Ordinanza di Cassazione Civile Sez. 1 Num. 17765 Anno 2025
Civile Ord. Sez. 1 Num. 17765 Anno 2025
Presidente: COGNOME NOME
Relatore: COGNOME
Data pubblicazione: 01/07/2025
ORDINANZA
sul ricorso iscritto al n. 11075/2021 R.G. proposto da : RAGIONE_SOCIALE COGNOME, domiciliati ex lege in ROMA, INDIRIZZO presso la CANCELLERIA della CORTE di CASSAZIONE, rappresentati e difesi dall’avvocato COGNOME NOME COGNOME -ricorrente- contro
COGNOMERAGIONE_SOCIALE elettivamente domiciliati in ROMA INDIRIZZO presso lo studio dell’avvocato COGNOME che li rappresenta e difende
-controricorrenti- avverso SENTENZA di CORTE D’APPELLO MILANO n. 2534/2020 depositata il 12/10/2020.
Udita la relazione svolta nella camera di consiglio del 20/06/2025 dal Consigliere NOME COGNOME
FATTI DI CAUSA
Il ricorso riguarda la sentenza della Corte d’appello di Milano che ha confermato la decisione con cui il locale Tribunale ha parzialmente accolto la domanda proposta da NOME COGNOME in proprio e quale A.U.della RAGIONE_SOCIALE, nei confronti di NOME COGNOME in proprio e quale rappresentante legale della RAGIONE_SOCIALE, accertando -per quel che qui interessa -che tra COGNOME e COGNOME personalmente era stato concluso un contratto in forza del quale la prima si era obbligata – nella qualità di socia unica e di amministratore di RAGIONE_SOCIALE– a deliberare un aumento di capitale della società di modo che il 49% delle quote sociali fosse sottoscritto da COGNOME -ovvero da altra società da questi indicata – il quale si era obbligato a corrispondere la somma di 300.000 € per la liberazione delle quote sociali , e che tale accordo era rimasto da quest’ultimo inadempiuto. Ha, respinto la domanda di COGNOME e di RAGIONE_SOCIALE diretta ottenere da COGNOME e RIAB il risarcimento del danno derivato dall’inadempimento all’accordo non essendo risultato provato alcun danno, e dichiarato assorbita la domanda di COGNOME e di MJF diretta ad accertare che gli acconti ricevuti da COGNOME (indicati in 17.500 ma non quantificati dal Tribunale) in conto della futura sottoscrizione dell’ aumento di capitale non dovevano essere restituiti, in quanto erano stati versati in esecuzione dell’obbligazione di apportare un capitale per euro 300.000 e nessuno aveva chiesto la risoluzione dell’accordo predetto che, quindi, continuava ad essere efficace.
– L’appello proposto da RAGIONE_SOCIALE e NOME COGNOME contro detta sentenza è stato respinto dalla Corte di merito, la quale:
in via preliminare, ha rilevato la carenza di interesse ad agire di RAGIONE_SOCIALE a proporre l’impugnazione poiché nessuna delle domande proposte nei confronti della stessa era stata accolta dal Tribunale;
circa l’asserita erroneità della sentenza in punto esclusione
dell’eccepito difetto di legittimazione passiva di NOME COGNOME in proprio, ha osservato che non si trattava di questione di difetto di legittimazione passiva, bensì di insussistenza della titolarità di qualunque obbligazione derivante dai rapporti giudici dedotti in giudizio, che presupponeva, quindi, l’esame degli altri motivi di appello;
c) ha ritenti che le risultanze probatorie e l’interrogatorio formale del COGNOME inducevano a confermare l’accertamento compiuto dal Tribunale circa l’intervenuto accordo tra NOME COGNOME e NOME COGNOME personalmente (giacché nessuno aveva speso il nome della società rappresentata o dichiarato di agire in nome e per conto della stessa), in forza del quale COGNOME si obbligava ad entrare (personalmente o mediante un veicolo societario) nella compagine sociale di MJF con una quota di capitale non superiore al 49%, versando la somma di 300.000,00 a titolo di aumento di capitale;
quanto al contestato accertamento dell’inadempimento all’accordo , ha rilevato: (i) che era stato ampiamente provato ed era, comunque, pacifico tra le parti, che COGNOME aveva versato solo una parte della somma che si era obbligato a corrispondere per liberare la quota di capitale che gli doveva essere attribuita; (ii) che lo stesso COGNOME aveva affermato di aver interrotto i rapporti e cessato di versare altre somme in quanto la COGNOME continuava a tergiversare a proposito del suo ingresso nella società; (iv) che, comunque, quest’ultima non aveva mai chiesto l’adempimento dell’accordo in questione né la sua risoluzione per inadempimento della controparte; (v) che, comunque, la sua domanda di risarcimento dei danni conseguenti all’inadempimento era stata respinta e il relativo punto della sentenza non era stato appellato onde era divenuto definitivo;
che il quarto motivo d’appello riguardava domande del tutto nuove e inammissibili volte ad accertare l’entità dei versamenti effettuati in favore di MJF da COGNOME quantificati in 51.000 € – e il
suo diritto di agire per la risoluzione del contratto e per la restituzione della somma versata.
– Avverso detta sentenza RAGIONE_SOCIALE e NOME COGNOME e hanno proposto ricorso affidato a sette motivi di cassazione. Hanno resistito NOME COGNOME e RAGIONE_SOCIALE
RAGIONI DELLA DECISIONE
– Il primo motivo denuncia la violazione ex art. 360 n. 4 e 5 degli artt. 115 e 116 c.p.c. ciò in quanto la Corte d’appello avrebbe ritenuto pacifici o non contestati o indubitabilmente provati fatti che non sarebbero tali; in particolare non sarebbe provata l’intervenuta conclusione dell’accordo per la cessione delle quote societarie né che il sig. COGNOME aveva agito a titolo personale e non in quanto rappresentante legale della società RAGIONE_SOCIALE. Le prove assunte e il valore confessorio degli atti di controparte avrebbero dovuto condurre il giudice di prime cure, prima, e quello d’appello, poi, a diverse conclusioni sul punto e in tal senso il giudice d’appello avrebbe male esercitato il suo potere di prudente apprezzamento delle prove raccolte, avendo disatteso elementi di prova e valutato prove legali – come l’interrogatorio formalerecependole senza apprezzamento critico.
1.1.- Il motivo -che propone, in realtà, due profili di illegittimità della decisione senza neppure illustrarli -è evidentemente inammissibile.
Anche a prescindere dalla sua inidonea formulazione, che non consente di distinguere i due profili di illegittimità denunciati e non illustrati e che, in effetti, prospetta una violazione di legge con riguardo agli artt. 115 e 116 c.p.c., è inammissibile, anzitutto ex art. 360 comma 4 c.p.c. poiché, quando la pronuncia di appello conferma la decisione di primo grado per le stesse ragioni inerenti ai medesimi fatti posti a base della decisione impugnata – com’è nella specie – il ricorso per Cassazione non può essere proposto per i motivi di cui al comma 1 n. 5 c.p.c. della norma stessa. Inoltre è
noto che per invocare la violazione dell’articolo 115 c.p.c., occorre denunciare che il giudice, in contraddizione espressa o implicita con la prescrizione della norma, abbia posto a fondamento della decisione prove non introdotte dalle parti, ma disposte di sua iniziativa fuori dei poteri officiosi riconosciutigli, (per tutte Cass., Sez. Un., 30 settembre 2020, n. 20867), e che quella dell’articolo 116 c.p.c. è ammissibile solo ove si alleghi che il giudice, nel valutare una prova o, comunque, una risultanza probatoria le abbia attribuito un diverso valore rispetto a quello che il legislatore le attribuisce o attribuisce ad una differente risultanza probatoria (come, ad esempio, valore di prova legale), oppure, qualora pur essendo la prova soggetta ad una specifica regola di valutazione, il giudice abbia dichiarato di valutare la stessa secondo il suo prudente apprezzamento: e, nel caso in esame, nulla di tutto ciò si rinviene nella censura, la quale altro non fa che rimettere in discussione il governo del materiale probatorio operato dal giudice di merito (v. per tutte Cass., Sez. Un., 30 settembre 2020, n. 20867).
2.- Il secondo motivo denuncia ex art. 360 comma 1 n. 4 c.p.c. violazione e falsa applicazione degli artt. 100 e 331 c.p.c. I ricorrenti censurano la sentenza nella parte in cui la Corte d’appello, in via preliminare, ha rilevato la carenza di interesse di RIAB alla proposizione dell’impugnazione poiché nessuna delle domande proposte nei confronti della stessa era stata accolta dal Tribunale, laddove, invece, l’accertamento compiuto dal giudice di primo grado circa l’intervenuta conclusione di un accordo in forza del quale le parti avrebbero dovuto fare acquisire una quota di capitale di MJF -a loro dire-‘ da attribuire alla RIAB ‘ per l’importo di 300.000 €, rappresenta una soccombenza sostanziale per la predetta società, perché la RAGIONE_SOCIALE, costituendosi unitamente a NOME COGNOME, aveva chiesto di accertare l’insussistenza di un accordo contrattuale da cui far derivare l’obbligazione in capo a NOME
NOME di ricapitalizzare NOME, sia quale legale rappresentante di RAGIONE_SOCIALE che in proprio; per cui, anche se nessuna domanda svolta dalle parti nei confronti della RAGIONE_SOCIALE risultava formalmente accolta, questa sarebbe rimasta sostanzialmente soccombente.
Osserva parte ricorrente che l’interesse a impugnare scaturisce dalla soccombenza totale o parziale, cioè dal non aver visto accolte in tutto e in parte le domande proposte nel precedente giudizio, laddove una soccombenza sostanziale può emergere considerando il vantaggio che si potrebbe ottenere da una nuova sentenza pronunciata in seguito all’impugnazione rispetto alla sentenza già ottenuta anche nel caso in cui non si sia formalmente soccombenti; nel caso di specie, RIAB sarebbe risultata sostanzialmente e parzialmente soccombente in primo grado in quanto gli effetti della predetta statuizione del Tribunale potevano ricadere sulla RIAB stessa, che poteva venire convenuta in altri giudizi da parte delle controparti e da parte del signor COGNOME che intendessero vedersi eventualmente manlvati da eventuali richieste di condanna per effetto della affermata stipulazione dell’accordo di cui sopra.
In ogni caso -osservano i ricorrenti – ai sensi dell’articolo 331 c.p.c. al giudizio di impugnazione devono partecipare tutti coloro che furono parti nel giudizio di primo grado, ciò al fine di evitare che la stessa sentenza passi in giudicato nei confronti di una parte e non anche nei confronti delle altre, sicché vi sarebbe in questo caso un litisconsorzio necessario processuale, principio applicabile non solo nelle cause inscindibili ma anche nelle cause dipendenti.
2.1- Il motivo è infondato.
2.1.1 – Per la verifica del se e del come il litisconsorzio, realizzatosi in primo grado, possa proseguire nelle fasi di gravame, occorre distinguere fra tre categorie di cause: quelle inscindibili (con la precisazione che, quando è inscindibile, la causa è unica e una sola, benché con pluralità di parti che hanno legittimazione a
contraddire); quelle tra loro dipendenti (bisognose di decisioni tra loro coordinate); quelle scindibili.
In caso di cause «scindibili» e non tra loro dipendenti (per un rapporto di pregiudizialità intrinseco), trova applicazione non l’art. 331, bensì l’art. 332 c.p.c., che prevede la notificazione dell’impugnazione a parti diverse da quelle dalle quali o contro le quali è stata proposta, con una funzione diversa: mentre nel caso dell’art.331 si tratta di una vocatio in ius per integrare il contraddittorio, in ipotesi di cause scindibili, detta notificazione integra soltanto una litis denuntiatio « volta a far conoscere ai destinatari l’esistenza di un’impugnazione, al fine di consentire loro di proporre impugnazione in via incidentale nello stesso processo, qualora la stessa non sia esclusa o preclusa » (Cass. n. 9002/2007; conforme Cass. n. 10171/2018; Cass. n. 7031/2020
2.1.2- Quanto all’interesse ad impugnare una sentenza , si osserva: a) « il principio contenuto nell’art. 100 c.p.c., secondo il quale per proporre una domanda o per resistere ad essa è necessario avervi interesse, si applica anche al giudizio di impugnazione nel quale l’interesse ad impugnare una data sentenza o un capo di questa va desunto dall’utilità giuridica che dall’eventuale accoglimento del gravame possa derivare alla parte che lo propone e si ricollega, pertanto, alla soccombenza nel precedente giudizio, intesa quale effetto pregiudizievole derivante dalla decisione e non anche come mera diversità tra quest’ultima e le conclusioni rassegnate dalla parte, in difetto della quale l’impugnazione è inammissibile» (Cass. n. 27387/2022; Cass. Sentenza n. 1902/2002); b) è consolidato il principio per cui, ai fini della sua sussistenza, « rileva una nozione sostanziale e materiale di soccombenza, la quale fa riferimento (non già alla mera divergenza tra le conclusioni rassegnate dalla parte e la pronuncia del giudice di merito, ma) all’eventuale pregiudizio che la parte potrebbe subire a causa della sentenza e della sua idoneità a
formare il giudicato e, corrispondentemente, all’utilità concreta che, in quanto diretta all’eliminazione di tale pregiudizio, potrebbe derivare alla parte dall’eventuale accoglimento dell’impugnazione » (v. da ultimo Cass. n. 9062/20259).
2.1.3. -Ciò premesso si osserva che in questo caso i convenuti RAGIONE_SOCIALE e COGNOME sono stati chiamati sulla base di un medesimo titolo (« accertare l’inadempimento di RAGIONE_SOCIALE e di COGNOME all’obbligo di ricapitalizzazione della società attrice nel triennio 2016/2018 per 1.000.000 di euro, nonché dell’obbligo di concedere un finanziamento in favore di MJF dell’importo di 41.000 € (….) condannare in convenuti in solido tra loro al risarcimento dei danni diretti e indiretti, patrimoniali e non, per tale inadempienze »), e RIAB ne ha contestato la sussistenza, sia quale fonte di obblighi propri, che quale fonte di obblighi del COGNOME personalmente, ipotesi quest’ultima in cui non era da escludersi un coinvolgimento di RIAB, se non altro -come afferma lo stesso Tribunale di Milano -quale esecutore finale dell’accordo (si legge, infatti, nella sentenza di primo grado, come riportata dalla Corte di merito: «(…) emerge l’assunzione in capo a COGNOME nei confronti di COGNOME di uno specifico impegno all’ingresso nella società della quale COGNOME era unica socia, con l’apporto di capitale pari ad euro 300.000,00. Pertanto, si deve escludere: sia – dato il tenore della dichiarazione di COGNOME in ordine al suo diretto impegno personale – la sua carenza di legittimazione passiva, sia il coinvolgimento diretto nell’accordo di RAGIONE_SOCIALE.p.aRAGIONE_SOCIALE, al più configurabile quale soggetto destinato, in sede di esecuzione dell’accordo, a figurare quale titolare della quota della MJF corrispondente all’aumento di capitale sul quale i due stipulanti si erano accordati. (…) l’accordo risulta inadempiuto da COGNOME (…) ».
2.1.4- Quindi: a ) non si tratta di un’ipotesi di litisconsorzio necessario, né sostanziale (prospettando parte attrice in primo grado un’obbligazione solidale tra società e il suo rappresentante
legale in proprio, dunque una causa scindibile, caratterizzata solo da un interesse comune (e non ad interesse unisoggettivo come avviene, ad esempio, in caso di fideiussione, dove fra le due obbligazioni ricorre un nesso di pregiudizialità-dipendenza), nè processuale, poiché i due rapporti processuali restano scindibili (v. Cass. n. 10596/2020) giacché la presenza di più parti nel giudizio di primo grado non deve necessariamente persistere in sede di impugnazione al fine di evitare possibili giudicati contrastanti in ordine alla stessa materia e nei confronti di quei soggetti che siano stati parti del giudizio (v. Cass. n. 8790/2019); b) la sentenza di primo grado non vede la soccombenza neppure sostanziale di RIAD giacché la mera difesa avente ad oggetto l’inesistenza degli accordi non può essere intesa come domanda (riconvenzionale) di accertamento su cui vi sarebbe stata -appunto -una soccombenza; c) poiché, però, la società ha proposto appello unitamente all’altro debitore solidale in funzione dell’estensione nei confronti della società degli effetti favorevoli del giudicato che fosse emesso nei confronti della persona fisica (onde superare l’ostacolo di cui all’art. 1306 comma 1 c.c. ai fini dell’opponibilità del giudicato), da far valere a fronte di eventuali iniziative processuali future che si fossero potute fondare sul passaggio in giudicato della sentenza di primo grado nei suoi confronti, l’appello proposto dalla società va qualificato come impugnazione adesiva dipendente all’appello proposto dalla persona fisica, che risente, quindi, degli esiti del giudizio relativo all’impugnazione cui si è aderito ed è da reputare rigettata con il rigetto dell’appello proposto dalla persona fisica; in questo senso la motivazione va corretta ai sensi dell’ultimo comma dell’art. 384 c .p.c.
3.- Il terzo motivo denuncia violazione dell’articolo 100 c.p.c. e vizio di motivazione con riferimento al rigetto dell’eccezione di difetto di legittimazione passiva in relazione all’art. 360 comma 1 nn. 4 e 5 c.p.c. perché la Corte d’appello avrebbe erroneamente
trattato il motivo d’appello proposto da NOME COGNOME come difetto di titolarità passiva di qualunque obbligazione discendente a suo carico dal prospettato accordo di ricapitalizzazione di MJF, anziché come difetto di legittimazione passiva dello stesso, poiché -a dire di parte ricorrente – dallo stesso tenore dell’atto di citazione e dalla documentazione allegata da parte attrice, si evinceva che quest’ultimo aveva sempre agito nella veste di legale rappresentante della società; per cui la Corte di merito avrebbe dovuto rilevare la non coincidenza, dal lato passivo, tra il soggetto contro il quale la domanda è proposta e quello che nella domanda è affermato soggetto passivo del diritto o comunque violatore di quel diritto, essendo la legittimazione ad agire o a contraddire una condizione dell’azione fondata sulla mera allegazione fatta in domanda.
3.1Il motivo è infondato poiché la Corte d’appello ha correttamente considerato l’eccezione di carenza di legittimazione passiva sollevata dal COGNOME nel motivo d’appello come contestazione, in effetti, della titolarità passiva del rapporto dedotto in giudizio da parte attrice come accordo intervenuto fra le persone fisiche (deduzione che -appunto -fondava la legittimazione passiva in proprio di COGNOME), giacché l’appellante mirava a dimostrare che detto accordo era stato stipulato dalla società (mediante il legale rappresentante) e non dalla persona fisica.
4.- Il quarto motivo deduce violazione degli articoli 1325, 1326, e 1346 c.c.; violazione degli articoli 1351, 1421 c.c.; violazione dell’articolo 229 c.p.c. con riferimento alla asserita stipulazione dell’accordo in relazione all’art. 360 c.p.c. comma 1 nn. 3 e 4. La censura si rivolge alla parte della sentenza che respinge il motivo d’appello fondato sulla sussistenza dell’accordo tra le parti, poiché -a dire della parte ricorrente – doveva ancora essere stabilito l’importo esatto della somma che NOME avrebbe dovuto
corrispondere a controparte, laddove ai sensi dell’art. 1325 c.c. l’oggetto del contratto costituisce uno dei requisiti essenziali dello stesso; richiama a tal proposito le risultanze documentali dalle quali emergeva che il sig. COGNOME chiedeva di verificare l’investimento dovuto da parte sua e di bilanciarlo sull’investimento rispetto al valore delle quote cedute, dando alla società un giusto valore considerato che si parlava di una start-up ; invoca, altresì, la violazione dell’art. 1326 c.c. laddove stabilisce che l’accettazione non conforme alla proposta equivale a una nuova proposta, e nella fattispecie nessuna accettazione poteva dirsi avvenuta della proposta formulata da controparte, con la conseguenza che nessun accordo era stato concluso; ancora deduce che la mancata stipula in forma pubblica del suindicato accordo e la conseguente nullità dello stesso rilevava ai sensi dell’articolo 1351 c.c. e dell’articolo 1421 c.c. ed era rilevabile d’ufficio; afferma, poi, che la Corte territoriale non avrebbe tenuto conto del fatto che la COGNOME non aveva dato seguito alla fase delle trattative ovvero non si era impegnata nella stipula di un effettivo contratto che la vincolasse dal punto di vista giuridico; infine, ripropone, in termini di violazione del valore confessorio ex art. 229 c.p.c. di quanto contenuto nell’atto di citazione introduttivo del giudizio, la questione della mancata valorizzazione da parte della Corte d’appello di quanto risultante agli atti circa il fatto che il COGNOME aveva agito quale legale rappresentante della società RAGIONE_SOCIALE
4.1- Il motivo è evidentemente inammissibile.
Anche a prescindere dalla sua inidonea formulazione – che non consente di distinguere i due profili di illegittimità denunciati e neppure illustrati e che il motivo, in effetti, prospetta una violazione di legge – si tratta di censure tutte versate in fatto, pacifico essendo che il vizio di violazione di legge consiste nella deduzione di un’erronea ricognizione, da parte del provvedimento impugnato, della fattispecie astratta recata da una norma di legge
e quindi implica necessariamente un problema interpretativo della stessa; viceversa, l’allegazione di un’erronea ricognizione della fattispecie concreta a mezzo delle risultanze di causa è esterna all’esatta interpretazione della norma di legge e inerisce alla tipica valutazione del giudice di merito, sottratta al sindacato di legittimi (Cass. n. 24155/2017; Cass. n. 195/2016, confermate da innumerevoli sentenze successive, v. ex multis Cass. 13747/2018; Cass. n. 3340/2019; Cass. 31546/2019).
Nella specie è evidente che la parte ricorrente lamenta la erronea applicazione degli art 1325 e 1326 c.c. in ragione della inammissibile pretesa in questa sede di legittimità di una difforme valutazione degli esiti istruttori circa la conclusione dell’accordo di ricapitalizzazione di RAGIONE_SOCIALE allo scopo di consentire, l’ing resso di un nuovo socio; peraltro la questione non risulta neppure proposta o discussa nel secondo grado di giudizio, il che costituisce ulteriore autonoma ragione di inammissibilità della doglianza.
Altrettanto inammissibili per la stessa ragione sono tanto la dedotta violazione dell’art. 229 c.p.c. (sulla confessione spontanea ritraibile dagli atti) con riguardo ad un accertamento in fatto, quanto la censura relativa alla sussistenza di una causa di nullità dell’accordo per vizio di forma, rilevabile d’ufficio , in realtà delibata in fatto e diritto dalla Corte d’appello, che ha rilevato che per la validità del contratto non era necessario alcun requisito di forma in quanto « come già rilevato dal Tribunale, si tratta di accordo che riguardando nel caso di specie l’ingresso in una s.r.l. a mezzo della rinuncia della originaria unica socia al proprio diritto d’opzione su un futuro aumento di capitale in favore del socio entrante, per il principio di libertà delle forme è da ritenersi validamente concluso con il semplice consenso delle parti », aspetto sul quale gli appellanti « nulla avevano eccepito essendosi limitati a sostenere, infondatamente, che dai mezzi istruttori assunti risultava che il contratto fosse intercorso tra le due società e non tra COGNOME e
NOME COGNOME.
5.- Il quinto motivo denuncia la violazione degli articoli 2697 e 1460 c.c. con riferimento all’accertamento compiuto in sentenza dell’inadempimento all’accordo da parte del solo COGNOME e non anche della COGNOME, in relazione all’art. 360 c.p.c. comma 1 nn. 3 e 4. Il ricorrente si duole della parte della sentenza che ha respinto il motivo d’appello con cui denunciava che sarebbe stato onere di controparte allegare e provare la fonte del proprio diritto e di aver dato esecuzione all’accordo con l’iscrizione del trasferimento presso il registro delle imprese; mentre la Corte d’appello avrebbe affermato che doveva essere COGNOME ad allegare e provare che il mancato completo versamento della somma oggetto dell’accordo fosse giustificata da un comportamento inadempiente della controparte, così invertendo l’onere della prova circa la fonte del diritto fatto valere. In altre parole sostiene il ricorrente che, trattandosi di un contratto a prestazioni corrispettive, doveva gravare solo sulla controparte l’onere di provare il presunto contratto di trasferimento delle quote sociali, di aver adempiuto al medesimo dandosi esecuzione (con atto notarile e iscrizione al registro delle imprese), e l’intervenuta scadenza della controprestazione dovuta. La Corte avrebbe, quindi, impropriamente valorizzato il fatto che COGNOME avesse solo affermato che COGNOME continuava a «tergiversare» senza mai esplicitare quale fosse lo specifico comportamento inadempiente a questa imputabile, laddove non spettava il COGNOME provare che controparte era stata inadempiente.
5.1- Il motivo è inammissibile perché non si confronta con la ratio decidendi: la Corte come già il Tribunale ha dato atto che la parte attrice aveva chiesto solo di accertare l’esistenza dell’accordo e l’inadempimento della controparte, non aveva chiesto la sua esecuzione (o la sua risoluzione per inadempimento); i predetti accertamenti sono stati compiuti senza alcuna inversione dell’onere
della prova, in particolare avendo la Corte valorizzato quanto all’inadempimento, le stesse dichiarazioni rese in sede interrogatorio formale dal COGNOME circa il fatto che, poiché la COGNOME continuava a tergiversare e a chiedergli fondi, lui aveva interrotto « ogni iniezione di denaro », e osservato -correttamente – che laddove il COGNOME intendeva valorizzare detto tergiversare onde giustificare il proprio comportamento inadempiente incombeva su di l ui l’onere di provare che la controparte si era sottratta alla formalizzazione degli accordi.
6.- Il sesto motivo denuncia violazione dell’articolo 345 c.p.c. in relazione all’articolo 360 comma 1 n. 4 c.p.c. laddove la Corte d’appello ha sostenuto che la domanda avente ad oggetto l’accertamento delle entità dei versamenti effettuati in favore di MIF (quantificati in 51.000 € dall’appellante) era nuova e inammissibile, giacché nel caso di specie la contestazione circa l’esatto ammontare dei versamenti eseguiti da COGNOME era emersa già in primo grado nel corso dell’interrogatorio formale in cui il COGNOME aveva contestato il versamenti indicati da controparte.
6.1- Il motivo è palesemente inammissibile giacché è evidente che la contestazione di un’affermazione della controparte non vale a integrare la formulazione di una domanda. Sicchè correttamente la Corte ha rilevato che la domanda poi proposta in appello era nuova ed inammissibile.
7.- Il settimo motivo denuncia violazione dell’articolo 91 c.p.c. con riferimento alla condanna al pagamento delle spese in relazione all’art. 360 comma 1 n. 4 e 5 c.p.c. poiché la sentenza impugnata non costituisce una sentenza di condanna ma un rigetto dell’appello, sicché sarebbe « decisamente eccessiva la liquidazione delle spese eseguita in sentenza » mentre « un esame più approfondito, attento e consapevole del materiale documentale probatorio già in atti avrebbe dovuto indurre la Corte d’appello all’accoglimento del ricorso per cui la condanna alle spese è
assolutamente ingiusta è iniqua » anche in considerazione del fatto che nel precedente grado di giudizio le spese erano state compensate poiché solo una delle avverse domande risultava essere stata parzialmente accolte.
7.1- Il motivo è inammissibile in quanto del tutto carente del requisito, imposto dall’art. 366 comma 1 c.p.c. , della specificità dei motivi di cassazione, con riguardo alla doglianza di «eccessività» della liquidazione delle spese.
8.- In conclusione il ricorso va respinto. Le spese seguono la soccombenza e si liquidano come nel dispositivo, ai sensi del D.M. 12 luglio 2012, n. 140. Sussistono i presupposti processuali per il raddoppio del contributo unificato se dovuto.
P.Q.M.
La Corte respinge il ricorso; condanna la parte ricorrente al pagamento delle spese di lite in favore della controricorrente, liquidate nell’importo di euro 8200,00 di cui euro 200,00 per esborsi, oltre alle spese forfettarie nella misura del 15% sul compenso ed agli accessori come per legge. Ai sensi dell’art. 13, comma 1quater , d.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, inserito dalla I. 24 dicembre 2012, n. 228, dichiara la sussistenza dei presupposti per il versamento da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello, ove dovuto, per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1bis .
Cosí deciso in Roma, nella camera di consiglio della I Sez. Civile