Ordinanza di Cassazione Civile Sez. L Num. 32533 Anno 2024
Civile Ord. Sez. L Num. 32533 Anno 2024
Presidente: COGNOME
Relatore: NOME COGNOME
Data pubblicazione: 14/12/2024
ORDINANZA
sul ricorso 35-2021 proposto da:
RAGIONE_SOCIALE, in persona del legale rappresentante pro tempore, domiciliata in ROMA, INDIRIZZO presso LA CANCELLERIA DELLA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE, rappresentata e difesa dall’avvocato COGNOME;
– ricorrente –
contro
COGNOME domiciliata in ROMA, INDIRIZZO presso LA CANCELLERIA DELLA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE, rappresentata e difesa dall’avvocato NOME COGNOME
– controricorrente –
avverso la sentenza n. 230/2020 della CORTE D’APPELLO di L’AQUILA, depositata il 04/06/2020 R.G.N. 643/2019; udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del
09/10/2024 dal Consigliere Dott. NOME COGNOME
R.G.N. 35/2021
COGNOME
Rep.
Ud. 09/10/2024
CC
RILEVATO CHE
La Corte d’Appello di L’Aquila ha rigettato l’appello proposto dalla Fondazione Istituto Santa Caterina, confermando la sentenza del Tribunale di Chieti n. 159/2019, che aveva riconosciuto a favore della signora NOME COGNOME il diritto al superiore inquadramento nel livello D come operatore sociosanitario del CCNL per il personale dipendente da residenze sanitarie assistenziali e centri di riabilitazione, condannando altresì la Fondazione al pagamento delle differenze retributive dalla data di assunzione al 27/03/2018.
per la cassazione della predetta sentenza propone ricorso la fondazione, con 4 motivi, cui resiste con controricorso COGNOME NOME quest’ultima ha depositato memoria; al termine della camera di consiglio, il Collegio si è riservato il deposito de ll’ordinanza;
CONSIDERATO CHE
Con il primo motivo di ricorso, proposto ai sensi dell’art. 360, comma 1, n. 3 c.p.c., la Fondazione Istituto Santa Caterina lamenta la violazione dell’art. 1, comma 8 del decreto-legge 12 novembre 2001, n. 402, convertito con modificazioni dalla legge 8 gennaio 2001, n. 2. L’ente ricorrente sostiene che la Corte d’Appello avrebbe errato nel ritenere non necessario, ai fini dell’attribuzione della qualifica superiore, il possesso dell’attestato di operatore socio -sanitario con formazione complementare in assistenza sanitaria, in contrasto con quanto previsto dalla disciplina di settore; segnatamente dall’accordo tra il Ministro della salute, il Ministro del lavoro e delle politiche sociali e le Regioni e le Province autonome per la disciplina della formazione complementare in assistenza sanitaria.
Con il secondo motivo di ricorso, formulato ai sensi dell’art. 360, comma 1, n. 3 c.p.c., la Fondazione lamenta la violazione o falsa applicazione di norme di diritto e dei contratti e accordi collettivi nazionali di lavoro, in particolare il CCNL RAGIONE_SOCIALE, che la Corte di appello avrebbe volato, riconoscendo il superiore inquadramento lavorativo della dipendente, senza tener conto delle norme contrattuali che prevedono specifici requisiti professionali per lo stesso. Né dalla prova testimoniale sarebbe emerso come la ricorrente avesse svolto mansioni corrispondenti al superiore inquadramento.
Con il terzo motivo di ricorso, proposto ai sensi dell’art. 360, comma 1, n. 3 c.p.c., la ricorrente deduce la violazione del D.M. 10.2.1984 in cui sarebbe incorsa la corte nell’escludere che la ricorrente svolgesse le mansioni proprie del profilo professionale di inquadramento (ausiliario specializzato) descritte dalla norma.
Con il quarto motivo di ricorso, proposto ai sensi dell’art. 360, comma 1, n. 5 c.p.c., la Fondazione afferma che la Corte d’Appello avrebbe omesso di considerare la presenza di lavoratori abilitati regolarmente inquadrati come OSSS alle dipendenze della Fondazione aspetto rilevante da cui desumere la necessità del titolo di operatore socio-sanitario con formazione complementare per il superiore inquadramento, titolo di cui la lavoratrice non è in possesso.
Il ricorso è inammissibile. Dalla mera lettura dei primi tre motivi di ricorso, che possono essere esaminati congiuntamente, si evince che gli stessi, pur se formulati quali violazioni di legge, introducono tuttavia, con una tecnica espositiva non chiara né sintetica, delle doglianze inammissibili, traducendosi nella proposta di una diversa lettura dei fatti e delle prove alternativa quella ragionatamente e logicamente
proposta, con pronunce conformi, dalle sentenze di primo grado e di appello.
L’intero ricorso appare, invero, redatto in violazione del dovere di chiarezza e sinteticità espositiva degli atti processuali che, fissato dall’art. 3, comma 2, del c.p.a., esprime tuttavia un principio generale del diritto processuale, destinato ad operare anche nel processo civile recentemente ribadito con la riformulazione, ad opera del decreto legislativo n. 149/2022, dell’art. 121 c.p.c. (che ‘codifica i principi di ‘chiarezza e sinteticità degli atti del giudice e delle parti’), dell’art. 46 disp . Att. C.p.c. e del Decreto 7 agosto 2023, n. 110 contenente il ‘Regolamento per la definizione dei criteri di redazione, dei limiti e degli schemi informatici degli atti giudiziari’. Tali principi di sinteticità e chiarezza, tuttavia, risultavano già da tempo affermati da questa corte, poiché immanenti al sistema, con numerose pronunce che avevano affermato l’inammissibilità dell’impugnazione per il pregiudizio di intelligibilità delle questioni, allorchè sia oscura l’esposizione dei fatti di causa e confuse le censure mosse alla sentenza gravata, ridondando nella violazione delle prescrizioni di cui ai nn. 3 e 4 dell’art. 366 c.p.c., assistite da una sanzione testuale di inammissibilità (Cass. 21297/16; Cass. 8425/19).
Nel caso di specie, in particolare, risultano dedotti i motivi in maniera non rispondente al modello paradigmatico ex artt. 360, co. 1 e 366, co.1, n. 4 c.p.c., con formulazione inconferente rispetto alla censura esposta ( pur deducendo violazione di le gge ci si sofferma sull’esame delle risultanze probatorie, e della valutazione delle stesse da parte della Corte), in difetto dell’indicazione adeguata persino delle norme di diritto né di contratto collettivo asseritamente violati si finisce, in sostanza per contestare la valutazione probatoria esitata
nell’accertamento in fatto, congruamente argomentato dalle sentenze di merito e dunque insindacabile in sede di legittimità.
La corte di appello, invero, ha evidenziato che i testimoni hanno confermato lo svolgimento da parte della COGNOME delle attività proprie dell’operatore socio -sanitario, come l’assistenza al paziente non autosufficiente, l’igiene personale, la deamb ulazione, l’assunzione dei pasti e l’attuazione degli interventi di primo soccorso, tutti compiti riconducibili alla declaratoria del livello D, concludendo che la Fondazione non ha fornito alcuna prova contraria ed evidenziando come la COGNOME, ad og ni modo, avesse conseguito l’abilitazione allo svolgimento delle mansioni di operatore socio-sanitario frequentando un corso ufficiale organizzato dalla ASL di Pescara e autorizzato dalla Regione Abruzzo.
Del pari inammissibile il quarto motivo, che denuncia l’omesso esame di un fatto decisivo, inammissibile nel caso di specie, in una ipotesi preclusa dalla ricorrenza di una cd. ‘doppia conforme’ (cfr. art. 348 ter, ultimo comma, c.p.c., in seguito art. 360, comma 4, c.p.c., per le modifiche introdotte dall’art. 3, commi 26 e 27, d. lgs. n. 149 del 2022), senza indicare le ragioni di fatto poste a base, rispettivamente, della decisione di primo grado e della sentenza di rigetto dell’appello, dimostrando che esse sono tra loro diverse (v. Cass. n. 26774 del 2016; conf. Cass. n. 20944 del 2019).
Alla declaratoria di inammissibilità consegue il raddoppio del contributo unificato, ove dovuto nella ricorrenza dei presupposti processuali;
P.Q.M.
La Corte dichiara inammissibile il ricorso.
Condanna parte ricorrente alla rifusione delle spese del presente giudizio, che liquida in € 4000,0 per compensi, € 200 per esborsi, spese generali al 15%, accessori di legge, in favore del procuratore del controricorrente, per dichiarato anticipo.
Ai sensi dell’art. 13 comma 1 quater del d.p.r. n. 115 del 2002, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma del comma 1 bis dello stesso art. 13, se dovuto.
Così deciso in Roma, nell’Adunanza camerale del 9 ottobre