Ordinanza di Cassazione Civile Sez. 1 Num. 2346 Anno 2024
Civile Ord. Sez. 1 Num. 2346 Anno 2024
Presidente: COGNOME NOME
Relatore: COGNOME
Data pubblicazione: 24/01/2024
ORDINANZA
sul ricorso iscritto al n. 25385/2019 R.G. proposto da COGNOME NOME, rappresentato e difeso dall’AVV_NOTAIO, con domicilio eletto in RAGIONE_SOCIALE, INDIRIZZO;
-ricorrente – contro
RAGIONE_SOCIALE, in qualità di mandataria dell’RAGIONE_SOCIALE, e RAGIONE_SOCIALE, in qualità di mandataria della RAGIONE_SOCIALE;
-intimate – avverso la sentenza della Corte d’appello di RAGIONE_SOCIALE n. 742/19, depositata il 30 gennaio 2019.
Udita la relazione svolta nella camera di consiglio del 18 ottobre 2023 dal Consigliere NOME COGNOME.
FATTI DI CAUSA
NOME COGNOME, in proprio e in qualità di erede con beneficio d’inventario di NOME COGNOME, convenne in giudizio l’RAGIONE_SOCIALE, in qualità di mandataria dell’RAGIONE_SOCIALE, proponendo opposizione al decreto ingiuntivo n. NUMERO_DOCUMENTO/12, emesso il 30 novembre 2012, con cui il Tribunale di RAGIONE_SOCIALE aveva intimato ad esso opponente ed alla sua dante causa, in qualità di fideiussori della RAGIONE_SOCIALE, il pagamento della somma di Euro 103.554,20, oltre interessi, a titolo di saldo debitore di un conto corrente intrattenuto dalla debitrice principale con la Banca RAGIONE_SOCIALE, dante causa dell’RAGIONE_SOCIALE.
A sostegno della domanda, l’opponente eccepì la nullità del decreto ingiuntivo, in quanto emesso successivamente al decesso dell’COGNOME, la decadenza della Banca dalla garanzia, ai sensi dell’art. 1957 cod. civ., e l’illegittimità della capitalizzazione trimestrale degl’interessi.
Si costituì la RAGIONE_SOCIALE (già RAGIONE_SOCIALE), e resistette all’opposizione, chiedendone il rigetto.
1.1. Con sentenza del 16 settembre 2016, il Tribunale di RAGIONE_SOCIALE accolse parzialmente l’opposizione, dichiarando l’inesistenza del decreto ingiuntivo nei confronti dell’COGNOME e la nullità della clausola contrattuale che prevedeva la capitalizzazione trimestrale degl’interessi, limitatamente al periodo anteriore al 1° luglio 2000, e rideterminando la somma dovuta in Euro 94.810,68, oltre interessi convenzionali con decorrenza dal 31 maggio 2010.
L’impugnazione proposta dal COGNOME nei confronti dell’RAGIONE_SOCIALE e della Dobank, in qualità di mandataria della RAGIONE_SOCIALE, cessionaria del credito, è stata parzialmente accolta dalla Corte d’appello di RAGIONE_SOCIALE, che con sentenza del 30 gennaio 2019 ha rideterminato la somma dovuta in Euro 35.284,50, oltre interessi convenzionali, compensando i due terzi delle spese del doppio grado di giudizio, e ponendo il residuo a carico dell’appellante.
A fondamento della decisione, la Corte ha confermato la nullità della clausola contrattuale che prevedeva la capitalizzazione trimestrale degl’interessi, anche per il periodo successivo al 1° luglio 2000, per contrarietà all’art. 1283 cod. civ., affermando l’inapplicabilità della disciplina introdotta dall’art. 25, comma terzo, del d.lgs. 4 agosto 1999, n. 342, in quanto dichiarato costitu-
zionalmente illegittimo, escludendo la riconducibilità della predetta pattuizione ad un uso negoziale, non configurabile per difetto dell’ opinio juris ac necessitatis , e ritenendo non provato che a seguito dell’entrata in vigore della delibera CICR del 9 febbraio 2000 fosse stata stipulata una nuova pattuizione conforme alla nuova disciplina. Ha ritenuto inoltre non dovuta la commissione di massimo scoperto, non essendo stato indicato il documento recante la relativa pattuizione, ed ha pertanto provveduto alla rideterminazione del saldo del conto corrente, sulla base del ricalcolo effettuato dal c.t.u. nominato nel corso del giudizio.
Avverso la predetta sentenza il COGNOME ha proposto ricorso per cassazione, articolato in quattro motivi, illustrati anche con memoria. Le intimate non hanno svolto attività difensiva.
RAGIONI DELLA DECISIONE
Con il primo motivo d’impugnazione, il ricorrente denuncia la violazione e la falsa applicazione degli artt. 1815, 1283 e 1421 cod. civ. e dell’art. 112 cod. proc. civ., osservando che, nonostante le sollecitazioni contenute nello atto di appello e ribadite in sede di discussione, la sentenza impugnata ha omesso di rilevare la natura usuraria degl’interessi applicati dalla Banca, non avendo tenuto conto, a tal fine, dell’addebito della commissione di massimo scoperto, anch’essa computabile ai fini della verifica del superamento del tasso soglia.
Con il secondo motivo, il ricorrente deduce la violazione degli artt. 112, 115, 116 e 161 cod. proc. civ., rilevando che, nel rideterminare il saldo del conto corrente sulla base del ricalcolo effettuato dal c.t.u., la Corte d’appello si è limitata ad affermarne la correttezza, con motivazione di mero stile, senza considerare che il consulente non aveva affatto detratto la commissione di massimo scoperto, ma si era limitato ad escluderne la capitalizzazione.
I predetti motivi, da esaminarsi congiuntamente, in quanto aventi ad oggetto questioni strettamente connesse, sono inammissibili.
La sentenza impugnata, pur non essendosi espressamente pronunciata in ordine alla natura usuraria degl’interessi, peraltro allegata in maniera alquanto generica e marginale nell’atto di appello, ha infatti accolto le censure
proposte dal ricorrente avverso la decisione di primo grado, rideterminando la somma dovuta sulla base dei conteggi effettuati dal c.t.u., che aveva ricalcolato il saldo finale del conto corrente mediante l’esclusione proprio di quegli addebiti (capitalizzazione trimestrale degl’interessi e commissione di massimo scoperto) ai quali l’appellante aveva ricollegato il superamento del tasso soglia di cui all’art. 2 della legge 7 marzo 1996, n. 108.
La mancata proposizione di uno specifico motivo di gravame volto a ribadire la natura usuraria degl’interessi, non accertata in primo grado in quanto dedotta soltanto in comparsa conclusionale senza l’allegazione dei necessari elementi di riscontro, consente di escludere la sussistenza di un’omissione di pronuncia, per la cui configurabilità è necessario che sia stata proposta una domanda autonomamente apprezzabile e inequivocabilmente formulata (cfr. Cass., Sez. II, 14/10/2021, n. 28072; Cass., Sez. lav., 4/07/2014, n. 15367; Cass., Sez. V, 4/03/2013, n. 5344). In assenza di un’apposita censura, l’omesso esame della predetta questione è deducibile come motivo di ricorso per cassazione ai sensi non già dell’art. 112 cod. proc. civ., ma dell’art. 360, primo comma, n. 3 cod. proc. civ., per violazione delle norme sostanziali che ne prevedono la rilevabilità d’ufficio, a condizione che i relativi fatti costitutivi siano stati ritualmente allegati nel giudizio di merito (cfr. Cass., Sez. III, 17/ 07/2023, n. 20713; 11/11/2020, n. 25298; 9/05/2019, n. 12259).
Tale allegazione, nella specie, non ha avuto luogo adeguatamente neppure in questa sede, non avendo il ricorrente fornito alcuna precisazione in ordine al tasso d’interesse globale effettivamente applicato al conto corrente, ma essendosi limitato a sostenere che, contrariamente a quanto affermato dalla sentenza impugnata, il c.t.u. aveva incluso nel ricalcolo del saldo finale la commissione di massimo scoperto, sulla quale aveva computato anche gli interessi: in tal modo, tuttavia, egli ha per un vero proposto una censura non pertinente alla questione degl’interessi usurari, e per altro verso ha fatto valere un vizio non deducibile con il ricorso per cassazione. In quanto riflettente un contrasto tra la realtà emergente dagli atti processuali e la rappresentazione risultante dalla sentenza impugnata, l’erronea supposizione del mancato computo della commissione di massimo scoperto nel ricalcolo del saldo finale non è censurabile ai sensi degli artt. 115 e 116 cod. proc. civ., riguar-
danti rispettivamente la disponibilità e la valutazione delle prove, né ai sensi dell’art. 360, primo comma, n. 5 cod. proc. civ., riguardante l’omessa valutazione di un fatto controverso, ma può essere fatta valere con il ricorso per revocazione ai sensi dell’art. 395 n. 4 cod. proc. civ., configurandosi come il risultato di un errore percettivo della Corte territoriale, obiettivamente ed immediatamente rilevabile attraverso il confronto tra la sentenza impugnata e la relazione del c.t.u. (cfr. Cass., Sez. VI, 10/06/ 2021, n. 16439; Cass., Sez. III, 14/02/2006, n. 3190; Cass., Sez. lav., 3/04/2009, n. 8180). Nel dichiarare illegittimo l’addebito della commissione di massimo scoperto, la Corte territoriale ha infatti riferito di aver disposto un’integrazione della c.t.u. proprio al fine di depurare il saldo del conto dalle commissioni indebitamente applicate, facendo proprie le relative risultanze, in ordine alle quali ha rilevato la mancata formulazione di osservazioni critiche ad opera dei c.t. di parte; né risulta precisato se la sollecitazione al rilievo d’ufficio del carattere usurario degl’interessi, che il ricorrente sostiene di aver formulato in sede di discussione orale, si estendesse anche al profilo in questione, il quale non può quindi essere considerato come un punto controverso sul quale la sentenza si è pronunciata.
4. Con il terzo motivo, il ricorrente lamenta la violazione degli artt. 112 e 116 cod. proc. civ. e dell’art. 1283 cod. civ., censurando la sentenza impugnata per aver confermato l’applicabilità degl’interessi convenzionali e della commissione di massimo scoperto per il periodo successivo alla chiusura del conto corrente, senza considerare che l’estinzione del rapporto escludeva l’operatività delle clausole contrattuali, comportando l’applicabilità della disciplina generale del codice civile.
4.1. Il motivo è infondato.
Benvero, nel condannare il ricorrente al pagamento del saldo passivo del conto corrente, così come ricalcolato dal c.t.u., la sentenza impugnata ha riconosciuto alla Banca, sul relativo importo, gli «interessi convenzionali» con decorrenza dalla data di chiusura del conto e fino al soddisfo: con la predetta espressione, la cui portata precettiva va ricostruita sulla base delle argomentazioni svolte in motivazione, la Corte territoriale non ha tuttavia inteso, evidentemente, riferirsi agli interessi maggiorati delle medesime voci previste
dalle clausole contrattuali dichiarate nulle, ma agl’interessi semplici calcolati al tasso, diverso da quello legale, convenuto dalle parti. Tale interpretazione trova conforto proprio nella disciplina generale dettata dall’art. 1224, primo comma, secondo periodo, cod. civ., il quale, disponendo che «se prima della mora erano dovuti interessi in misura superiore a quella legale, gli interessi moratori sono dovuti nella stessa misura», si riferisce alla disciplina contrattuale dell’obbligazione, della quale prevede la perpetuazione anche dopo la scadenza dell’obbligazione, ovviamente nei limiti in cui le condizioni convenute dalle parti possano ritenersi legittime (cfr. Cass., Sez. I, 18/11/1994, n. 9791; 22/ 06/1985, n. 3760; Cass., Sez. III, 20/06/1992, n. 7571).
Con il quarto motivo, il ricorrente denuncia la violazione degli artt. 91, 92 e 116 cod. proc. civ. e dell’art. 8, comma 4bis , del d.lgs. 4 marzo 2010, n. 28, osservando che, nel disporre la parziale compensazione delle spese processuali e nel porre il residuo a carico di esso ricorrente, la sentenza impugnata non ha tenuto conto dell’accoglimento dell’opposizione al decreto ingiuntivo e dell’appello, né della mancata proposizione del tentativo obbligatorio di conciliazione da parte della Banca.
5.1. Il motivo è infondato.
Ai fini del regolamento delle spese processuali, la sentenza impugnata ha correttamente attribuito rilievo all’esito complessivo della lite, costituito dallo accoglimento parziale dell’opposizione al decreto ingiuntivo e dalla conseguente condanna dell’opponente al pagamento del saldo passivo del conto corrente, sia pure in misura notevolmente inferiore a quella riconosciuta alla Banca con il decreto ingiuntivo e la sentenza di primo grado: tale valutazione si pone perfettamente in linea con il criterio generale della soccombenza, operante anche in sede di opposizione a decreto ingiuntivo, il quale impone di tenere conto dell’esito globale del giudizio, indipendentemente dal risultato delle singole fasi in cui si è articolato, con la conseguenza che il creditore opposto che veda conclusivamente riconosciuto il proprio credito, ancorché in misura inferiore a quella accordata nel procedimento monitorio, o addirittura in misura minima, pur dovendo subire legittimamente la revoca del decreto ingiuntivo, deve considerarsi comunque vittorioso, e non può quindi essere condannato al pagamento delle spese processuali, ferma restando, tuttavia,
la possibilità di compensarle in tutto o in parte, per le ragioni indicate dall’art. 92, secondo comma, cod. proc. civ. (cfr. Cass., Sez. III, 12/05/2015, n. 9587; Cass., Sez. II, 10/09/2009, n. 19560; 21/03/1983, n. 1977).
Il ricorso va pertanto rigettato, senza che occorra provvedere al regolamento delle spese processuali, avuto riguardo alla mancata costituzione dell’intimata.
P.Q.M.
rigetta il ricorso.
Ai sensi dell’art. 13, comma 1quater , del d.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, inserito dall’art. 1, comma 17, della legge 24 dicembre 2012, n. 228, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso dal comma 1bis dello stesso art. 13, se dovuto.
Così deciso in RAGIONE_SOCIALE il 18/10/2023