Ordinanza di Cassazione Civile Sez. L Num. 30197 Anno 2025
Civile Ord. Sez. L Num. 30197 Anno 2025
Presidente: COGNOME
Relatore: COGNOME NOME
Data pubblicazione: 16/11/2025
ORDINANZA
sul ricorso 10220-2024 proposto da:
RAGIONE_SOCIALE (già RAGIONE_SOCIALE), in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentata e difesa dagli avvocati NOME COGNOME, NOME;
– ricorrente –
contro
COGNOME NOME, COGNOME NOME , rappresentati e difesi dagli avvocati NOME COGNOME, ERNESTO NOME COGNOME;
– controricorrenti –
avverso la sentenza n. 909/2023 della CORTE D’APPELLO di MILANO, depositata il 30/10/2023 R.G.N. 588/2023; udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 21/10/2025 dal AVV_NOTAIO COGNOME.
Oggetto
Mansioni superiori
R.G.N.NUMERO_DOCUMENTO2024
COGNOME.
Rep.
Ud 21/10/2025
CC
FATTI DI CAUSA
La Corte di Appello di Milano, con la sentenza impugnata, in riforma sul punto della pronuncia di primo grado, ha condannato RAGIONE_SOCIALE a corrispondere a NOME COGNOME e NOME COGNOME ‘ il trattamento retributivo spettante sulla base dell’inquadramento al 4° livello CCNL Telecomunicazioni per il periodo dal 6 agosto 2019 al l’11 luglio 2020 , da liquidarsi in separato giudizio’.
In sintesi e per quanto possa rilevare in questa sede di legittimità, la Corte territoriale ha preliminarmente richiamato ‘le declaratorie contrattuali dei livelli inquadramento e dei profili professionali rilevanti ai fini della decisione’, sia con riguar do all’inquadramento attribuito dalla società (3° livello), sia con riferimento a quello rivendicato dai lavoratori (4° livello); ha accertato che dall’istruttoria espletata emergeva che ‘l’ attività svolta dagli appellanti non si esauriva nel riportare al cliente informazioni e dati forniti dal sistema, ma comportava la ricerca di soluzioni ai problemi segnalati dai clienti, pur nell’ambito di metodologie consolidate e con il supporto dei sistemi informativi a disposizione. Tali attività richiedevano anche capacità di relazione con il cliente, soprattutto nei casi in cui l’operatore si trovava a gestire una lamentela o doveva cercare di convincere il cliente a desistere dal disdettare il contratto’; secondo la Corte, quindi, si trattava di attività connot ate da ‘capacità di relazione interpersonale e autonomia esecutiva, attività di informazione, vendita di servizi, attività di interfaccia verso la clientela sui servizi e sulle funzioni delle reti’, come tali riconducibili al profilo professionale di ‘operatore di call center’, appartenente al 4° livello del CCNL applicato.
Per la cassazione di tale sentenza ha proposto ricorso la società soccombente con tre motivi; hanno resistito con controricorso gli intimati.
La ricorrente ha comunicato memoria.
All’esito della camera di consiglio, il Collegio si è riservato il deposito dell’ordinanza nel termine di sessanta giorni.
RAGIONI DELLA DECISIONE
I motivi di ricorso possono essere sintetizzati come da rubriche esposte da parte ricorrente:
1.1. il primo denuncia: ‘violazione e falsa applicazione dell’art. 2103 c.c., nonché degli artt. 1362 e segg. c.c. in ordine alla interpretazione ed applicazione dell’art. 23 del CCNL Telecomunicazioni; così come dell’art. 2697 c.c. e 116 c.p.c. in relazione a ll’art. 360, 1° co, n° 3, c.p.c.’;
1.2. il secondo motivo deduce: ‘violazione e/o falsa applicazione dell’art. 246 c.p.c. in relazione all’art. 360, n. 3, c.p.c. e, in ogni caso, autonomamente, violazione e falsa applicazione dell’art. 116 e, in ragione di tanto, dello stesso art.115, c.p.c., anche sotto il profilo della violazione dell’art. 132, n. 4, c.p.c., con conseguente nullità della sentenza in relazione all’art. 360, comma 1 n. 4 cpc.’;
1.3. il terzo motivo denuncia: ‘violazione e falsa applicazione dell’art. 278 c.p.c. e dell’art. 111, 2° co, della Carta costituzionale, in relazione all’art. 360, n. 3, c.p.c. Inammissibilità della domanda limitata al solo an debeatur . Nullità della sentenza che su tanto positivamente si pronunci.’
Il ricorso non può trovare accoglimento.
2.1. Il primo motivo è da respingere.
La Corte territoriale ha operato ben consapevole della giurisprudenza di legittimità in materia di inquadramento superiore (di recente v. Cass. n. 22198 del 2024).
Invero, non ha affatto disatteso il consolidato orientamento, oramai stratificato (tra molte: Cass n. 30580 del 2019; Cass. n. 10961 del 2018; Cass. n. 21329 del 2017; Cass. n. 39 del 2016; Cass. n. 24544 del 2015; Cass. n. 18040 del 2015), secondo il qual e l’accertamento del diritto all’inquadramento superiore avviene seguendo un procedimento logico-giuridico articolato in tre fasi successive: occorre accertare in fatto le attività concretamente svolte dal lavoratore, individuare poi la qualifica rivendicata e le mansioni alla stessa riconducibili secondo la disciplina dettata dalla contrattazione collettiva ed infine verificare che le prime corrispondano a queste ultime; in particolare, si è precisato che, ai fini della determinazione dell’inquadramento sp ettante al lavoratore alla stregua delle qualifiche previste dalla disciplina collettiva di diritto comune, al giudice del merito spetta dapprima identificare le qualifiche o categorie, interpretando le disposizioni collettive secondo i criteri di cui agli artt. 1362 ss. c.c.; deve poi accertare le mansioni di fatto esercitate e deve infine confrontare le categorie o qualifiche così identificate con le mansioni svolte in concreto; mentre la prima operazione logica può essere censurata in sede di legittimità come violazione di legge per falsa o errata applicazione dei canoni ermeneutici anzidetti -ovvero, nel caso di contratti e accordi collettivi nazionali di lavoro, successivamente alla modifica dell’art. 360, c. 1, n. 3, c.p.c., operata dal d.lgs. 2 febbraio 2006, n. 40, art. 2, anche per violazione o falsa applicazione di detta disciplina collettiva (ab imo Cass. n. 6335 del 2014) -le altre due operazioni logiche attengono ad apprezzamenti di fatto ( ex pluribus , Cass.
n. 17896 del 2007; Cass. n. 26233 del 2008; Cass. n. 26234 del 2008); si è poi evidenziato che l’osservanza del cd. criterio “trifasico” non richiede che il giudice si attenga pedissequamente alla ripetizione di una rigida e formalizzata sequenza delle azioni fissate dallo schema procedimentale, ove risulti che ciascuno dei momenti di accertamento, di ricognizione e di valutazione abbia trovato concreto ingresso nel ragionamento decisorio (tra molte: Cass. n. 18943 del 2016). Ciò posto, la sentenza impugnata ha certamente operato secondo la sequenza procedimentale stabilita dall’orientamento richiamato, mentre la parte ricorrente, più che evidenziare realmente un errore di interpretazione che sarebbe stato commesso nell’ascrizi one di significato alle declaratorie contrattuali, nella sostanza critica apprezzamenti di merito compiuti dai giudici ai quali il merito compete – in ordine ai connotati di autonomia operativa e di capacità di relazione personale che caratterizzavano l ‘attività in concreto svolta dai lavoratori, come tale riconducibile al superiore inquadramento rivendicato; si tratta di apprezzamenti di merito, anche avuto riguardo alla contestata prevalenza dei compiti, i quali tengono conto delle circostanze del caso concreto e della valutazione delle risultanze istruttorie, che evidentemente non possono essere oggetto di diverso giudizio in questa sede di legittimità. Tanto più ove accompagnati da doglianze che impropriamente evocano la violazione dell’art. 2697 c.c. o dell’art. 116 c.p.c. Per il primo aspetto, la violazione dell’art. 2697 c.c. è censurabile per cassazione ai sensi dell’art. 360, co. 1, n. 3 c.p.c., soltanto nell’ipotesi in cui il giudice abbia attribuito l’onere della prova ad una parte diversa da quella che ne fosse onerata secondo le regole di scomposizione delle fattispecie basate sulla differenza tra fatti costitutivi ed eccezioni e non
invece laddove oggetto di censura sia la valutazione che il giudice abbia svolto delle prove proposte dalle parti (Cass. n. 15107 del 2013; Cass. n. 13395 del 2018; Cass. n. 26769 del 2018), mentre nella specie parte ricorrente critica l’apprezzamento oper ato dai giudici del merito, opponendo una diversa valutazione.
Per il secondo aspetto, come ribadito dalle Sezioni unite di questa Corte (cfr. Cass. SS.UU. n. 20867 del 2020; di recente, tra le innumerevoli conformi, v. Cass. n. 9731 del 2025), la violazione dell’art. 116 c.p.c. è riscontrabile solo ove si alleghi che il giudice, nel valutare una prova o, comunque, una risultanza probatoria, non abbia operato – in assenza di diversa indicazione normativa -secondo il suo «prudente apprezzamento», pretendendo di attribuirle un altro e diverso valore, oppure il valore che il legislatore attribuisce ad una differente risultanza probatoria (come, ad esempio, valore di prova legale), nonché, qualora la prova sia soggetta ad una specifica regola di valutazione, abbia invece dichiarato di valutare la stessa secondo il suo prudente apprezzamento, mentre, ove si deduca che il giudice ha solamente male esercitato il suo prudente apprezzamento della prova, la censura era consentita ai sensi dell’art. 360, primo comma, n. 5, c.p.c., nel testo previgente ed ora solo in presenza dei gravissimi vizi motivazionali individuati da questa Corte fin da Cass. SS.UU. nn. 8053 e 8054 del 2014.
2.2. Il secondo motivo è inammissibile nella parte in cui eccepisce, con errata modalità, non solo la violazione dell’art. 116 c.p.c., ma anche dell’art. 115 c.p.c., che secondo l’arresto delle Sezioni unite n. 20867 del 2020 già richiamato -è possibile denunciare solo ove il giudice non abbia posto a fondamento della decisione le prove dedotte dalle parti, cioè
abbia giudicato in contraddizione con la prescrizione della norma, il che significa che per realizzare la violazione deve avere giudicato o contraddicendo espressamente la regola di cui alla norma, cioè dichiarando di non doverla osservare, o contraddicendola implicitamente, cioè giudicando sulla base di prove non introdotte dalle parti e disposte invece di sua iniziativa al di fuori dei casi in cui gli sia riconosciuto un potere officioso di disposizione del mezzo probatorio (mentre detta violazione non si può ravvisare nella mera circostanza che il giudice abbia valutato le prove proposte dalle parti attribuendo maggior forza di convincimento ad alcune piuttosto che ad altre).
Inoltre la censura, nella sostanza, inammissibilmente critica la valutazione di attendibilità dei testimoni che spetta al giudice del merito ( ex pluribus , Cass. n. 7623 del 2016 e Cass. n.21187 del 2019), non rappresentando la testimonianza in cause connesse neanche una ipotesi di incapacità a testimoniare (v., tra molte, Cass. n. 26044 del 2023).
Certamente, poi, non è sufficiente a determinare la nullità della sentenza per violazione del cd. minimum costituzionale la circostanza che i giudici del merito abbiano valutato l’attendibilità di testimoni diversamente dalle aspettative di chi è rimasto soccombente.
2.3. Il terzo motivo è privo di fondamento.
Per risalente insegnamento mai smentito (Cass. n. 153 del 1983; Cass. n. 5416 del 1988; Cass. n. 3503 del 1992; Cass. n. 7888 del 1997), anzi di recente ribadito rispetto ad analoga censura (Cass. n. 27255 del 2025; v. pure Cass. n. 23855 del 2024), anche nel rito del lavoro è processualmente consentito azionare la pretesa economica chiedendo solo una condanna generica.
Peraltro, il precedente rappresentato da Cass. n. 17984 del 2022, su cui appare fondarsi la censura, risulta poi disatteso dalle Sezioni unite di questa Corte con la pronuncia del 12 ottobre 2022 n. 29862.
Pertanto, il ricorso deve essere respinto nel suo complesso, con spese che seguono la soccombenza liquidate come da dispositivo, con attribuzione ai difensori dei controricorrenti che si sono dichiarati anticipatari.
Ai sensi dell’art. 13, comma 1 -quater, del d.P.R. n. 115 del 2002, nel testo introdotto dall’art. 1, comma 17, della legge n. 228 del 2012, occorre altresì dare atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente , dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello, ove dovuto, per il ricorso, a norma del comma 1bis dello stesso art. 13 (cfr. Cass. SS.UU. n. 4315 del 2020).
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso e condanna la società soccombente al pagamento delle spese liquidate in euro 5.000,00, oltre euro 200 per esborsi, accessori secondo legge e rimborso forfettario nella misura del 15%, da distrarsi.
Ai sensi dell’art. 13, co. 1 quater, d.P.R. n. 115 del 2002 dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello per il ricorso a norma del comma 1 bis dello stesso art. 13, se dovuto.
Così deciso in Roma nell’adunanza camerale del 21 ottobre 2025.
La Presidente AVV_NOTAIOssa NOME COGNOME