treviso, unica ad aver esercitato l’azione di garanzia nei confronti del direttore dei lavori, terzo chiamato.
Conseguentemente, la sentenza del Tribunale di Treviso, «deve ritenersi aver condannato, oltre alla dante causa RAGIONE_SOCIALE, oggi RAGIONE_SOCIALE, anche le aventi causa RAGIONE_SOCIALE e RAGIONE_SOCIALE, ai sensi e per gli effetti di quanto previsto dal combinato disposto degli articoli 111 c.p.c. e 2560 c.c.
Pertanto, la sentenza estende i suoi effetti nei confronti di RAGIONE_SOCIALE ex se, senza che sia necessario far ricorso allo art. 111 c.p.c.
Infatti, RAGIONE_SOCIALE «è stata parte fin dall’inizio del processo e fin dall’inizio del processo è stata titolare del diritto controverso».
Con la precisazione che RAGIONE_SOCIALE e RAGIONE_SOCIALE «sono successori a titolo particolare nel diritto controverso a seguito dei due conferimenti di ramo d’azienda di cui si è detto, intervenute volontariamente nel processo».
Pertanto, il titolo esecutivo è pienamente valido ed efficace nei confronti di: RAGIONE_SOCIALE oggi RAGIONE_SOCIALE, quale dante causa; RAGIONE_SOCIALE quale prima conferitaria di ramo d’azienda; RAGIONE_SOCIALE quale seconda conferitaria di ramo di azienda.
Il motivo è fondato.
6.1. Anzitutto, si rileva che il motivo è ammissibile, in quanto con riferimento alla richiesta di interpretazione del giudicato proveniente dalla sentenza del Tribunale di Treviso n. 2511 del 2013, depositata il 27/12/2013, il Comune ricorrente ha riportato quasi integralmente il testo di tale decisione.
Trova applicazione, allora, la giurisprudenza consolidata di questa Corte per cui, nel giudizio di legittimità, il principio della rilevabilità del giudicato esterno va coordinato con l’onere di autosufficienza del ricorso; pertanto, la parte ricorrente che deduca l’esistenza del giudicato deve, a pena d’inammissibilità del ricorso, riprodurre in quest’ultimo il testo integrale della sentenza che si assume essere passata in giudicato, non essendo a tal fine sufficiente il richiamo a stralci della motivazione (Cass., sez. 2, 23/6/2017, n. 15737; Cass., sez. 5, 11/2/2015, n. 2617; Cass., sez. 5, 16/7/2014, n. 16227).
Onere ribadito anche da Cass., Sez.U., 21/2/2022, n. 5633, per cui, ai fini della denuncia della violazione, nei giudizi di opposizione all’esecuzione o agli atti esecutivi, dell’art. 2909 c.c. con riferimento
alla cosa giudicata corrispondente al titolo esecutivo giudiziale, il ricorrente ha l’onere, a pena di inammissibilità del ricorso, sia di specifica indicazione ai sensi dell’art. 366, comma 1, n. 4, c.p.c. del precetto sostanziale violato, nei cui limiti deve svolgersi il sindacato di legittimità, sia di specifica indicazione ai sensi dell’art. 366, comma 1, n. 6, c.p.c., della sede nel giudicato del precetto di cui si denuncia l’errata interpretazione e dell’eventuale elemento extratestuale, ritualmente acquisito nel giudizio di merito, che sia rilevante per l’interpretazione del giudicato.
7. Va poi fatta applicazione del principio di diritto pronunciato da questa Corte, a Sezioni Unite, per la quale, posto che il giudicato va assimilato agli “elementi normativi”, cosicché la sua interpretazione deve essere effettuata alla stregua dell’esegesi delle norme e non già degli atti e dei negozi giuridici, essendo sindacabili sotto il profilo della violazione di legge gli eventuali errori interpretativi, ne consegue che il giudice di legittimità può direttamente accertare l’esistenza e la portata del giudicato esterno con cognizione piena che si estende al diretto riesame degli atti del processo ed alla diretta valutazione ed interpretazione degli atti processuali, mediante indagini ed accertamenti, anche di fatto, indipendentemente dall’interpretazione data al riguardo dal giudice di merito (Cass., Sez.U., 28/11/ 2007, n. 24664).
Con la precisazione successiva per cui, in tema di giudizi di opposizione all’esecuzione o agli atti esecutivi, ove risulti denunciata la violazione dell’art. 2909 c.c., con riferimento alla cosa giudicata corrispondente al titolo esecutivo giudiziale, la Corte di cassazione ha il potere/dovere di interpretare il titolo esecutivo se il giudicato somministra il diritto sostanziale applicabile per l’accertamento del diritto della parte istante a procedere a esecuzione forzata o per l’accerta-
mento della legittimità degli atti esecutivi (Cass., Sez. U., n. 5633 del 2022).
Si è aggiunto che il titolo esecutivo giudiziale, ai sensi dell’art. 474, secondo comma, n. 1, cod. proc. civ., non si identifica, né si esaurisce, nel documento giudiziario in cui è consacrato l’obbligo da eseguire, essendo consentita l’interpretazione extratestuale del provvedimento, sulla base degli elementi ritualmente acquisiti nel processo in cui esso si è formato (Cass., Sez. U., n. 5633 del 2022, che richiama Cass., Sez. U., 2/7/2012, n. 11066).
Si è affermato, quindi, che nel giudizio di opposizione all’esecuzione o agli atti esecutivi il giudicato non rileva quale vincolo (esterno) per l’accertamento giurisdizionale, ma quale diritto sostanziale del caso concreto (Cass., Sez. U., n. 5633 del 2022, in motivazione).
7.1. Di qui, anche il rigetto della eccezione di inammissibilità di cui all’art. 348ter c.p.c., nella versione ratione temporis applicabile, in quanto, poiché il motivo di ricorso consiste nella violazione di legge, e segnatamente nella violazione delle regole di interpretazione del giudicato, non risulta applicabile il principio della «doppia conforme di merito».
7.2. In particolare, nella decisione sopra richiamata (Cass. n. 2474 del 2007) si è seguito l’orientamento di cui ad altra precedente pronuncia di questa Corte n. 226 del 2001, per la quale il giudice di legittimità accerta l’esistenza e la portata del giudicato con cognizione piena, che si estende anche al diretto riesame degli atti del processo ed alla diretta loro valutazione e interpretazione mediante indagini ed accertamenti, anche di fatto, indipendentemente dalla interpretazione data riguardo dal giudice del merito».
E ciò, in ragione «della riconosciuta natura pubblicistica dell’interesse al rispetto del giudicato; della ritenuta indisponibilità per le
parti dell’autorità di quest’ultimo; della ravvisata identità dell’operato dei due tipi di giudicato, interno ed esterno; e della inclusione delle correlative questioni nella sfera delle questioni di diritto piuttosto che in quella delle questioni di fatto».
Si è superato, dunque, il diverso orientamento di cui alla sentenza n. 277 del 1999, di questa Corte a Sezioni Unite, secondo cui, invece, l’accertamento e l’interpretazione del giudicato era considerata «attività riservata al giudice del merito, censurabile in cassazione solo per violazione dei principi di diritto in tema di elementi costitutivi della cosa giudicata (art. 2909 c.c.) e per vizi attinenti alla motivazione».
Del resto, l’assimilazione dell’interpretazione del giudicato alla esegesi delle norme piuttosto che quella di negozi giuridici è stata fatta propria da questa Corte anche dalla successiva sentenza, sempre a sezioni unite, n. 13916 del 2006.
Risulta dirimente, per la soluzione della controversia, «l’ineludibile assimilazione del giudicato – per la sua natura (di comando giuridico) e per gli effetti che produce (di dare certezza e stabilità alla res controversa) – agli ‘elementi normativi’» (anche Cass. Sez.U., n. 24664 del 2007).
Pur non negandosi il contenuto composito (fatto e valore giuridico) del giudicato, tuttavia «la considerazione che il giudicato sia regola del caso concreto e non regola astratta circoscrive, bensì, la dimensione portata, per il profilo soggettivo (nei limiti di cui all’art. 2909 c.c.) della regola stessa, ma non autorizza certamente ritenerla dissolta nel fatto, poiché al fatto non potrebbero ricondursi gli effetti precettivi propri della res iudicata » (Cass., Sez. U., n. 13916 del 2006; anche Cass., Sez. U., n. 24664 del 2007).
Si chiarisce, allora, che «il giudicato è tamquam ius », con l’espressa equiparazione tra giudicato sopravvenuto e ius superve-
niens , agli effetti della sua deducibilità e rilevabilità d’ufficio nel giudizio di legittimità (anche Cass. Sez. U., n. 24664 del 2007).
Da ciò consegue che proprio tale innegabile vis normativa del giudicato comporta, come ulteriore corollario, che, nel giudizio di legittimità, per un verso, l’esistenza del giudicato possa essere direttamente rilevata dalla Corte e, peraltro, che l’interpretazione del giudicato debba essere coerentemente operata «alla stregua della interpretazione delle norme e non di quella degli atti e dei negozi giuridici» (Cass., Sez. U., n. 24664 del 2007).
Da ciò discende che, costituendo, a sua volta, l’interpretazione del giudicato operata dal giudice del merito non un apprezzamento di fatto ma, una quaestio iuris , la stessa sia sindacabile, in sede di legittimità, «non per il mero profilo del vizio di motivazione, ma nella più ampia ottica della violazione di legge».
Anche successivamente si è confermato che l’interpretazione del giudicato esterno va condotta alla stregua dell’esegesi delle norme, essendo pertanto sindacabili sotto il profilo della violazione di legge gli eventuali errori interpretativi, con la conseguenza che il giudice di legittimità può direttamente accertare l’esistenza e la portata del giudicato stesso con cognizione piena, che si estende al riesame, alla valutazione ed all’interpretazione degli atti processuali, richiedendosi però – affinché possa ascriversi rilevanza espansiva al giudicato esterno, nei giudizi tra le stesse parti che derivino da una medesima situazione giuridica – la presenza in atti della sentenza che si intenda far valere, munita dell’attestazione dell’intervenuto passaggio in giudicato (Cass., sez. L, 9/9/2008, n. 22883; Cass., sez. 2, 12/6/2018, n. 15339, per cui il giudicato va assimilato gli elementi normativi, sicché gli eventuali errori interpretativi sono sindacabili sotto il profilo della violazione di legge; Cass., sez. 1, 5/10/2009, n. 21200, che consente al giudice di legittimità di accertare direttamente l’esi-
stenza e la portata del giudicato esterno, con cognizione piena, attraverso il diretto esame degli atti del processo e la diretta valutazione e interpretazione degli atti processuali; anche Cass., sez. 5, 7/ 12/2021, n. 38767; di recente anche Cass., sez. 1, 30/6/2023, che, quanto al giudicato endofallimentare, discendente dal decreto di approvazione dello stato passivo, reputa possibile l’interpretazione non con i criteri ermeneutici dettati per le manifestazioni di volontà negoziale, bensì, in via analogica, applicando i principi di cui all’art. 12 c.c., assimilando il provvedimento giurisdizionale, per natura e effetti, gli atti normativi; Cass., sez. 3, 29/11/2018, n. 30838, che qualifica il giudicato esterno come provvisto di vis imperativa).
Da ultimo si ribadisce quanto affermato, proprio in tema di violazione di giudicato nei giudizi di opposizione all’esecuzione o agli atti esecutivi, da Cass., Sez. U., n. 5633 del 2022 (di recente anche Cass., sez. 3, 16/1/2024, n. 1619), con la conseguente possibilità di interpretare il titolo esecutivo costituito dal giudicato, ove risulti denunciata la violazione dell’art. 2909 c.c., anche attraverso gli elementi extratestuali ritualmente acquisiti nel giudizio di merito.
8. Se tutto ciò è vero, allora, la Corte di appello di Milano, nell’interpretare la sentenza del Tribunale di Treviso n. 2511 del 2013, a fronte di una indubbia complessità della vicenda sostanziale e processuale, si è attenuta solo al dato formale costituito dal dispositivo, senza valutare il contenuto del titolo esecutivo, anche attraverso gli elementi, sia contenuti nella motivazione della decisione, sia di natura extratestuale, indicati dal Comune ricorrente.
Tale sentenza nel dispositivo reca effettivamente la condanna nei confronti della «convenuta», ma – proprio alla stregua della complessa vicenda processuale – doveva scrutinarsi se, con tale espressione generica, si voleva indicare solo la seconda conferitaria del ramo d’azienda, ossia RAGIONE_SOCIALE, oppure anche l’originaria dante
causa RAGIONE_SOCIALE ora RAGIONE_SOCIALE con la successiva denominazione del 15/2/2008, o altrimenti la prima conferitaria di ramo d’azienda, ossia la RAGIONE_SOCIALE
Ed infatti, il dubbio interpretativo si desume dai fatti di causa, qui sinteticamente riportati.
Il contratto d’appalto del 27/3/1997 ed il contratto per la realizzazione di impianti termo tecnici del 24/7/1997 sono stati stipulati tra il Comune di Montebelluna e la RAGIONE_SOCIALE
il Comune di Montebelluna ha citato in giudizio con atto del 23/ 12/2002 la RAGIONE_SOCIALE che dunque è sicuramente l’originaria convenuta in giudizio. Tale società, a partire dal 15/2/2008, cambia denominazione, divenendo la RAGIONE_SOCIALE
La domanda proposta nei confronti della società appaltatrice RAGIONE_SOCIALE atteneva a vizi e difetti dell’opera, con richiesta di pagamento della somma di euro 84.947,42.
Tra l’altro, la RAGIONE_SOCIALE oltre a formulare eccezioni preliminari, chiede di essere autorizzata alla chiamata in giudizio del direttore dei lavori.
Successivamente spiega intervento in giudizio in data 11/9/2009 la RAGIONE_SOCIALE, cui la RAGIONE_SOCIALE ha conferito con atto del 21/12/2007 il ramo d’azienda del settore edilizio; subito dopo spiega intervento in giudizio in data 16/10/2009 la RAGIONE_SOCIALE cui la RAGIONE_SOCIALE con atto del 6/8/2009 ha conferito il medesimo ramo aziendale.
In sede di precisazione delle conclusioni, dopo l’udienza ex art. 183, quinto comma, c.p.c., nella versione ratione temporis vigente, il Comune chiede nel merito «accertata e dichiarata la responsabilità della società RAGIONE_SOCIALE, ora RAGIONE_SOCIALE e già RAGIONE_SOCIALE».
Il Tribunale di Treviso, con la sentenza n. 2511 del 2013, condanna «la convenuta a pagare all’attore la somma di euro 84.947,42, oltre alla rivalutazione monetaria secondo gli indici Istat di variazione del costo della vita». Inoltre, il Tribunale «condanna la convenuta rimborsare all’attore le spese di lite». Aggiunge il Tribunale nel dispositivo: «condanna la convenuta rimborsare al terzo chiamato le spese di lite».
9.1. Il titolo giudiziale formatosi nei confronti della dante causa RAGIONE_SOCIALE (la Corte d’appello, invece, nega che tale titolo giudiziale si riferisca alla dante causa RAGIONE_SOCIALE avendo il Comune rinunciato alla domanda nei confronti di essa in sede di precisione le conclusioni) è stato utilizzato in fase esecutiva, con la notificazione dell’atto di precetto, nei confronti non solo della seconda conferitaria d’azienda, RAGIONE_SOCIALE, ma anche nei confronti della prima conferitaria d’azienda RAGIONE_SOCIALE e nei confronti, appunto, della dante causa RAGIONE_SOCIALE poi RAGIONE_SOCIALE, a partire dal 15/2/2008.
L’opposizione al precetto è stata proposta sia dalla originaria dante causa RAGIONE_SOCIALE, poi RAGIONE_SOCIALE, sia dalla prima conferitaria d’azienda RAGIONE_SOCIALE per l’assenza di titolo giudiziale esecutivo emesso nei loro confronti, in quanto il Comune di Montebelluna avrebbe limitato la propria domanda, in sede di precisazione delle conclusioni, esclusivamente nei confronti della seconda cessione d’azienda, ossia la RAGIONE_SOCIALE
A tale ultima società si sarebbe riferito il termine «convenuta», in quanto nell’intestazione della sentenza era riportato «RAGIONE_SOCIALE quale avente causa di Moncata RAGIONE_SOCIALE».
Il Tribunale di Milano ha così ritenuto inopponibile il titolo esecutivo nei confronti dell’originaria dante causa RAGIONE_SOCIALE
poi RAGIONE_SOCIALE, e della prima cessione d’azienda RAGIONE_SOCIALE.
Prima di scendere all’esame del consistente dubbio interpretativo sul contenuto della sentenza del Tribunale di Treviso n. 2511 del 2013, occorre considerare le conseguenze processuali e sostanziali dell’intervento delle due società, ex art. 111 c.p.c., nell’ambito del giudizio originariamente instaurato dal Comune di Montebelluna nei confronti della convenuta, dante causa, RAGIONE_SOCIALE
Invero, l’art. 111 c.p.c. prevede al primo comma che «se nel corso del processo si trasferisce il diritto controverso per atto tra vivi a titolo particolare, il processo prosegue tra le parti originarie».
Il secondo comma dell’art. 111 c.p.c. dispone, poi, che «in ogni caso il successore a titolo particolare può intervenire o essere chiamato nel processo e, se le altre parti vi consentono, l’alienante o il successore universale può esserne estromesso».
Il terzo comma dell’art. 111 c.p.c., quindi, prevede che «la sentenza pronunciata contro questi ultimi spiega sempre i suoi effetti anche contro il successore a titolo particolare ed è impugnabile anche da lui, salve le norme sull’acquisto in buona fede dei mobili e sulla trascrizione».
L’intervento di cui all’art. 111 c.p.c., ovviamente, è applicabile in ogni grado o fase del processo e, quindi, anche nel giudizio di rinvio, senza che vi osti il carattere chiuso di tale giudizio (Cass., sez. 3, 9 aprile 1993, n. 4333).
11.1. Costituisce principio giurisprudenziale consolidato di legittimità quello per cui l a successione per atto tra vivi a titolo particolare nel diritto controverso, disciplinata all’art. 111 cod. proc. civ., concerne la titolarità attiva e passiva dell’azione, e non già la capacità di agire applicata al processo, con la conseguenza che essa non fa venir meno né l’interesse ad agire o a resistere in capo agli originali
attori e convenuti, né la legittimazione dell’originario titolare del diritto. Tale legittimazione, tuttavia, ha portata meramente sostitutiva e processuale, con la conseguenza che gli effetti sostanziali della pronuncia si spiegano solo nei confronti dell’effettivo nuovo titolare, sia o meno il medesimo intervenuto in giudizio (Cass., sez. 3, 23 ottobre 2014, n. 22503; Cass., Sez. U., 3 novembre 2011, n. 22727, circa l’efficacia di titolo esecutivo che la sentenza, pronunciata nei confronti dell’originario convenuto, ha nei confronti del successore a titolo particolare; Cass., sez. 3, 22 marzo 2007, n. 6945; Cass., sez. 1, 13 luglio 2007, n. 15674; Cass., sez. 1, 12 marzo 1999, n. 2200).
Si è anche chiarito che i l trasferimento dell’azienda o di un ramo d’azienda configura una successione a titolo particolare nei rapporti preesistenti il che, sul piano processuale, determina, ai sensi dell’art. 111 cod. proc. civ., la prosecuzione del processo in corso tra le parti originarie, salvo il diritto del successore a titolo particolare di intervenire nel processo o la possibilità di chiamata in causa dello stesso, atteso che detto trasferimento non determina l’estinzione del cedente, che conserva, per espressa disposizione di legge, con l’interesse ad agire e la veste di sostituto processuale dell’acquirente, il potere di esercitare nel processo i diritti di quest’ultimo, fino a quando l’avente causa non abbia esercitato il suo potere di intervento, e il potere di impugnazione, fino a quando tale potere non sia stato esercitato dallo stesso avente causa (Cass., sez. 3, 19/11/ 2007, n. 23936).
Risulta, dunque, del tutto pacifico in giurisprudenza che in caso di cessione di ramo d’azienda ex artt. 2555 e seguenti c.c., trova applicazione l’art. 111 c.p.c., con la conseguenza che il processo prosegue tra le parti originarie, non determinandosi l’estinzione del cedente che conserva l’interesse ad agire e la veste di sostituto processuale dell’acquirente, fermi restando gli effetti della sentenza an-
che nei confronti del cessionario dell’azienda, pure se non intervenuto in giudizio.
L’art. 111 c.p.c., infatti, enuncia una regola di carattere generale per la quale, anche in caso di trasferimento a titolo particolare della res litigiosa nel corso del processo, questo deve proseguire nei confronti dell’alienante, fatta salva la facoltativa possibilità di intervento dell’acquirente, tenuto in ogni caso a risentire degli effetti della pronuncia emessa nei confronti del dante causa (Cass., sez. 6-2, 16/3/ 2022, n. 8624).
Pertanto, si è affermato che, i n tema di cessione di azienda, alla stregua del regime fissato dall’art. 2560, secondo comma, cod. civ., con riferimento ai debiti inerenti all’esercizio dell’azienda ceduta anteriori al trasferimento, allorché la cessione sia avvenuta nel corso di un processo al cui esito sia stata pronunciata una sentenza poi azionata in via esecutiva, è opponibile al cessionario il titolo conseguito dal ceduto nei confronti del cedente, relativo ad un rapporto contrattuale d’impresa non del tutto esaurito (Cass., sez. 3, 12 del 2013, n. 6107).
Ed infatti, in caso di trasferimento d’azienda si realizza una successione a titolo particolare nella generalità dei rapporti preesistenti dal cedente al cessionario; ne consegue che, ove rispetto ad uno dei rapporti sia pendente una controversia, il cessionario che sia intervenuto, ex art. 111 cod. proc. civ., nel processo, accettando il contraddittorio sulle domande formulate verso il suo dante causa e svolgendo difese nel merito, assume la veste di parte processuale in qualità di titolare del diritto in contestazione e non quale terzo, non potendosi qualificare il suo intervento come adesivo dipendente (Cass., sez. L, 24/6/2008, n. 17151).
La sentenza pronunciata nel corso del processo in cui sia intervenuta una parte ex art. 111 c.p.c., in conseguenza del trasferi-
mento della res litigiosa , comporta che la stessa sia efficace, non solo nei confronti del dante causa, che è rimasto parte originaria del processo, ma anche nei confronti degli aventi diritto, ossia dei successori del diritto controverso.
Si è ritenuto, dunque, che l a sentenza di condanna emessa contro una parte, a cui ne è succeduta un’altra, a titolo particolare (art. 111 cod. proc. civ.), nel corso del processo di cognizione, esplichi la sua efficacia, anche di titolo esecutivo, nei confronti di quest’ultima, pur se in essa sentenza non menzionata, e pertanto il pignoramento dei suoi beni non dà luogo all’espropriazione presso terzi (art. 543 cod. proc. civ.) e il creditore non deve instaurare il procedimento di accertamento dell’obbligo ai sensi dell’art. 548 cod. proc. civ., essendo la stessa debitrice, e non terzo (Cass., sez. 3, 13/3/1998, n. 2748).
La sentenza pronunciata, in caso di successione nel processo ex art. 111 c.p.c., ha effetto nei confronti del successore a titolo particolare nella res litigiosa o dubia anche se non ha partecipato al processo. Infatti, si è anche affermato che, in caso di successione a titolo particolare nel diritto controverso, il processo prosegue fra le parti originarie, ma la sentenza ha effetto anche contro il successore a titolo particolare, il quale può intervenire o essere chiamato nel giudizio, divenendone parte a tutti gli effetti. Qualora sia rimasto estraneo al processo, il successore ne subisce gli effetti anche in sede esecutiva, ma è legittimato ad impugnare la sentenza sfavorevole al suo dante causa ovvero ad avvalersene se favorevole. Questa disciplina, che regola gli effetti che incidono sulla situazione sostanziale, non opera con riguardo agli effetti di rito, tra i quali è compresa la condanna alle spese, che riguarda solo le parti processuali. Pertanto, detta condanna non spiega effetti nei confronti del successore a titolo
particolare nel diritto controverso che sia rimasto estraneo al processo (Cass., sez. 3, 31/10/2005, n. 21107).
Più specificamente si è anche ritenuto che l a società di capitali nella quale sia conferita l’azienda di una impresa individuale succede in tutti i rapporti attivi e passivi di quest’ultima. Da ciò consegue che la società nella quale sia confluita l’azienda di altra è soggetta all’esecuzione forzata fondata su un titolo giudiziale pronunciato nei confronti del conferente l’azienda, oltre ad essere legittimata a proporre opposizione all’esecuzione stessa (Cass., sez. 3, 24/4/2008, n. 10676).
Analogamente, i l conferimento di un’azienda individuale in una società di capitali integra una cessione d’azienda e, ove avvenga nel corso del giudizio, configura un’ipotesi di successione a titolo particolare nel diritto controverso, ex art. 111 c.p.c., sicché il conferente conserva la legittimazione processuale, quale sostituto del cessionario, anche per il ricevimento della notificazione degli atti processuali, poiché il processo prosegue tra le parti originarie, senza che l’intervento del successore determini, in mancanza dell’esplicito concorde consenso di tutte le parti e del relativo provvedimento giudiziale, l’estromissione del dante causa (Cass., sez. 5, 21/8/2023, n. 24901; con riguardo al conferimento di azienda, che comporta il subentro della società conferitaria nei contratti ex art. 2558 c.c. cfr. Cass., sez. 3, 26/11/1980, n. 6270; Cass., sez. 1, 21/10/1995, n. 10993; Cass., sez. 1, 26/10/2007, n. 22538).
L’unica ipotesi in cui, in caso di successione del processo a titolo particolare ex art. 111 c.p.c., è possibile limitare la condanna esclusivamente nei confronti della cessionaria d’azienda o, comunque, nei confronti del successore a titolo particolare nella res dubia , è quella in cui la decisione sia pronunciata esclusivamente nei confronti della avente causa e della relativa controparte, determinandosi così un’e-
stromissione implicita del dante causa (Cass., sez. 3, 30/12/2023, n. 36601; Cass., sez. 3, 10/2/2005, n. 2707; Cass., sez. 1, 3/8/ 2007, n. 17060; Cass., sez. 5, 14/5/2007, n. 10955 Cass., sez. 2, 5/8/2010, n. 18248).
Una volta ritenuto assodato che, in caso di cessione d’azienda, e, comunque, di trasferimento della res dubia , il processo prosegue nei confronti della parte originaria, dante causa, ma la sentenza ha effetto, non solo nei confronti della parte originaria (nella specie RAGIONE_SOCIALE poi RAGIONE_SOCIALE), ma anche nei confronti degli aventi causa, e quindi nella specie della prima interventrice, cessionaria d’azienda, RAGIONE_SOCIALE, e della seconda interventore, cessionaria della medesima azienda, RAGIONE_SOCIALE deve accertarsi se il Tribunale di Treviso con la sentenza n. 251 del 2013, abbia in realtà ritenuto che l’attore, ossia il Comune di Montebelluna, abbia, in sede di precisazione delle conclusioni, rinunciato alla domanda nei confronti della dante causa, ossia dalla RAGIONE_SOCIALE ora RAGIONE_SOCIALE
La Corte di appello, dunque, dinanzi alla nebulosità del dispositivo della sentenza del Tribunale di Treviso (condanna la «convenuta»), a fronte di ben tre società coinvolte nel giudizio, e quindi ad una forte incertezza nell’individuazione del contenuto del titolo esecutivo, costituito dalla sentenza passata in giudicato, avrebbe dovuto – esaminando con attenzione anche gli elementi extratestuali «ritualmente acquisiti nel giudizio di merito» -, valutare l’effettivo soggetto destinatario della condanna: se la dante causa RAGIONE_SOCIALE ora RAGIONE_SOCIALE oppure la sola seconda conferitaria RAGIONE_SOCIALE o anche la prima conferitaria RAGIONE_SOCIALE
13.1. La Corte territoriale, in sede di rinvio, dovrà procedere all’esame, non solo del dispositivo della sentenza collegato all’intestazione della stessa («RAGIONE_SOCIALE quale avente causa da Moncada Co-
struzioni»), ma anche della motivazione e degli elementi extratestuali (Cass., Sez. U., 21/2/2022, n. 5633; Cass., sez. 3, 16/1/2024, n. 1619).
L’intestazione della sentenza – come emerge dal contenuto del ricorso per cassazione – è stata erroneamente impostata con l’individuazione esclusivamente della RAGIONE_SOCIALE che, però, in realtà, era la seconda cessionaria del ramo d’azienda, e quindi interventrice in data 16/10/2009 nel processo in corso.
Il dispositivo della sentenza n. 2511 del 2013 del Tribunale di Treviso così afferma «il giudice, definitivamente pronunciando, condanna la convenuta a pagare all’attore la somma di euro 84.947,42»; prosegue, sempre nel dispositivo, con la «condanna convenuta a rimborsare all’attore le spese di lite». Aggiunge la «condanna» della «convenuta» a rimborsare al terzo chiamato le spese di lite».
Tuttavia, risulta evidente l’incertezza ed il dubbio in ordine all’individuazione del soggetto obbligato, qualificato come «convenuta».
Ed infatti, a pagina 3 della sentenza del Tribunale di Treviso n. 2511 del 2013 – ritualmente trascritta quasi integralmente dal Comune ricorrente -, si legge «l’attore (quale committente) ha dedotto in giudizio il diritto al risarcimento del danno subito per inadempimento della convenuta alle obbligazioni assunte da quest’ultima (quale appaltatrice) nell’ambito di un complesso rapporto di appalto nascente del 1997. La convenuta resiste alla pretesa».
Tuttavia, a complicare il procedimento interpretativo sovviene anche la circostanza che l’unico soggetto che poteva aver determinato l’inadempimento contrattuale non poteva che essere la RAGIONE_SOCIALE in quanto la cessione del ramo d’azienda, per la prima volta, è stata effettuata il 21/12/2007 in favore di RAGIONE_SOCIALE
RAGIONE_SOCIALE e, per la seconda volta, il 6/8/2009, in favore di RAGIONE_SOCIALE
Le società RAGIONE_SOCIALE e RAGIONE_SOCIALE sono state, infatti, costituite nelle 2007 e nel 2009, quindi oltre 10 anni dopo i fatti di causa.
Entrambe queste ultime due società non erano neppure state costituite all’epoca degli inadempimenti relativi al contratto del 1997.
Inoltre, a pagina 3 della sentenza del Tribunale di Treviso n. 2511 del 2013 – sempre negli stralci riportati quasi integralmente – si legge ancora che «la convenuta fu gravemente inadempiente alle obbligazioni su di essa gravanti in qualità di appaltatrice come minuziosamente descritto negli elaborati peritali – da cui emerge che la certificazione di ‘fine lavori’ risale al 9/11/9 8».
Di nuovo, restano forti i dubbi, in quanto i lavori relativi al contratto d’appalto sono stati ultimati il 9/11/98, e a quella data non esistevano né la RAGIONE_SOCIALE, quale prima cessionaria d’azienda, né la RAGIONE_SOCIALE, quale seconda cessionaria dell’azienda.
Ancora, a pagina 4 della sentenza del Tribunale di Treviso n. 2511 del 2013, si precisa che «la convenuta, nei limiti processuali destinati alla cristallizzazione del thema decidendum , (termine ex art. 183.5 nella versione vigente ratione temporis ) – ha sollevato l’ eccezione di ‘prescrizione e/o decadenza dalle domande attore’».
Anche in questo caso, il riferimento alla «convenuta» va decifrato con attenzione «dal momento che è proprio nelle pagine 1-3 della comparsa di costituzione e risposta di RAGIONE_SOCIALE dell’ 8/3/2003 che si rinviene detta eccezione di prescrizione/decadenza».
Ancora, a pagina 6 della sentenza del Tribunale di Treviso n. 2511 del 2013 si legge che «la convenuta ha peraltro esercitato un’azione di garanzia nei confronti del direttore dei lavori (terzo chia-
mato), ascrivendogli la responsabilità per le manchevolezze lamentare dall’attore».
Pure in questo caso, sussistono dubbi consistenti per il fatto che il riferimento alla «convenuta» potrebbe essere rivolto alla RAGIONE_SOCIALE proprio perché questa è l’unica società ad aver esercitato detta azione di garanzia.
Tra l’altro, come emerge dagli atti, la sentenza del Tribunale di Treviso non dà nemmeno atto dell’intervento in causa di RAGIONE_SOCIALE e di RAGIONE_SOCIALE, sicché deve valutarsi se, quando nella parte motiva il Tribunale fa riferimento alla «convenuta», possa riferirsi a tali due società intervenute.
14. Senza contare che nella comparsa conclusionale del 29/1/ 2010 il Comune ha espressamente mantenuto ferma la domanda, non solo nei confronti della dante causa RAGIONE_SOCIALE ma anche nei confronti delle due aventi causa RAGIONE_SOCIALE e RAGIONE_SOCIALE, ai sensi dell’art. 2560 c.c. («nel caso in esame, trova senz’altro applicazione dell’art. 2560 c.c., Nel caso de quo , il Comune di Montebelluna non ha mai inteso prestare il proprio consenso alla liberazione dalla responsabilità per i ‘debiti’ ogget to di causa né di RAGIONE_SOCIALE prima né di RAGIONE_SOCIALE, poi. Conseguentemente, queste ultime devono ritenersi obbligate in solido con l’ ultimo ‘acquirente’ del ramo d ‘azienda, ossia di RAGIONE_SOCIALE L’Ill.mo Signor giudice dovrà tener conto, nella decisione della presente causa, delle suddette circostanze al fine di emettere una sentenza in linea con lo stato delle cose che consenta, in caso di vittoria, all’odierno attore di poter agire nei confronti di tutti i soggetti interessati, vale a dire di RAGIONE_SOCIALE, di RAGIONE_SOCIALE e di RAGIONE_SOCIALE ».
La Corte d’appello si è limitata, dunque, ad osservare l’intestazione della sentenza, ove «risultava indicata esclusivamente, quale
convenuta, RAGIONE_SOCIALE quale avente causa dalla RAGIONE_SOCIALE pur risultando dagli atti che l’originaria convenuta era RAGIONE_SOCIALE (poi denominata RAGIONE_SOCIALE), mentre RAGIONE_SOCIALE e RAGIONE_SOCIALE (anche quest’ultima pretermessa nell’intestazione della sentenza) erano terze intervenute volontariamente nel corso del giudizio, quali successore a titolo particolare nel diritto controverso».
La Corte d’appello avrebbe dovuto, invece, interpretare la decisione del tribunale di Treviso, valutando unitariamente, sia l’intestazione della sentenza, erronea – in quanto riportava esclusivamente la seconda cessionaria dell’azienda (RAGIONE_SOCIALE quale avente causa da RAGIONE_SOCIALE, non essendo stata mai estromessa la dante causa originaria RAGIONE_SOCIALE (ora RAGIONE_SOCIALE, e stante la presenza in giudizio anche della prima cessionaria d’azienda, ossia la RAGIONE_SOCIALE RAGIONE_SOCIALE – sia la motivazione della decisione, sia il conseguente dispositivo.
15. La sentenza impugnata deve, quindi, essere cassata, con rinvio alla Corte d’appello di Milano, in diversa composizione, che provvederà anche sulle spese del giudizio di legittimità.
P.Q.M.
accoglie il terzo motivo di ricorso; dichiara inammissibile il primo motivo di ricorso; rigetta il secondo motivo; cassa la sentenza impugnata, in ordine al motivo accolto, con rinvio alla Corte d’appello di Milano, in diversa composizione, cui demanda di provvedere anche sulle spese del giudizio di legittimità.
Così deciso in Roma, nella camera di consiglio del 26 novembre