Ordinanza di Cassazione Civile Sez. L Num. 9080 Anno 2025
Civile Ord. Sez. L Num. 9080 Anno 2025
Presidente: COGNOME NOME
Relatore: NOME COGNOME
Data pubblicazione: 06/04/2025
ORDINANZA
sul ricorso 16226-2022 proposto da:
RAGIONE_SOCIALE in persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, INDIRIZZO presso lo studio dell’avvocato NOME COGNOME che la rappresenta e difende unitamente all’avvocato NOME COGNOME;
– ricorrente –
contro
COGNOME NOMECOGNOME COGNOME NOMECOGNOME COGNOME COGNOME, GENERALI NOEMI, COGNOME NOME, COGNOME NOME, COGNOME, COGNOME, tutti elettivamente domiciliati in ROMA, INDIRIZZO presso lo studio degli avvocati NOME COGNOME, NOME COGNOME, che li rappresentano e difendono;
– controricorrenti –
Oggetto
Qualificazione e costituzione rapporto di lavoro
R.G.N. 16226/2022
COGNOME
Rep.
Ud. 15/01/2025
CC
avverso la sentenza n. 952/2022 della CORTE D’APPELLO di ROMA, depositata il 24/03/2022 R.G.N. 3691/2020; udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 15/01/2025 dal Consigliere Dott. COGNOME
RILEVATO CHE
La Corte di appello di Roma, con sentenza n. 10062/2014, pronunciando sull’appello principale e su quello incidentale, in riforma delle sentenze non definitiva e definitiva del Tribunale di Roma, rigettava integralmente la domanda proposta dai nominati in epigrafe, dipendenti della società RAGIONE_SOCIALE i quali avevano agito per l’accertamento dell’interposizione illecita di manodopera e il riconoscimento della sussistenza del rapporto di lavoro subordinato alle dipendenze della società Cassa Depositi e RAGIONE_SOCIALE con la quale la società RAGIONE_SOCIALE aveva stipulato un contratto di appalto di servizi logistici. Risultava dalla sentenza di appello che la domanda era stata parzialmente accolta in primo grado per il periodo successivo al 12 dicembre 2003, data di trasformazione della Cassa Depositi e Prestiti in società per azioni, e che la pronuncia del Tribunale era stata impugnata in via principale dalla Cassa per ottenere il rigetto integrale della domanda e in via incidentale dai lavoratori per la riforma parziale della sentenza e l’accoglimento della domanda anche per il periodo anteriore al 12 dicembre 2003. La sentenza di appello premetteva che non era pervenuto il fascicolo d’ufficio di primo grado e che tuttavia la causa poteva essere decisa, stante la completezza della documentazione in atti e considerato che, sul contenuto delle deposizioni testimoniali, come riportate nella sentenza impugnata, non erano state formulate specifiche censure. Svolgeva diverse osservazioni e concludeva che la domanda dei lavoratori doveva essere integralmente respinta sulla base dei principi comuni alla legge n. 1369 del 1960 e del d.lgs. 276 del 2003.
La Corte di cassazione, con la sentenza n. 22231/2020, in accoglimento del ricorso presentato dai lavoratori, cassava la citata sentenza della Corte territoriale, rinviando per un riesame dei proposti
gravami. In sede di legittimità si deduceva che la sentenza impugnata non solo non recava alcuna descrizione della vicenda sostanziale e processuale, né riferiva del contenuto della sentenza di primo grado e dei motivi di appello proposti dall’appellante principale Cassa Depositi e Prestiti, ma l’intero impianto argomentativo sembrava ipotizzare un gravame proposto da lavoratori completamente soccombenti quanto alla sussistenza della interposizione fittizia, laddove l’esito del giudizio di primo grado, di cui dava conto la stessa sentenza impugnata, aveva visto gli stessi vittoriosi sul punto. Infatti, si sottolineava che il Giudice di primo grado aveva riconosciuto la sussistenza del rapporto di lavoro alle dipendenze dalla società committente, anche se (per alcuni) da una data diversa da quella rivendicata. Sul presupposto giuridico che doveva ritenersi affetta da nullità ai sensi dell’art. 132, secondo comma, n. 4 cod. proc. civ. la sentenza che, omettendo il contenuto informativo, risultava avulsa dalla concreta realtà processuale e dando atto che la sentenza di appello, pur precisando che in primo grado vi era stata un’istruttoria e che il contenuto delle deposizioni testimoniali non era stato censurato dalle parti, aveva affermato di avere valutato anche le testimonianze “rese in altri identici giudizi”, senza spiegare le ragioni per cui occorresse attingere ad altre fonti per la ricostruzione in fatto della vicenda, peraltro omettendo di precisare gli estremi dei diversi giudizi e il contenuto delle deposizioni così acquisite, si rilevava con la pronuncia rescindente che, nel caso di specie, la Corte di appello, mancando di chiarire il contenuto dell’una e dell’altra istruttoria, era giunta ad accomunare in un esito sfavorevole anche le deposizioni testimoniali acquisite nel primo grado – sul cui contenuto, riferiva la stessa Corte, non erano state formulate specifiche censure dalle parti -, senza chiarire i motivi per cui avrebbe errato il Tribunale nel fondare su tali deposizioni la sentenza di accoglimento della domanda. In mancanza di spiegazioni, la Corte di legittimità precisava che la sentenza di secondo grado sembrava aderire in modo pedissequo non già ad una diversa soluzione su questione di diritto altrove prospettata, ma ad una diversa ricostruzione in fatto mutuata da altre
fonti conoscitive, non meglio identificate, di segno diverso da quelle sulla cui base il giudizio di primo grado si era fondato; la sentenza non chiariva, poi, in che modo una determinata ricostruzione in fatto della vicenda oggetto di causa mutuata da altre fonti istruttorie, estranee al giudizio in corso, potesse valere a sorreggere il decisum e giustificare la riforma della pronuncia gravata, invece basata sulle prove acquisite nel giudizio di cui si discute. In conclusione, i giudici di legittimità reputavano che la motivazione della sentenza impugnata doveva ritenersi apparente perché era del tutto inidonea a consentire l’individuazione dell’iter logico seguito dal giudice nel decidere le opposte impugnazioni, in relazione alle questioni devolute in appello in rapporto a quanto deciso dal primo giudice.
3. Riassunto il giudizio, la Corte di appello di Roma, in diversa composizione, ha ritenuto, in considerazione della peculiarità della istruttoria svolta, differente da altre controversie su analoghe vicende, che erano emersi plurimi indizi e prove della mancanza di genuinità dei contratti di appalto intercorsi tra la Cassa Depositi e Prestiti e la Rotoclass relativamente i lavoratori di cui al presente giudizio, i quali avevano prestato la propria attività in servizi ulteriori ovvero in periodi non coperti dai contratti stipulati tra le parti; da ciò derivava la sussistenza dei presupposti del divieto di intermediazione di manodopera dal momento che la reale organizzazione della prestazione e l’assoggettamento dei dipendenti al potere direttivo e di controllo venivano esercitati dall’impresa appaltante. La medesima Corte ha reputato, altresì, corretta la decisione del primo giudice che aveva comunque riconosciuto la costituzione di un rapporto di lavoro di fatto dal 12.12.2003, vale a dire successivamente alla trasformazione della Cassa Deposito e Prestiti in società per azioni; ha, infine, confermato la statuizione di condanna della Cassa Depositi e Prestiti al rimborso delle spese in favore degli originari ricorrenti, compensando tutte le altre per la quantità di decisioni di merito di segno opposto adottate su analoghe vicende.
Avverso tale ultima sentenza la Cassa Deposito e Prestiti spa ha proposto ricorso per cassazione affidato a quattro motivi cui gli intimati hanno resistito con controricorso.
Le parti hanno deposito memorie.
Il Collegio si è riservato il deposito dell’ordinanza nei termini di legge ex art. 380 bis 1 cpc.
CONSIDERATO CHE
I motivi possono essere così sintetizzati.
Con il primo motivo si denuncia la violazione dell’art. 393 cpc e 24 Cost., in relazione all’art. 360 co. 1 n. 3 e n. 4 cpc, per avere la Corte territoriale completamente distorto la natura e la funzione del giudizio di rinvio, quale delineato dal codice di rito, avendo richiamato più volte la pronuncia di primo grado che, riformata a seguito del primo appello, doveva considerarsi tamquam non esset e definitivamente caducata, e non avendo proceduto ad un diretto esame delle domande delle parti, come sollecitato in sede di riassunzione.
Con il secondo motivo si censura la violazione e falsa applicazione, ai sensi dell’art. 360 co. 1 n. 3 cpc, dell’art. 1 della legge n. 1369/1960 e degli artt. 5 e 6 della legge n. 70/1975, per non avere considerato la Corte di appello condizione ostativa all’applicazione della presunzione ex lege la natura di ente pubblico della Cassa Depositi e Prestiti conservata sino al 12.12.2003 e dell’art. 29 D.lgs. n. 276/2003, per avere ritenuto la titolarità dei personal computers forniti dalla Cassa elemento di i lliceità dell’appalto anche con riferimento ai ricorrenti assunti dopo il 24.10.2003.
Con il terzo motivo si obietta la violazione dell’art. 29 del D.lgs. n. 276/2003 e dell’art. 1655 cc, ai sensi dell’art. 360 co. 1 n. 3 cpc, per non avere la Corte distrettuale considerato, nella valutazione di liceità dell’appalto, l’elemento decisivo dell’assunzione del rischio di impresa connesso all’esecuzione del servizio da parte della RAGIONE_SOCIALE.
Con il quarto motivo si lamenta la violazione dell’art. 360 co. 1 n. 5 cpc, per omesso esame dei fatti decisivi oggetto di discussione tra le parti, per non avere la Corte capitolina valutato, nelle difese di
essa ricorrente, le contestazioni in ordine all’asserita estraneità delle mansioni svolte dai ricorrenti rispetto ai contratti di appalto.
Il primo motivo non è fondato.
E’ corretto quanto sostiene il ricorrente in ordine al fatto che la sentenza di appello, che abbia riformato la pronuncia di primo grado, qualora sia a sua volta cassata con rinvio, non determina la reviviscenza della prima sentenza (Cass. n. 16934/2013; Cass. n. 29021/2018), ma, va specificato che, nella fattispecie in esame, la sentenza del giudice di rinvio, la quale non si sostituisce ad altra precedente pronuncia ma statuisce direttamente sulle domande delle parti, pur richiamando la decisione del Tribunale (cfr. Cass. n. 26935/2020), ha analizzato le risultanze istruttorie acquisite così procedendo ad una autonoma valutazione e ad una propria delibazione sugli atti processuali senza incorrere in alcuna delle violazioni denunciate in tema di funzione del giudizio di rinvio.
Il secondo, il terzo ed il quarto motivo, da esaminare congiuntamente per connessione logico-giuridica, sono anche essi infondati.
Invero, le censure in essi contenute “sotto l’apparente deduzione del vizio di violazione e falsa applicazione di legge, di mancanza assoluta di motivazione e di omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio, degradano in realtà verso l’inammissibile richiesta a questa Corte di una rivalutazione dei fatti storici da cui è originata l’azione”, travalicando “dal modello legale di denuncia di un vizio riconducibile all’art. 360 c.p.c., perché pongono a loro presupposto una diversa ricostruzione del merito degli accadimenti” (cfr. Cass. SS.UU. n. 33476 del 2019 e n. 33373 del 2019) che hanno condotto, nel caso de quo , la Corte capitolina, quale giudice di rinvio, a ritenere la sussistenza di plurimi indizi e prove della mancanza di genuinità dei contratti di appalto intercorsi tra la odierna ricorrente e la RAGIONE_SOCIALE: indizi e prove non interamente emersi negli altri giudizi, relativi ai medesimi appalti, così spiegando la difformità della decisione adottata rispetto alle altre.
Inoltre, la Corte territoriale ha operato l’accertamento sulla genuinità degli appalti avendo riguardo sia ai lavoratori per i quali la valutazione andava effettuata ai sensi della legge n. 1369/1960, sia per quelli per i quali vigeva il regime di cui al D.lgs. n. 276/2003, in relazione al quale è stato ritenuto estremamente significativo che i necessari P.C. non fossero stati forniti dalla RAGIONE_SOCIALE anche ai dipendenti successivamente assunti.
Si verte in presenza di accertamenti di fatto, adeguatamente motivati, in virtù dei quali è stata esclusa che vi fosse stata una reale organizzazione ed una direzione del personale da parte dell’appaltatrice, ricorrendo quindi, i presupposti del divieto di interposizione.
Quanto, poi, alla doglianza relativa alla questione che alla Cassa Depositi e Prestiti, essendo divenuta spa solo nel dicembre del 2003, era ostativa l’applicazione della legge n. 1369/1960 per la natura pubblica di esso Ente, deve darsi atto che la Corte territoriale ha correttamente accertato, in un contesto in cui il carattere imprenditoriale o meno della Cassa Depositi e Prestiti prima della trasformazione non era venuto in rilievo, la sussistenza del fenomeno dell’interposizione e dell’intermediazione nelle prestazioni di lavoro alla luce di tale disciplina legislativa, facendo poi decorrere la conversione dei rapporti di lavoro, per i dipendenti che avevano iniziato a lavorare prima della trasformazione, da quella data, e per gli altri dalle date successive rapportate ai rispettivi contratti di assunzione, in ossequio alle disposizioni normative ratione temporis vigente.
Alla stregua di quanto esposto, il ricorso deve essere rigettato.
Al rigetto segue la condanna della ricorrente al pagamento delle spese del presente giudizio di legittimità che si liquidano come da dispositivo.
Non sussistono i presupposti per la invocata responsabilità della Cassa Depositi e Prestiti ex art. 96 cpc, né ai sensi del comma 1, perché non risulta che la ricorrente abbia agito o
resistito in giudizio con mala fede o colpa grave, né ai sensi del comma 3 dello stesso articolo, per non avere abusato dello strumento processuale, in quanto non risulta che essa abbia agito in modo scorretto, senza tenere conto degli interessi confliggenti in gioco, sacrificandoli ingiustificatamente o sproporzionalmente in relazione alla utilità effettivamente conseguibile (Cass. n. 26545/2021; Cass. n. 25041/2021).
Ai sensi dell’art. 13, comma 1 quater, del DPR n. 115/02, nel testo risultante dalla legge 24.12.2012 n. 228, deve provvedersi, ricorrendone i presupposti processuali, sempre come da dispositivo.
PQM
La Corte rigetta il ricorso. Condanna la ricorrente al pagamento delle spese del presente giudizio che liquida in euro 8.000,00 per compensi, oltre alle spese forfettarie nella misura del 15 per cento, agli esborsi liquidati in euro 200,00 ed agli accessori di legge, con distrazione in favore dei Difensori dei controricorrenti. Ai sensi dell’art. 13, comma 1 quater, del DPR n. 115/02 dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello previsto per il ricorso, a norma del comma 1 bis dello stesso art. 13, se dovuto.
Così deciso in Roma, nella camera di consiglio, il 15 gennaio 2025
La Presidente
Dott.ssa NOME COGNOME