Ordinanza di Cassazione Civile Sez. L Num. 24555 Anno 2025
Civile Ord. Sez. L Num. 24555 Anno 2025
Presidente: COGNOME
Relatore: COGNOME
Data pubblicazione: 04/09/2025
ORDINANZA
sul ricorso 19940-2020 proposto da:
COGNOME NOMECOGNOME NOMECOGNOME NOMECOGNOME NOMECOGNOME COGNOME NOMECOGNOME NOMECOGNOME NOMECOGNOME nella qualità di eredi di COGNOME NOMECOGNOME tutti rappresentati e difesi dall’avvocato NOME COGNOME NOMECOGNOME nella qualità di erede di COGNOME NOME rappresentato e difeso dall’avvocato NOME COGNOME
– ricorrenti –
contro
REGIONE LAZIO, in persona del Presidente pro tempore , rappresentata e difesa dall’avvocato NOME COGNOME
– controricorrente –
avverso la sentenza n. 3939/2019 della CORTE D’APPELLO di ROMA, depositata il 16/11/2019 R.G.N. 3776/2016;
Oggetto
Inquadramento dirigenziale e risarcimento del danno
R.G.N. 19940/2020
COGNOME
Rep.
Ud. 04/04/2025
CC
udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 04/04/2025 dal Consigliere Dott. COGNOME
FATTI DI CAUSA
Con sentenza n. 3939 del 16.11.2019, la Corte d’appello di Roma rigettava il gravame proposto dai ricorrenti indicati in epigrafe, nei confronti della Regione Lazio, avverso la pronuncia di prime cure, che aveva disatteso la loro domanda diretta a ottenere il reinquadramento perequativo come dirigente, in applicazione della legge reg. Lazio n. 25 del 1996, art. 22, comma 8, con ogni conseguente statuizione risarcitoria in ordine alle differenze retributive e ai danni patrimoniali e non patrimoniali patiti.
Va premesso che i dipendenti erano stati inquadrati nella dirigenza a seguito del reg. n. 2 del 10.5.2001 emesso, in attuazione della legge regionale cit., dalla Giunta regionale, regolamento poi annullato dal giudice amministrativo, ed aveva invocato, nel loro originario ricorso, la successiva legge reg. Lazio n. 14 del 2009, che aveva disposto la salvezza degli inquadramenti dirigenziali de quibus ; tale ultima legge regionale era stata dichiarata incostituzionale, donde la retrocessione alla precedente posizione di funzionario (Cat. D3, posizione economica D3), con determina dirigenziale n. 615 del 4.8.2010, di tutti i dirigenti perequati, tra cui i ricorrenti.
A sostegno del decisum la Corte territoriale osservò quanto segue:
-una volta annullato il reg. n. 2/2001, cit., l’Amministrazione aveva l’obbligo di ripristino della situazione anteatta, rimuovendo, in attuazione del giudicato amministrativo e senza che potesse entrare in gioco un profilo di disparità di trattamento, gli effetti dell’atto annullato;
-la perdita della qualifica dirigenziale si riverberava sul contratto in termini di «nullità sopravvenuta», stante la violazione della norma imperativa che impone il conferimento di incarichi dirigenziale a chi possiede tale qualifica, salva, beninteso, l’applicazione per il pregresso dell’art. 2126 cod. civ.;
-non poteva insorgere un diritto all’inquadramento perequativo nella qualifica dirigenziale ex art. 22, comma 8, della legge reg. Lazio n. 25, cit., trattandosi di «norma manifesto», dunque di carattere programmatico e non precettivo, che non disciplinava forme, tempi e modalità dell’intervento perequativo medesimo, prevedendo solo una direttiva che il legislatore regionale ha posto a se stesso che non avrebbe potuto legittimare l’adozione del regolamento attuativo n. 2/01 cit. poi annullato dal giudice amministrativo;
-nell’intendimento di dare attuazione alla legge n. 25/1996, la regione Lazio aveva quindi emanato la legge regionale n. 14 del 16.4.2009, che faceva salva la qualifica e la posizione economica già attribuita al personale al 22.4.2009, ma la Corte costituzionale, con sentenza n. 195 del 4.6.2010, ne aveva dichiarato l’illegittimità costituzionale per contrasto con il principio costituzionale del concorso pubblico, sicché la legge n. 25/1996, su cui poggiavano le rivendicazioni dei ricorrenti, era rimasta priva di ogni seguito provvedimentale.
Avverso l’anzidetta sentenza della Corte territoriale, i ricorrenti indicati in epigrafe hanno proposto ricorso per cassazione affidato a tre motivi cui l’intimata Regione Lazio ha resistito con controricorso.
MOTIVI DELLA DECISIONE
Con il primo motivo il ricorrente denuncia, ex art. 360, comma 1 n. 4, c.p.c., violazione o falsa applicazione dell’art.
112 cod. proc. civ. per omesso esame di parte della domanda formulata nell’atto d’appello .
Si duole che la Corte territoriale non abbia preso in considerazione le domande risarcitorie contenute nell’atto di gravame finalizzate ad ‘accertare e dichiarare il diritto degli appellati al risarcimento del danno, patrimoniale e non, cagionato dall’illegittimo esercizio della funzione pubblica da parte della Regione Lazio e/o della condotta omissiva tenuta e dalle iniziative e comportamenti posti in essere dall’Amministrazione…’ ;
con il secondo motivo si lamenta la violazione e/o falsa applicazione dell’art. 111 Cost., dell’art. 132 n. 4 c.p.c. con riferimento all’art. 360, comma 1, n. 4, c.p.c.
La corte di merito avrebbe erroneamente ritenuto infondata implicitamente la domanda risarcitoria sul presupposto dell’infondatezza del diritto all’inquadramento dirigenziale.
Ed invero, la corte non avrebbe tenuto conto che le istanze risarcitorie sarebbero fondate sulla illegittima compromissione di interessi giuridicamente rilevanti di cui i ricorrenti sono titolari in forza dell’art. 22, comma 8 della legge regionale n. 25/1996, valutazione quest’ultima omessa totalmente dalla Corte medesima.
I due motivi possono essere trattati congiuntamente e sono entrambi infondati.
3.1 Va premesso che il vizio di omessa pronuncia, è configurabile allorquando risulti completamente omesso il provvedimento del giudice indispensabile per la soluzione del caso concreto e non ricorre nel caso in cui, seppure manchi una specifica argomentazione, la decisione adottata si ponga in contrasto con la pretesa fatta valere dalla parte e ne comporti il rigetto (cfr., fra le tante, Cass. n. 12652/2020 e Cass. n.
2151/2021); il giudice del merito, infatti, non è tenuto ad esaminare espressamente e singolarmente ogni allegazione, prospettazione e argomentazione delle parti, atteso che ai sensi dell’art. 132 n. 4 cod. proc. civ. è necessario e sufficiente che esponga, in maniera concisa, gli elementi in fatto e in diritto posti a fondamento della sua decisione, con la conseguenza che si devono ritenere disattesi per implicito tutti gli argomenti, le tesi e i rilievi che, seppure non espressamente esaminati, siano incompatibili con la soluzione adottata e con l’ iter argomentativo seguito.
3.2 Orbene, entrando più nel dettaglio, la fonte del pregiudizio era stata individuata dai ricorrenti «nel l’ avere la Regione leso l’interesse giuridicamente rilevante alla conservazione della posizione conseguita all’esito dell’istruttoria del procedimento di perequazione, della propria immagine professionale e della propria carriera’, nonché nell’avere la Regione ‘a fronte della situazione giuridica soggettiva alla revisione della propria posizione (c.d. perequazione) riconosciuta dall’art. 22, comma 8 della l.r. n. 25 del 1996 posto in essere provvedimenti illegittimi ed omesso di agire in sede di autotutela o comunque si è astenuta dal rimuovere il regolamento illegittimamente adottato, precludendo l’attuazione della citata situazione attiva soggettiva e nel contempo pregiudicando la conservazione della posizione revisionata conseguita, con rilevanti conseguenze patrimoniali e non’.
3.3 Trattasi di doglianze implicitamente disattese dal giudice d’appello che ha ritenuto, da un lato, la condotta dell’amministrazione qualificabile come atto dovuto, perché attuativa del giudicato amministrativo, dall’altro insussistente il preteso inquadramento nella dirigenza, perché mai attribuito dall’art. 22, comma 8, della legge reg. Lazio n. 25, cit.,
disposizione, secondo la Corte territoriale, di esclusivo valore programmatico.
Con il terzo ed ultimo motivo si eccepisce la violazione e falsa applicazione degli artt. 2697, 2727 e 2729 c.c. e degli artt. 115 e 116 con riferimento all’art. 360, comma 1, n. 5 c.p.c. per omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio oggetto di discussione fra le parti.
La corte distrettuale laddove avesse valutato tutta la documentazione in atti avrebbe dovuto concludere che l’interruzione anticipata dell’incarico dirigenziale fosse da addebitarsi alla Regione che con gli errori e omissioni compiute e con le iniziative preannunciate ha indotto i ricorrenti a risolvere consensualmente i rispettivi contratti con conseguente ingente perdita patrimoniale.
Il motivo è inammissibile.
Esso, infatti, innanzitutto pretende una valutazione dei fatti diversa da quella operata dai giudici di appello, operazione inammissibile in sede di legittimità.
Deve al riguardo, altresì, rilevarsi che la valutazione in questione è stata operata, in modo conforme, da entrambi i giudici del merito, così dando luogo ad una ipotesi di c.d. “doppia conforme” prevista dal quinto comma dell’art. 348 ter cod. proc. civ., in ragione della quale, il ricorrente in cassazione, per evitare l’inammissibilità del motivo di cui al n. 5 dell’art. 360 cod. proc. civ., deve indicare le ragioni di fatto poste a base della decisione di primo grado e quelle poste a base della sentenza di rigetto dell’appello, dimostrando che esse sono tra loro diverse (Cass. n. 26774/2016; Cass. n. 5528/2014). Tali indicazioni non sono state effettuate.
Si aggiunga che la vicenda qui in esame ha già formato oggetto di pronunce di questa Corte (Cass. n. 22152/2022 e Cass. n.
37005/2022) le cui puntuali argomentazioni qui si richiamano ai sensi dell’art. 118, comma 1, disp. att. cod. proc. civ.
In conclusione, il ricorso è da rigettare con condanna dei ricorrenti in solido al pagamento delle spese processuali secondo il principio della soccombenza.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso. Condanna i ricorrenti in solido al rimborso di € 7.000,00, a titolo di compensi, oltre € 200,00 per esborsi, nonché al rimborso forfetario delle spese generali, nella misura del 15%, ed agli accessori di legge.
Ai sensi dell’art. 13, comma 1 quater del DPR 115/2002, dà atto della ricorrenza dei presupposti processuali per il versamento da parte dei ricorrenti dell’importo a titolo di contributo unificato, pari a quello previsto per il ricorso, ove dovuto, a norma del comma 1 bis dello stesso art. 13.
Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della IV Sezione