Ordinanza di Cassazione Civile Sez. L Num. 16605 Anno 2024
Civile Ord. Sez. L Num. 16605 Anno 2024
Presidente: COGNOME NOME
Relatore: COGNOME
Data pubblicazione: 14/06/2024
ORDINANZA
sul ricorso 31993-2019 proposto da:
COGNOME NOME, domiciliato in ROMA, INDIRIZZO, presso la CANCELLERIA DELLA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE, rappresentato e difeso dall’avvocato NOME COGNOME;
– ricorrente –
contro
RAGIONE_SOCIALE, in persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in INDIRIZZO, presso lo studio dell’avvocato NOME COGNOME, rappresentata e difesa dall’avvocato NOME COGNOME;
– controricorrente –
avverso la sentenza n. 2724/2019 della CORTE D’APPELLO di NAPOLI, depositata il 14/05/2019 R.G.N. 3759/2014; udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 27/03/2024 dalla Consigliera NOME COGNOME.
Oggetto
Inquadramento professionale
R.G.N. 31993/2019
COGNOME.
Rep.
Ud. 27/03/2024
CC
Rilevato che:
1. La Corte d’Appello di Napoli ha respinto l’appello di NOME COGNOME, confermando la sentenza di primo grado con cui era stata rigettata la domanda di superiore inquadramento per il periodo da ottobre 2000 a giugno 2005 e di condanna della datrice di lavoro, RAGIONE_SOCIALE, al pagamento delle differenze retributive e al risarcimento del danno per il demansionamento subito a partire da luglio 2005.
2. La Corte territoriale ha accertato, in base alle prove testimoniali raccolte, che le mansioni svolte dal COGNOME, nel periodo per cui è causa, avevano natura prettamente esecutiva, erano esercitate sulla base di istruzioni e direttive precise e non implicavano alcuna responsabilità, autonomia e discrezionalità e neanche coordinamento e controllo del personale addetto al servizio di vigilanza. Il COGNOME ‘lavorava in portineria, rispondeva al telefono… Qualche volta accoglieva visitatori esterni, annunciandone l’arrivo agli impiegati della RAGIONE_SOCIALE e dando le varie indicazioni, permetteva ai camion diretti al magazzino l’accesso, su richiesta degli impiegati dell’ufficio faceva qualche commissione… ritirava presso le RAGIONE_SOCIALE certificati (richiest i dagli impiegati)… si limitava a portare i documenti presso la RAGIONE_SOCIALE e a riportarli indietro vidimati, senza mai interloquire nel merito del documento… opportunamente autorizzato si recava in banca e prelevava gli assegni circolari oppure ritirava somme in contanti… effettuava acquisti di piccola merce al dettaglio su richiesta dei vari capi reparto, riceveva su autorizzazione del responsabile in amministrazione plichi contenenti denaro o assegni… distribuiva i cedolini paga… aveva piccole so mme per acquisti esterni disposti dal COGNOME al quale poi riferiva
affinché questi potesse provvedere alla rendicontazione di cassa’ (sentenza p. 3). Tale attività corrispondeva alla declaratoria di livello F al medesimo riconosciuta, concernente il lavoratore che esegue ‘compiti secondo istruzioni ricevute nell’ambito di procedure e metodi dati, con limitata possibilità di scelta tra differenti opzioni’. Non vi era spazio quindi per riconoscere il diritto alla superiore qualifica e, di conseguenza, neppure per ravvisare il denunciato demansionamento.
Avverso tale sentenza NOME COGNOME ha proposto ricorso per cassazione affidato a due motivi. La RAGIONE_SOCIALE ha resistito con controricorso.
Il Collegio si è riservato di depositare l’ordinanza nei successivi sessanta giorni, ai sensi dell’art. 380 bis.1 c.p.c., come modificato dal d.lgs. n. 149 del 2022.
Considerato che:
Con il primo motivo di ricorso si deduce violazione o falsa applicazione dell’art. 116 c.p.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5 c.p.c., per omesso esame di un fatto decisivo e controverso, per avere la Corte territoriale erroneamente escluso l’avvenuta acquisizione della prova della autonomia gestionale e del maneggio di denaro da parte del ricorrente. Il ricorrente evidenzia il contrasto tra la sentenza e le dichiarazioni testimoniali raccolte, a cui fa ampi riferimenti; allega che la RAGIONE_SOCIALE si è espressa ravvisando le condizioni per un inquadramento in un livello diverso da quello riconosciuto.
Con il secondo motivo si denuncia violazione o falsa applicazione dell’art. 92 c.p.c. in relazione alla sentenza della Corte costituzionale. Censura la statuizione di condanna alle spese sul rilievo che il lavoratore deve promuovere il giudizio
senza poter conoscere elementi rilevanti e decisivi nella disponibilità del solo datore di lavoro.
Il primo motivo non può essere accolto.
La Corte di merito si è attenuta ai principi enunciati da questa S.C. e, specificamente, al procedimento logicogiuridico diretto alla determinazione dell’inquadramento di un lavoratore subordinato attraverso le tre fasi successive, consistenti nell’accertamento in fatto delle attività lavorative concretamente svolte, nell’individuazione delle qualifiche e gradi previsti dal contratto collettivo di categoria e nel raffronto tra i risultati di tali due indagini (v. Cass. n. 30580 del 2019; n. 8589 del 2015). Le censure mosse dal ricorrente investono, nella sostanza, la valutazione del materiale probatorio raccolto, non consentita in questa sede di legittimità, se non nei ristretti limiti di cui all’art. 360 n. 5 c.p.c., nella specie non applicabile in ragione della disciplina cd. della doppia conforme, ai sensi dell’art. 348 ter c.p.c.
Neppure è fondata la censura di violazione dell’art. 116 c.p.c. che, come più volte precisato da questa Corte (cfr. Cass., S.U. n. 20867 del 2020; Cass. n. 11892 del 2016; Cass. n. 25029 del 2015; Cass. n. 25216 del 2014), è rinvenibile nelle ipotesi in cui il giudice valuti le prove secondo un criterio diverso da quello indicato dall’art. 116 c.p.c., cioè una prova legale secondo prudente apprezzamento o un elemento di prova liberamente valutabile come prova legale. Tali vizi non sono prospettati nel motivo di ricorso in esame ove è unicamente dedotto che il giudice ha male esercitato il suo prudente apprezzamento della prova, censura, come detto, preclusa in ragione della c.d. doppia conforme. Peraltro, come rilevato dalla società controricorrente, il ricorso riporta brani che in realtà non appartengono alla sentenza impugnata (v. ricorso, p. 8
ultimo cpv.) ma, probabilmente, alla sentenza pronunciata nel diverso procedimento instaurato da NOME COGNOME (su cui v. ordinanza Cass. n. 5003/2021).
Neppure il secondo motivo è fondato poiché, con riferimento al regolamento delle spese, il sindacato della Corte di cassazione è limitato ad accertare che non risulti violato il principio secondo il quale le spese non possono essere poste a carico della parte vittoriosa, con la conseguenza che esula da tale sindacato, e rientra nel potere discrezionale del giudice di merito, sia la valutazione dell’opportunità di compensare in tutto o in parte le spese di lite, sia di provvedere alla loro quantificazione entro i limiti fissati dalle tabelle vigenti (v. Cass. n. 19613 del 2017; n. 8421 del 2017; Sez. 6 n. 24502 del 2017).
Per le ragioni esposte il ricorso deve essere respinto.
La regolazione delle spese del giudizio di legittimità segue il criterio di soccombenza, con liquidazione come in dispositivo.
Il rigetto del ricorso costituisce presupposto processuale per il raddoppio del contributo unificato, ai sensi dell’art. 13, comma 1 quater, del d.P.R. n. 115 del 2002 (cfr. Cass. S.U. n. 4315 del 2020).
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso. Condanna il ricorrente alla rifusione delle spese del giudizio di legittimità che liquida in euro 4.500,00 per compensi professionali, euro 200,00 per esborsi, oltre spese forfettarie nella misura del 15% e accessori come per legge.
Ai sensi dell’art. 13, co. 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento da parte del ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato
pari a quello previsto per il ricorso a norma del comma 1 bis dello stesso art.13, se dovuto.
Così deciso nell’adunanza camerale del 27 marzo 2024