Ordinanza di Cassazione Civile Sez. 3 Num. 23087 Anno 2025
Civile Ord. Sez. 3 Num. 23087 Anno 2025
Presidente: COGNOME NOME COGNOME
Relatore: COGNOME
Data pubblicazione: 11/08/2025
ORDINANZA
sul ricorso iscritto al n. 7260/2022 R.G. proposto da :
RAGIONE_SOCIALE in persona del legale rappresentante p.t., elettivamente domiciliata p resso lo studio dell’avvocato COGNOME NOME COGNOME che la rappresenta e difende unitamente all’avvocato COGNOME con domicilio digitale come per legge;
-ricorrente-
contro
RAGIONE_SOCIALE in persona del legale rappresentante p.t., elettivamente domiciliata presso lo studio dell’avvocato COGNOME che la rappresenta e difende, con domicilio digitale come per legge;
-controricorrente-
avverso la SENTENZA della CORTE D’APPELLO di ROMA n. 339/2022 depositata il 18/01/2022.
Udita la relazione svolta nella camera di consiglio del 09/06/2025 dalla Consigliera NOME COGNOME
FATTI DI CAUSA
1. Nel novembre 2000, la RAGIONE_SOCIALE (ora RAGIONE_SOCIALE) conveniva in giudizio, dinanzi al Tribunale di Roma, RAGIONE_SOCIALE deducendo di essere stata concessionaria della convenuta sin dal 1984 e che, con comunicazione del 13.11.1997, quest’ultima aveva dichiarato di voler recedere dal contratto di concessione stipulato il 30.9.1996, ai sensi dell’art. 21, comma 1, del contratto, con effetto dal 30.9.1999, al termine del periodo di preavviso contrattualmente previsto.
Esponeva, altresì, che, prima della scadenza di detto termine, la convenuta aveva risolto anticipatamente il contratto, ai sensi del successivo comma 2 dell’art. 21, obbligandosi pertanto al pagamento dell’indennizzo previsto da tale disposizione, come desumibile dalla corrispondenza intercorsa tra le parti (segnatamente: dalla nota del 22.2.1999 sottoscritta da Ford Italia S.p.A. per ricevuta, nonché dalla successiva comunicazione del 5.3.1999).
Chiedeva, pertanto, la condanna della convenuta al pagamento della somma di Lire 515.243.000, oltre interessi legali dalla scadenza al saldo.
Costituitasi in giudizio, RAGIONE_SOCIALE contestava la fondatezza della domanda, sostenendo che dagli scambi epistolari prodotti dall’attrice non risultava alcuna volontà di procedere a un recesso
anticipato ex art. 21, comma 2, bensì unicamente l’intervenuta risoluzione consensuale del contratto.
Il Tribunale di Roma, con sentenza n. 6041/2006, rigettava la domanda proposta dalla RAGIONE_SOCIALE ritenendo che, ai sensi dell’art. 21, comma 2, del contratto, solo RAGIONE_SOCIALE fosse legittimata a recedere anticipatamente, e che la nota del 22.2.1999 proveniente da RAGIONE_SOCIALE integrasse una proposta di scioglimento contrattuale, mai accettata dalla controparte, che si era limitata a sottoscriverla per ricevuta.
Secondo il Tribunale, la successiva comunicazione di Ford del 5.3.1999 conteneva una nuova proposta di risoluzione consensuale anticipata, efficace dal 1.3.1999, senza previsione di indennità, la quale, pur non formalmente accettata, era stata eseguita ai sensi dell’art. 1327 c.c., mediante la restituzione dei veicoli da parte della concessionaria.
Il contratto risultava, dunque, risolto per mutuo consenso ex art. 1372 c.c., senza che maturasse in favore dell’attrice il diritto all’indennità richiesta. In ogni caso, ove non si fosse ritenuta perfezionata la risoluzione consensuale anticipata, il contratto si sarebbe comunque estinto alla data del 30.11.1999, per effetto del recesso ordinario comunicato da Ford Italia S.p.A. il 13.11.1997, non accompagnato da obblighi indennitari.
La Corte d’appello di Roma, con sentenza n. 2990/2013, depositata il 22/05/2013, rigettava l’appello interposto dalla RAGIONE_SOCIALE
La Corte d’appello, nel confermare la decisione di prim o grado, condivideva l’interpretazione degli atti fornita dal Tribunale, osservando che RAGIONE_SOCIALE non aveva mai fatto espresso riferimento a un’indennità e che la riconsegna dei veicoli era avvenuta solo a seguito della disponibilità manifestata da RAGIONE_SOCIALE a una risoluzione consensuale anticipata, anch’essa priva di alcun richiamo a un diritto indennitario.
La Corte evidenziava, inoltre, l’assenza di prova circa l’esecuzione dell’accordo in data anteriore alla comunicazione di Ford del 5.3.1999, rilevando come tale circostanza fosse stata enunciata in modo generico dall’appellante.
Questa Corte, decidendo sul ricorso per cassazione (iscritto al R.G. n. 21234/2013), proposto da RAGIONE_SOCIALE con ordinanza n. 3116/2018, depositata in data 08/02/2018, accoglieva il ricorso e cassava con rinvio la sentenza n. 2990/2013 della Corte d’appello di Roma.
Riassunto il giudizio, con atto notificato il 27.11.2018, la Corte d’appello di Roma, con sentenza n. 339/2022, rigettava l’appello della RAGIONE_SOCIALE e disponeva la compensazione integrale delle spese di lite, comprese quelle del giudizio di legittimità.
Avverso tale sentenza ha proposto ricorso per cassazione RAGIONE_SOCIALE articolando due motivi di censura.
RAGIONE_SOCIALE ha resistito con controricorso.
Il ricorso è stato avviato per la trattazione in camera di consiglio ai sensi dell’art. 380 -bis .1. c.p.c., in prossimità della quale le parti hanno depositato memorie.
RAGIONI DELLA DECISIONE
Con il primo motivo, si denuncia la violazione degli artt. 1362 ss. c.c. in tema di interpretazione del contratto, nonché dell’art. 384, secondo comma, c.p.c., in relazione ai nn. 3, 4 e 5 dell’art. 360 c.p.c., per non essersi la Corte d’appello uniformata ai principi enunciati dalla Cassazione nella ordinanza n. 3116/2018.
La Corte di merito avrebbe completamente travisato il dictum della Corte di Cassazione, la quale aveva già censurato la precedente pronuncia per non aver considerato correttamente il contenuto delle lettere intercorse tra le parti (in particolare, quella del 22.2.1999), in cui la concessionaria RAGIONE_SOCIALE aveva
esplicitamente fatto riferimento al recesso ex art. 21, comma 2, del contratto, norma che prevedeva il pagamento di un’indennità da parte della RAGIONE_SOCIALE.a.
La Cassazione aveva rilevato che la Corte d’appello aveva errato nel limitarsi alla ricerca letterale del termine ‘indennità’, senza tenere conto del rinvio espresso alla clausola contrattuale che la prevedeva. Inoltre, aveva sottolineato che la successiva missiva del 5.3.1999 si poneva chiaramente in risposta a quella del 22 febbraio, come confermato dagli stessi atti processuali.
La Suprema Corte aveva, infine, evidenziato che la Corte territoriale non aveva interpretato ‘l’in contro negoziale alla luce del canone di buona fede ‘ , omettendo di accertare se vi fosse stata, ‘in quell’agire’, una riserva mentale o un comportamento elusivo da parte della Ford, rilevando così una carenza nell’indagine sull’effettiva volontà negoziale.
Sostiene la ricorrente che, se i giudici di merito avessero correttamente interpretato le dichiarazioni intercorse tra le parti, avrebbero dovuto escludere che la comunicazione della Ford del marzo 1999 potesse qualificarsi come proposta di risoluzione consensuale del contratto, essendo già intervenuto il recesso ex art. 21, comma 1, nel novembre 1997.
Parte ricorrente denuncia, inoltre, la omessa applicazione, da parte della Corte capitolina, del canone di buona fede nell’interpretazione del comportamento contrattuale, attribuendo un significato irragionevole alla lettera del 5.3.1999, in quanto non si spiega perché il concessionario, essendo ormai il rapporto contrattuale destinato ad esaurirsi nel novembre 1999, avrebbe dovuto rinunciare anticipatamente alla prosecuzione del rapporto, con conseguente perdita di utili.
La sentenza impugnata si fonderebbe, dunque, su un’interpretazione contraria sia ai criteri ermeneutici dettati dagli
artt. 1362 ss. c.c. sia ai principi di correttezza e buona fede, risultando irragionevole anche sotto il profilo economico-funzionale.
Con il secondo motivo, si denuncia la violazione dell’art. 384 c.p.c., in relazione ai nn. 3 e 4 dell’art. 360 c.p.c., per inosservanza del vincolo derivante dalla sentenza di Cassazione n. 3116/2018.
La Corte di Cassazione aveva, infatti, demandato al giudice del rinvio la valutazione del fatto, già acquisito al processo, secondo cui la concessionaria aveva riconsegnato i veicoli Ford anteriormente alla lettera del 5.3.1999. Tale circostanza, secondo la Corte di legittimità, era rilevante ai fini dell’interpretazione dell’accordo negoziale tra le parti e incompatibile con l’idea che l’accordo si fosse formato solo sulla base della successiva proposta della Ford.
La Corte d’appello, tuttavia, ha escluso l’esistenza del fatto, affermando l’assenza di elementi probatori in tal senso, in aperta violazione dell’art. 384 c.p.c., che impone al giudice del rinvio di uniformarsi al principio di diritto e alle statuizioni contenute nella pronuncia rescindente.
Ne consegue che la Corte territoriale si è illegittimamente sottratta al compito affidatole, omettendo di considerare un fatto ritenuto decisivo dalla Cassazione e ridefinendo i limiti del giudizio di rinvio, in violazione del vincolo conformativo.
I due motivi, che possono essere congiuntamente esaminati per evidente connessione, sono fondati.
La Corte d’appello, nel riesaminare la vicenda a seguito della cassazione con rinvio disposta dalla Suprema Corte con Ordinanza n. 3116 del 08/02/2018, non si è conformata ai principi di diritto ivi enunciati, incorrendo in una violazione dell’art. 384, comma 2, c.p.c., oltre che degli artt. 1362 e ss. c.c. in tema di interpretazione del contratto.
A questo riguardo sono da richiamare le pronunce secondo cui i limiti dei poteri attribuiti al giudice di rinvio sono diversi a seconda
che la pronuncia di annullamento abbia accolto il ricorso per violazione o falsa applicazione di norme di diritto, ovvero per vizi di motivazione in ordine a punti decisivi della controversia, ovvero per entrambe le ragioni: nella prima ipotesi, il giudice deve soltanto uniformarsi, ex art. 384, primo comma, cod. proc. civ., al principio di diritto enunciato dalla sentenza di cassazione, senza possibilità di modificare l’accertamento e la valutazione dei fatti acquisiti al processo, mentre, nella seconda, non solo può valutare liberamente i fatti già accertati, ma anche indagare su altri fatti, ai fini di un apprezzamento complessivo in funzione della statuizione da rendere in sostituzione di quella cassata, ferme le preclusioni e decadenze già verificatesi; nella terza, infine, la sua potestas iudicandi , oltre ad estrinsecarsi nell’applicazione del principio di diritto, può comportare la valutazione ex novo dei fatti già acquisiti, nonché la valutazione di altri fatti, la cui acquisizione, nel rispetto delle preclusioni e decadenze pregresse, sia consentita in base alle direttive impartite dalla decisione di legittimità (così le sentenze Cass., 07/08/2014, n. 17790; Cass., 24/10/2019, n. 27337; Cass., sez. 3, 15/06/2023, n. 17240).
D’altr o canto, c om’è stato più volte ribadito (cfr. Cass., 18/10/2021, n. 28646), il ricorso per cassazione avverso la decisione pronunciata in sede di rinvio implica il potere-dovere della Suprema Corte di interpretare direttamente il contenuto e la portata della propria precedente statuizione, mantenendo la propria decisione entro i limiti fissati dalla legge per il giudizio di rinvio. Esso è, appunto, un giudizio chiuso, «in cui le parti non possono avanzare richieste diverse da quelle già prese né formulare difese, che, per la loro novità, alterino completamente il tema di decisione o evidenzino un fatto ex lege ostativo all’accoglimento dell’avversa pretesa, la cui affermazione sia in contrasto con il giudicato implicito ed interno, così da porre nel nulla gli effetti intangibili della sentenza di cassazione ed il principio di diritto che in essa
viene enunciato non in via astratta ma agli effetti della decisione finale».
La sentenza impugnata, come si dimostrerà in seguito, ha per vero disatteso questi principi.
Nella specie, la Corte d’appello, nel giudizio di rinvio, è incorsa nel medesimo errore già censurato dalla ordinanza n. 3116/2018 di questa Corte, disattendendo le chiare indicazioni interpretative fornite dai Giudici di legittimità. In particolare, il giudice del rinvio ha nuovamente qualificato la lettera del 5 marzo 1999 come una ‘nuova proposta’ di risoluzione anticipata del contratto, priva di qualsiasi richiamo all’indennità prevista dalla clausola contrattuale richiamata dalla concessionaria.
Tale affermazione si pone in aperto contrasto con il dictum della pronunzia di cassazione con rinvio, che aveva già chiarito come la missiva in oggetto (del 5 marzo 1999) si ponesse in rapporto di diretta e logica prosecuzione rispetto alla precedente del 22 febbraio 1999, nella quale la concessionaria aveva manifestato la propria disponibilità ad aderire a una risoluzione anticipata del rapporto ai sensi dell’art. 21, comma 2, del contratto, ossia condizionata al pagamento dell’indennità prevista. La Corte di Cassazione aveva, quindi, chiaramente riconosciuto che tale assetto negoziale presupponeva un essenziale collegamento tra le due comunicazioni e l’esistenza di un’intesa sulla risoluzione consensuale con corresponsione dell’indennizzo.
Sul punto, questa Corte con la citata Ordinanza aveva già censurato la precedente pronunzia della Corte capitolina (sentenza n. 2990/2013 della Corte d’appello di Roma) per non aver tenuto conto proprio del contenuto sostanziale della missiva del 22 febbraio 1999, con la quale la concessionaria aveva richiamato espressamente l’art. 21, comma 2, del contratto, che subordinava il recesso della Ford al pagamento di un’indennità.
In tal senso, così statuiva questa Corte nel 2018: «i è già detto dell’evidente errore nel posporre la riconsegna dei veicoli, avvenuta il 1 marzo, alla lettera Ford del 5 marzo. La sua valorizzazione diviene però solo corollario dell’errore – più grave – commesso dai giudici di merito nel non attenersi alle espressioni contenute nella missiva 22 febbraio. Quest’ultima , infatti, proponeva di dar corso al recesso dal contratto ai sensi dell’art. 21 contr. Conc. Comma II, articolo che prevedeva la possibilità della sola Ford di recedere dal contratto alla condizione di ‘pagare al concessionario una indennità pari a tanti dodicesimi del reddito medio imponibile derivante…’ (ricorso pag. 2 e sentenza del tribunale, richiamata dalla Corte di appello, pag.3). A questa missiva aveva fatto riscontro esplicito quella del 5 marzo, riferita espressamente alla ‘Vostra del 22 febbraio 1999’, ma ritenuta nuova proposta. Ora, la Corte di appello ha trascurato il testo letterale della missiva 22 febbraio nella parte in cui richiamava quella clausola del contratto che prevedeva l’indennità. La Corte scrive infatti che la COGNOME non aveva ‘mai fatto riferimento espresso ad un’indennità’, circostanza che corrisponde al vero se si cercano proprio le parole “un’indennità”, ma che è del tutto smentita dal senso letterale delle parole nella parte in cui richiamavano l’inequivoco testo del comma II dell’art. 21, il quale prevedeva, come si è detto, la corresponsione dell’indennità al concessionario. È quindi chiaro che la Corte di appello non è andata alla ricerca del senso proprio della missiva, ma ha adottato un metodo di lettura (la ricerca materiale del vocabolo ‘indennità’) che è contrario a quello posto dall’art. 1362 c.c., il quale impone di leggere i testi tenendo conto dei rimandi inequivoci che essi fanno ad altri testi comuni alle parti. Se si opera altrimenti, non si rispetta il dovere di indagare ‘il senso delle parole’ (art. 1362 c.c.)» (a pagg. 6 -7 dell’Ordinanza n. 3116 del 08/02/2018 di questa Corte).
In particolare, nel disporre la cassazione con rinvio della sentenza n. 2990/2013 della Corte d’appello di Roma, l’ ordinanza n. 3116/2018 di questa Corte precisava expressis verbis : «il giudice di rinvio dovrà procedere a nuovo complessivo esame della fattispecie, attribuendo adeguato rilievo al canone ermeneutico trascurato e rivedendo le altre omissioni e contraddittorietà della motivazione individuate nei paragrafi che precedono» (a pag. 8 dell’Ordinanza).
Senonché, nonostante la pronunzia rescindente avesse chiaramente indicato i principi giuridici ed i criteri interpretativi cui il giudice del rinvio era invariabilmente tenuto ad attenersi, la Corte capitolina ha apertamente disatteso tali indicazioni, con una motivazione viziata da erronea applicazione dei canoni ermeneutici (artt. 1362 e ss. c.c.; in particolare, l’art. 1366 c.c.) e da palese violazione del vincolo derivante dal perimetro della cognizione del giudice del rinvio segnato dalla sentenza rescindente.
Deve del resto osservarsi che, oltre alla violazione dell’art. 384 c.p.c., nei termini sopra illustrati, la Corte d’appello ha altresì trascurato il canone ermeneutico della buona fede. Ed invero, la Corte territoriale ha omesso ogni indagine sull’effettiva intenzione delle parti, nonostante l’indirizzo giurisprudenziale consolidato ai sensi del quale l’interpretazione del contratto deve avvenire in modo da salvaguardare l’affidamento reciproco e la lealtà contrattuale. Ne è derivata un’interpretazione irragionevole della vicenda, priva di coerenza anche sul piano economico, poiché non è stato considerato illogico che il concessionario potesse rinunciare anticipatamente, senza contropartita alcuna, alla prosecuzione del rapporto fino alla naturale scadenza del preavviso già attivato con la comunicazione del recesso del novembre 1997.
Una tale statuizione si appalesa in contrasto con il fermo principio enunciato dai Giudici di legittimità ai sensi del quale l’obbligo di buona fede oggettiva o correttiva ex art. 1366 c.c. costituisce un
autonomo dovere giuridico, espressione di un generale principio di solidarietà sociale (cfr. Sez. 3, Sentenza n. 13208 del 31/05/2010; Sez. 3, Sentenza n. 20106 del 18/09/2009; Sez. 3, Sentenza n. 5348 del 05/03/2009), che impone di mantenere un comportamento leale, nonché volto alla salvaguardia dell’altrui utilità, nei limiti dell’apprezzabile sacrificio ( Cass., Sez. 3, Sentenza n. 3462 del 15/02/2007). In tal senso, già la Relazione ministeriale al codice civile specifica come la buona fede richiami «nella sfera del creditore la considerazione dell’interesse del debitore e nella sfera del debitore il giusto riguardo all’interesse del creditore». Ciò anche alla luce del dovere di solidarietà, fondato sull’art. 2 Cost., che, inteso in guisa di criterio di reciprocità, impone a ciascuna delle parti di un rapporto obbligatorio il dovere di agire in modo da preservare gli interessi dell’altra.
Sulla base di tali premesse, rilevata la fondatezza del primo e del secondo motivo di ricorso, dev’essere disposta la cassazione della sentenza impugnata in relazione ai motivi accolti, con il conseguente rinvio alla Corte d’appello di Roma, che, in diversa