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Interesse ad agire e performance: la Cassazione decide

Un dipendente pubblico ha impugnato la sua valutazione della performance, pur essendo positiva, chiedendone una migliore. La Corte di Cassazione, con l’ordinanza in esame, ha rigettato il ricorso. Ha chiarito che, sebbene esista un interesse ad agire di natura morale, non sussiste un diritto soggettivo tutelabile per ottenere la revisione di una valutazione già positiva se da ciò non derivano conseguenze economiche o di carriera concrete.

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Interesse ad agire e performance: quando si può contestare una valutazione positiva?

Un lavoratore può fare causa al proprio datore di lavoro per ottenere una valutazione della performance migliore, anche se quella già ricevuta è positiva e non ha comportato svantaggi economici? La Corte di Cassazione ha risposto a questa domanda, tracciando una linea netta tra l’interesse ad agire di natura morale e l’esistenza di un diritto concretamente tutelabile. L’ordinanza in esame offre importanti spunti di riflessione sul sistema di valutazione nel pubblico impiego e sui limiti dell’azione giudiziaria.

I Fatti: La contestazione di una valutazione positiva

Un dipendente di un’azienda sanitaria pubblica ha contestato la valutazione della sua performance individuale relativa all’anno 2017. A suo dire, la procedura era stata condotta in modo illegittimo, con l’omessa compilazione di una parte della scheda (relativa agli obiettivi individuali) e una valutazione delle competenze professionali viziata da diverse irregolarità. Per questo motivo, ha chiesto al Tribunale di annullare la valutazione e di ordinare all’azienda di procedere a una nuova valutazione.

Tanto il Tribunale quanto la Corte d’Appello hanno rigettato la domanda, non per il merito della questione, ma per una ragione processuale: la carenza di un interesse ad agire attuale e concreto. I giudici di merito hanno osservato che il dipendente aveva comunque ricevuto l’incentivo economico previsto per quell’anno e non aveva dimostrato che un punteggio superiore gli avrebbe garantito un premio maggiore. Inoltre, l’azienda sanitaria aveva chiarito che, a seguito di modifiche normative, le valutazioni del 2017 non sarebbero state utilizzate per future progressioni di carriera o per l’attribuzione di incarichi. Di conseguenza, secondo le corti di merito, un’eventuale vittoria in giudizio non avrebbe portato al lavoratore alcuna utilità pratica.

La questione dell’interesse ad agire nella valutazione della performance

Il lavoratore ha quindi presentato ricorso in Cassazione, sostenendo di avere un interesse, anche solo morale, a vedere correttamente valutato il proprio operato. Secondo la sua tesi, la valutazione della performance esprime un “apprezzamento sistematico del valore attuale e potenziale di una persona per l’organizzazione” che va oltre i meri effetti economici o di carriera. Contestare una valutazione errata significherebbe rimuovere una condizione di incertezza e pregiudizio, valorizzando il merito del dipendente.

Le motivazioni della Suprema Corte

La Corte di Cassazione ha analizzato la questione sotto due profili, giungendo a una conclusione che, pur correggendo parzialmente il ragionamento dei giudici di merito, ha confermato il rigetto del ricorso.

Il collegio ha innanzitutto distinto nettamente il concetto di “interesse ad agire” (art. 100 c.p.c.) dall’esistenza del diritto sostanziale fatto valere. L’interesse ad agire sussiste quando la sentenza richiesta può portare un’utilità concreta al ricorrente, anche non patrimoniale. Sotto questo profilo, la Corte ha riconosciuto che il lavoratore aveva un interesse a tutelare il proprio “interesse morale” alla corretta valutazione della sua attività. L’annullamento della valutazione e la sua ripetizione avrebbero potuto, in astratto, soddisfare questa esigenza.

Il vero nodo: il diritto tutelabile

Tuttavia, e qui sta il punto cruciale della decisione, la Cassazione ha chiarito che l’esistenza di un interesse morale non implica automaticamente l’esistenza di un diritto tutelabile in giudizio. La tutelabilità di una situazione giuridica va misurata sull’impianto normativo che la disciplina.

Analizzando il D.Lgs. 150/2009, che regola la valutazione della performance nel pubblico impiego, la Corte ha evidenziato come l’intero sistema sia finalizzato a produrre effetti concreti: l’attribuzione di incentivi economici, premi e la progressione di carriera. Non esistono, in questa normativa, spazi per procedure valutative fini a se stesse, destinate unicamente a soddisfare l’amor proprio o l’autostima del dipendente.

Le procedure di valutazione, secondo la Cassazione, sono strumentali al raggiungimento di obiettivi specifici e non costituiscono un’occasione per un generico giudizio sulla persona. Pertanto, un’azione legale volta a ottenere una revisione migliorativa di una valutazione già positiva, che ha già prodotto i suoi effetti (incentivi) e non ne produrrà altri in futuro (carriera), non trova fondamento nel sistema giuridico. L’azione è infondata non per mancanza di interesse, ma per l’assenza di un diritto soggettivo alla “soddisfazione personale” svincolata da conseguenze tangibili.

Le conclusioni: interesse morale non equivale a diritto soggettivo

In definitiva, la Corte di Cassazione ha stabilito un principio importante: se da un lato si riconosce l’esistenza di un interesse ad agire anche di natura morale, dall’altro si nega che questo possa fondare un’azione giudiziaria se il sistema normativo di riferimento non prevede la tutela di tale interesse. Le procedure di valutazione della performance nel pubblico impiego sono state create con uno scopo preciso: collegare la prestazione a benefici concreti. Al di fuori di questo perimetro, la ricerca di una valutazione “migliore” per sola soddisfazione personale non costituisce un diritto che possa essere fatto valere in tribunale. Il ricorso è stato quindi rigettato e il dipendente condannato al pagamento delle spese processuali.

Un dipendente ha interesse ad agire per ottenere una valutazione della performance migliore, anche se quella ricevuta è già positiva?
Sì, secondo la Cassazione, il lavoratore ha un interesse ad agire, inteso come interesse morale alla corretta valutazione della propria attività, perché l’annullamento e la ripetizione della procedura potrebbero in astratto soddisfare tale interesse.

Perché il ricorso è stato rigettato se la Corte ha riconosciuto un interesse morale del lavoratore?
Il ricorso è stato rigettato perché, nonostante la sussistenza dell’interesse ad agire, non esiste un diritto soggettivo tutelabile. La normativa sulla valutazione della performance (D.Lgs. 150/2009) la lega esclusivamente a effetti concreti (incentivi, carriera). Non prevede una tutela per la mera soddisfazione morale di ottenere una valutazione migliore quando non vi sono conseguenze patrimoniali o di carriera.

Qual è lo scopo principale delle procedure di valutazione della performance secondo la normativa citata dalla Corte?
Lo scopo principale è quello di attribuire incentivi, premi e regolare le progressioni economiche e di carriera. Le valutazioni sono uno strumento per produrre effetti concreti e favorevoli per il dipendente e non sono finalizzate a un generico apprezzamento della persona o a soddisfare l’autostima.

La selezione delle sentenze e la raccolta delle massime di giurisprudenza è a cura di Carmine Paul Alexander TEDESCO, Avvocato a Milano, Pesaro e Benevento.

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