Ordinanza di Cassazione Civile Sez. L Num. 33751 Anno 2024
Civile Ord. Sez. L Num. 33751 Anno 2024
Presidente: COGNOME
Relatore: COGNOME
Data pubblicazione: 21/12/2024
ORDINANZA
sul ricorso 5428-2023 proposto da:
RAGIONE_SOCIALE in persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, INDIRIZZO presso lo RAGIONE_SOCIALE, rappresentata e difesa dall’avvocato NOME COGNOME;
– ricorrente –
contro
COGNOME, domiciliato in ROMA INDIRIZZO presso LA CANCELLERIA DELLA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE, rappresentato e difeso dall’avvocato COGNOME;
– controricorrente –
avverso la sentenza n. 984/2022 della CORTE D’APPELLO di MESSINA, depositata il 27/12/2022 R.G.N. 787/2022; udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del
20/11/2024 dal Consigliere Dott. NOME COGNOME
Oggetto
R.G.N. 5428/2023
COGNOME
Rep.
Ud. 20/11/2024
CC
Fatti di causa
La Corte d’appello di Messina, con la sentenza in atti, in accoglimento del reclamo principale proposto da COGNOME COGNOME ha dichiarato la nullità del licenziamento a lui irrogato il 6.3.2020 e in riforma della sentenza impugnata ha condannato Poste Italiane alla reintegrazione del lavoratore nel posto di lavoro ed al pagamento di un’indennità risarcitoria commisurata all’ultima retribuzione globale di fatto dal giorno del licenziamento sino a quello dell’effettiva reintegrazione, dedotto quanto il lavoratore avesse eventualmente percepito nel periodo di estromissione, oltre contributi accessori e spese legali, riconoscendo la tutela indennitaria forte di cui al 4° comma dell’art.18 l.300/70 come novellato dalla legge n. 92/2012 (sic).
La Corte d’appello ha rilevato che il ricorrente COGNOME Sebastiano era stato licenziato in data 6 marzo 2020 in relazione ai fatti commessi 13 anni prima e dopo tre anni dalla sentenza penale che aveva definito la vicenda penale, in data 10 aprile 2017 con dichiarazione di prescrizione del reato.
Il giudice di primo grado aveva pertanto confermato in sede di opposizione che i fatti erano provati, mentre la contestazione disciplinare era tardiva perché appunto avvenuta a distanza di 13 anni dai fatti e dopo tre anni dalla sentenza che aveva definito la vicenda penale ed inoltre dopo che Poste Italiane aveva pure proceduto all’assunzione del Cammarata nel 2010, quando era già a conoscenza del fatto e delle indagini a suo carico. Sia in sede sommaria che in fase di opposizione era stata quindi riconosciuta la tutela indennitaria pari a 18 mensilità e rigettata la richiesta di reintegrazione.
La sentenza di primo grado era stata reclamata in via principale dal lavoratore che proponeva censure di merito relative all’addebitabilità della soppressione della corrispondenza; ed in
via incidentale da Poste Italiane che contestava invece la sentenza relativamente al rigetto dei motivi di opposizione incidentale con cui si chiedeva di rigettare in ogni caso il ricorso del lavoratore e di assolvere Poste Italiane da tutte le domande formulate in giudizio accertando la sussistenza della giusta causa di recesso e la legittimità del licenziamento in relazione alla ritenuta tardività.
La Corte d’appello accogliendo il reclamo principale ha affermato con la gravata pronuncia che anzitutto né la sentenza penale né le sommarie informazioni rese in fase di indagini preliminari consentivano di affermare che il Cammarata fosse da ritenere responsabile dell’abbandono di corrispondenza affidatagli, avvenuto nel paese di Ucria ad opera dell’agente postale addetto al recapito in servizio presso l’UP di Castel’Umberto. Andava inoltre osservato alla luce della documentazione in atti che il fatto materiale dell’abbandono era riferito ad un unico evento e che non vi era prova che esso fosse stato commesso dal Cammarata ovvero in periodo in cui egli prestava servizio come postino avendo fruito del congedo ordinario nelle giornate dal 20 al 24 febbraio 2007. Mentre gli effetti postali che erano stati abbandonati, con timbro 16 e 17 febbraio (provenienti anche da Catania e da Milano), non potevano essere stati consegnati con certezza dal lavoratore se non a partire dal lunedì 19 febbraio, tenuto conto dei vari passaggi e dei tempi di smistamento.
Inoltre il caposquadra dei portalettere a Castel’Umberto, colui il quale formava i turni di lavoro giornaliero, aveva sostenuto con sicurezza che nel febbraio 2007 i portalettere che sostituivano il dipendente su Ucria erano più di uno, anche se non era in grado di riferire quanti esattamente fossero.
Si doveva pertanto desumere che non poteva ritenersi esistente alcuna prova, neppure sotto il profilo della ragionevole probabilità, che il COGNOME fosse in servizio il giorno in cui si
era verificato l’abbandono di corrispondenza, né che, seppure in servizio, ne fosse responsabile in luogo dell’altro portalettere.
La Corte ha dichiarato assorbite le ulteriori ragioni di reclamo sollevate dal COGNOME e rigettate quelle di reclamo incidentale sollevate da Poste Italiane. Ed ha letteralmente riconosciuto la tutela di cui al IV comma dell’art 18 novellato, applicando però quella del primo comma.
Contro la sentenza ha proposto ricorso per cassazione RAGIONE_SOCIALE con due motivi ai quali ha resistito COGNOME Sebastiano con controricorso illustrato da memoria ai sensi dell’art. 380bis1 c.p.c. Il collegio ha riservato la motivazione, ai s ensi dell’art. 380bis1, secondo comma, ult. parte c.p.c.
Ragioni della decisione
1.- Con il primo motivo si deduce, ex articolo 360 n. 3 c.p.c., violazione e falsa applicazione degli articoli 115 e 116 c.p.c. per avere la Corte territoriale ritenuto non provata la credibilità dei fatti contestati al signor COGNOME e per aver di conseguenza in riforma della sentenza di primo grado ritenuto insussistente la giusta causa del recesso per insussistenza del fatto, nonostante le risultanze istruttorie avessero chiaramente dimostrato il contrario; sia in relazione ai giorni in cui era stato stata soppressa la corrispondenza, sia in relazione al fatto che COGNOME era l’unico portalettere impegnato nella distribuzione su Ucria.
1.1. Il motivo è inammissibile: esso solo formalmente denuncia errori di diritto, anche attraverso l’improprio riferimento agli artt. 115 e 116 (cfr. Cass. n. 23940 del 2017 e Cass. n. 25192 del 2016, con la giurisprudenza ivi richiamata), mentre nella sostanza critica la sentenza impugnata per come ha valutato le prove e ricostruito, in base ad esse, l’accaduto in ordine all’abbandono della corrispondenza, escludendo che sussistesse
la prova della commissione del fatto ad opera del lavoratore per i motivi già indicati nello storico della lite.
1.2. In proposito, occorre considerare che gli accertamenti di fatto non sono sindacabili in sede di legittimità oltre i limiti imposti dal novellato art. 360, co. 1, n. 5, c.p.c., così come rigorosamente interpretato dalle Sezioni unite di questa Corte con le sentenze n. 8053 e n. 8054 del 2014 (con principi costantemente ribaditi dalle stesse Sezioni unite v. n. 19881 del 2014, n. 25008 del 2014, n. 417 del 2015, oltre che dalle Sezioni semplici), di cui parte ricorrente non tiene alcun conto, pretendendo piuttosto una rivalutazione degli accadimenti storici ed una revisione del giudizio di fatto non ammissibile in questa sede.
3. Deve poi ribadirsi, in consonanza con l’orientamento di questa Corte (v. Cass., S.U. n. 20867 del 2020; Cass. n. 11892 del 2016; Cass. n. 25029 del 2015; Cass. n. 25216 del 2014), che la violazione dell’art. 115 c.p.c. può essere dedotta come vizio di legittimità qualora il giudice, esercitando il suo potere discrezionale nella scelta e valutazione degli elementi probatori, ometta di valutare le risultanze di cui la parte abbia esplicitamente dedotto la decisività, salvo escluderne in concreto, motivando sul punto, la rilevanza; non ammetta le prove ed affermi che la domanda non sia provata; ovvero quando egli ponga alla base della decisione fatti che erroneamente ritenga notori o la sua scienza personale. In modo parallelo, la violazione dell’art. 116 c.p.c. presuppone che il giudice abbia valutato una prova legale secondo prudente apprezzamento o un elemento di prova liberamente valutabile come prova legale. Nessuna di queste situazioni è rappresentata nel motivo di ricorso in esame, ove è unicamente dedotto che il giudice ha male esercitato il suo prudente apprezzamento della prova, censura consentita solo ai sensi dell’art. 360, primo
comma, n. 5, c.p.c. nel caso di specie non integrato nei requisiti richiesti dal nuovo testo.
2.- Con il secondo motivo di ricorso si deduce, ex articolo 360 n.3 c.p.c., violazione falsa applicazione dell’articolo 112 c.p.c. per omessa pronuncia sulla tempestività della contestazione e sul pieno riconoscimento del diritto di difesa del signor COGNOME per avere la Corte d’appello ritenuto assorbita la questione della tempestività e immediatezza della contestazione disciplinare elevata al signor COGNOME una volta accertato il venir meno della giusta causa di recesso.
2.1. Il motivo è inammissibile per carenza di interesse; una volta riconosciuta e provata l ‘insussistenza del fatto e accolta l a domanda in relazione alla tutela maggiore discendente dall’insussistenza del fatto, il giudice non era tenuto a delibare anche il reclamo incidentale fondato sul rilievo della tempestività della contestazione non avendo alcun rilievo ai fini dell’accogli mento della domanda e della definizione del giudizio, dovendosi ritenere che il giudice abbia implicitamente considerato tempestiva la contestazione -e dunque correttamente esercitato sotto il profilo formale il potere disciplinare della datrice di lavoro -ma insussistente il fatto contestato.
A fronte di questa pronuncia, non è dedotto da Poste alcun apprezzabile interesse ad ottenere il suddetto autonomo ed ulteriore accertamento in ordine ad un’eccezione sollevata dal lavoratore ed implicitamente ma logicamente respinta e rispetto alla quale non si ravvisa pertanto alcuna soccombenza di Poste.
2.2. Nessuna censura specifica è stata invece proposta in ordine alla tutela reintegratoria piena in concreto accordata dalla Corte di appello nel caso di specie.
Il ricorso deve essere quindi dichiarato inammissibile. Le spese di lite seguono il criterio della soccombenza dettato
dall’art. 91 c.p.c., con distrazione in favore dell’Avv. NOME COGNOME antistatario. Sussistono le condizioni di cui all’art. 13, comma 1 quater, d.P.R.115 del 2002,
P.Q.M.
La Corte dichiara l’inammissibilità del ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese del giudizio che liquida in euro 5.500,00 per compensi professionali, euro 200,00 per esborsi, 15% per spese forfettarie, oltre accessori dovuti per legge, co n distrazione in favore dell’Avv. NOME COGNOME antistatario.
Ai sensi dell’art. 13 comma 1 quater del d.P.R. n. 115 del 2002 dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento da parte della ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso a norma dell’art.13 comma 1 bis del citato d.P.R., se dovuto.
Così deciso nella camera di consiglio del 20.11.2024