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Insussistenza del fatto: reintegra e licenziamento

Un supermercato ha licenziato un dipendente per aver prelevato merce scaduta. I tribunali, fino alla Cassazione, hanno dichiarato il licenziamento illegittimo per insussistenza del fatto, poiché il bene non aveva valore economico e la condotta era inoffensiva. La Corte ha confermato la reintegrazione del lavoratore, chiarendo che l’insussistenza del fatto si configura anche quando l’atto, pur accaduto, è privo della necessaria illiceità per giustificare la massima sanzione.

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Pubblicato il 26 dicembre 2025 in Diritto del Lavoro, Giurisprudenza Civile, Procedura Civile

Insussistenza del fatto: la Cassazione conferma la reintegra del lavoratore

L’insussistenza del fatto contestato è una delle cause più significative di illegittimità del licenziamento disciplinare, con conseguenze importanti per il datore di lavoro, inclusa la reintegrazione del dipendente. Una recente ordinanza della Corte di Cassazione ha ribadito questo principio in un caso emblematico, riguardante un lavoratore licenziato per aver prelevato merce scaduta. Analizziamo la decisione per capire quando un fatto, pur materialmente accaduto, può essere considerato giuridicamente inesistente.

La vicenda: il licenziamento per merce scaduta

Il caso ha origine dal licenziamento per giusta causa intimato da una società della grande distribuzione a un proprio dipendente. L’accusa era di aver prelevato due confezioni di carne scaduta, prodotti destinati allo smaltimento. Secondo l’azienda, tale comportamento costituiva una grave violazione degli obblighi di fedeltà e diligenza, tale da ledere irrimediabilmente il rapporto di fiducia.

La decisione dei giudici di merito

Sia il Tribunale di primo grado sia la Corte d’Appello hanno dato ragione al lavoratore, dichiarando illegittimo il licenziamento. I giudici hanno stabilito che il fatto contestato era insussistente. La motivazione si fondava su due pilastri:

1. Mancanza di valore patrimoniale: La merce era scaduta e quindi priva di qualsiasi valore economico per l’azienda.
2. Inoffensività della condotta: Il prelievo di beni senza valore non poteva arrecare un danno concreto all’azienda e, di conseguenza, non poteva essere considerato una violazione così grave da giustificare la sanzione espulsiva.

Per queste ragioni, i giudici hanno ordinato la reintegrazione del lavoratore nel posto di lavoro e il risarcimento del danno, applicando la tutela prevista dall’art. 18, comma 4, della Legge n. 300/1970.

Il ricorso in Cassazione e l’insussistenza del fatto

L’azienda ha impugnato la decisione dinanzi alla Corte di Cassazione, sostenendo che la Corte d’Appello avesse erroneamente valutato le prove, in particolare riguardo alla conoscenza da parte del lavoratore delle corrette procedure di smaltimento.

La distinzione tra violazione di legge e vizio di motivazione

La Cassazione ha preliminarmente chiarito un punto cruciale del processo civile: la differenza tra la denuncia di una “violazione di legge” e quella di un “vizio di motivazione”. Il ricorso in Cassazione è ammissibile per la prima (un’errata interpretazione della norma di legge), ma non per la seconda, che equivarrebbe a chiedere ai giudici di legittimità una nuova valutazione dei fatti, preclusa in quella sede, specialmente in presenza di una “doppia conforme” (due decisioni identiche nei gradi di merito).

Le motivazioni della Corte di Cassazione

La Suprema Corte ha rigettato il ricorso, ritenendo le argomentazioni dell’azienda un tentativo di ottenere un riesame del merito della vicenda. I giudici di legittimità hanno confermato la correttezza del ragionamento della Corte d’Appello. Quest’ultima aveva correttamente considerato tutti gli elementi del caso: la natura del rapporto, la posizione delle parti, l’assenza di danno, la portata soggettiva dei fatti e l’intensità dell’elemento intenzionale.

Quando si applica la tutela reintegratoria?

La Corte ha ribadito un principio fondamentale: la nozione di insussistenza del fatto che giustifica la reintegrazione non si limita ai casi in cui l’evento non è mai accaduto. Essa si estende anche alle ipotesi in cui il fatto, pur materialmente verificatosi, è privo del carattere di illiceità o della gravità necessaria per costituire una violazione disciplinare. Nel caso specifico, sottrarre un bene privo di valore è stato giudicato un comportamento talmente lieve da essere giuridicamente irrilevante ai fini del licenziamento.

Le conclusioni: implicazioni pratiche della sentenza

Questa ordinanza offre importanti spunti di riflessione per datori di lavoro e dipendenti. In primo luogo, conferma che non ogni violazione formale può giustificare un licenziamento per giusta causa. È sempre necessaria una valutazione di proporzionalità tra il fatto commesso e la sanzione applicata. In secondo luogo, il concetto di insussistenza del fatto viene interpretato in senso sostanziale: se la condotta non lede alcun interesse meritevole di tutela del datore di lavoro, il licenziamento è illegittimo e si applica la massima tutela, ovvero la reintegrazione. Infine, la decisione sottolinea i limiti del sindacato della Corte di Cassazione, che non può trasformarsi in un terzo grado di giudizio sul merito dei fatti.

Quando un licenziamento può essere annullato per “insussistenza del fatto”?
Un licenziamento può essere annullato per insussistenza del fatto non solo quando l’evento contestato non è materialmente accaduto, ma anche quando il fatto, pur essendo avvenuto, è giuridicamente irrilevante, ovvero privo del carattere di illiceità o della gravità necessaria per giustificare la sanzione espulsiva.

Prendere merce scaduta e senza valore economico dall’azienda costituisce giusta causa di licenziamento?
No, secondo questa ordinanza. La Corte ha ritenuto tale condotta inoffensiva e priva della capacità di ledere il rapporto di fiducia, poiché il bene sottratto non aveva alcun valore patrimoniale per l’azienda. Di conseguenza, non integra una giusta causa di licenziamento.

In caso di licenziamento illegittimo per insussistenza del fatto, quale tutela si applica al lavoratore?
Si applica la cosiddetta “tutela reintegratoria”, prevista dall’articolo 18, comma 4, dello Statuto dei Lavoratori. Questa tutela obbliga il datore di lavoro a reintegrare il dipendente nel suo posto di lavoro e a corrispondergli un risarcimento del danno.

La selezione delle sentenze e la raccolta delle massime di giurisprudenza è a cura di Carmine Paul Alexander TEDESCO, Avvocato a Milano, Pesaro e Benevento.

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