Ordinanza di Cassazione Civile Sez. 1 Num. 21792 Anno 2025
ORDINANZA
sul ricorso iscritto al n. 17630/2023 R.G. proposto da COGNOME rappresentato e difeso dagli Avv. NOME COGNOME ed NOME COGNOME che hanno indicato i seguenti indirizzi di posta elettronica certificata: ed
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– ricorrente –
e
COGNOME rappresentato e difeso dall’Avv. NOME COGNOME che ha indi- cato il seguente indirizzo di posta elettronica certificata:
;
– ricorrente –
Civile Ord. Sez. 1 Num. 21792 Anno 2025
Presidente: COGNOME NOME
Relatore: COGNOME
Data pubblicazione: 29/07/2025
contro
DISCO -ENTE REGIONALE PER IL DIRITTO ALLO STUDIO E ALLA CONOSCENZA, in persona del legale rappresentante p.t., rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, con domicilio legale in Roma, INDIRIZZO
Portoghesi, n. 12;
-controricorrente – avverso la sentenza della Corte d’appello di Roma n. 1078/23, depositata il 10 febbraio 2023.
Udita la relazione svolta nella camera di consiglio del 12 marzo 2025 dal Consigliere NOME COGNOME
FATTI DI CAUSA
L’Ing. NOME COGNOME e l’Arch. NOME COGNOME convennero in giudizio l’ADISU -Azienda per il Diritto allo Studio Universitario, per sentirla condannare al pagamento dell’indennizzo per l’ingiustificato arricchimento derivante dalle prestazioni professionali rese, in esecuzione di un contratto dichiarato nullo per difetto della forma scritta, ai fini della predisposizione del progetto esecutivo per la ristrutturazione dell’immobile sito in Viterbo, alla INDIRIZZO adibito a residenza e servizi per gli studenti.
Si costituì l’ADISU, e resistette alla domanda, sostenendo che l’indennizzo doveva essere liquidato nei limiti dell’arricchimento arrecato dalla prestazione e dell’impoverimento subito dai professionisti, escluso il lucro cessante.
1.1. Con sentenza del 10 ottobre 2007, il Tribunale di Viterbo accolse la domanda, condannando l’ADISU al pagamento della somma di Euro 76.433,10, oltre rivalutazione monetaria ed interessi legali.
L’impugnazione proposta dall’ADISU fu rigettata dalla Corte d’appello di Roma con sentenza del 21 aprile 2015.
Avverso la predetta sentenza l’ADISU propose ricorso per cassazione, accolto da questa Corte con sentenza del 4 aprile 2019, n. 9317, che enunciò il seguente principio di diritto:
«L’indennizzo per ingiustificato arricchimento dovuto al professionista che abbia svolto la propria attività a favore della Pubblica Amministrazione, ma in difetto di un contratto scritto, non può essere determinato, neppure indirettamente quale parametro, in base alla tariffa professionale che il professionista avrebbe potuto ottenere se avesse svolto la sua opera a favore d’un privato, né in base all’onorario che la P.A. avrebbe dovuto pagare, se la presta-
zione ricevuta avesse formato oggetto d’un contratto valido».
Il giudizio è stato pertanto riassunto dinanzi alla Corte d’appello di Roma, che con sentenza del 10 febbraio 2023 ha determinato l’indennizzo in Euro 34.409,41, ivi compresi rivalutazione ed interessi, e condannato il COGNOME e il COGNOME a restituire al RAGIONE_SOCIALE -Ente Regionale per il Diritto allo Studio e alla Conoscenza, in qualità di avente causa dell’ADISU, la somma di Euro 107.430,02.
A fondamento della decisione, la Corte ha ritenuto che, in quanto da liquidarsi nei limiti della diminuzione patrimoniale subìta dagli attori, escluso il lucro cessante, l’indennizzo non potesse comprendere il danno derivante dal mancato esercizio dell’attività professionale nel tempo dedicato alla redazione del progetto, consistente in un mancato guadagno. Quanto alle perdite subìte dagli attori, ha ritenuto non provati gli esborsi dagli stessi sopportati per avvalersi dell’opera di collaboratori, in quanto documentati dalle relative parcelle, prive di rilevanza fiscale e dal valore probatorio incerto, nonché non congruenti con i costi, forfettariamente commisurati al 45% degli onorari desumibili dalle parcelle originariamente predisposte dai professionisti e sottoposte al parere del Consiglio dell’Ordine. Ha pertanto quantificato in Euro 23.370,11 la diminuzione patrimoniale subìta dagli attori, sulla quale ha riconosciuto Euro 5.982,75 a titolo di rivalutazione monetaria determinata secondo gl’indici Istat ed Euro 5.056,55 a titolo d’interessi con decorrenza dalla data della domanda giudiziale. Rilevato che nel corso del giudizio di cassazione il DISCO, con mandato emesso il 20 giugno 2008, aveva provveduto al pagamento della maggior somma di Euro 141.839,43, ha condannato gli attori alla restituzione della somma ricevuta in eccedenza rispetto al dovuto.
Avverso la predetta sentenza il COGNOME e il COGNOME hanno proposto ricorso per cassazione, articolato in tre motivi, illustrati anche con memorie. Il DISCO ha resistito con controricorso, anch’esso illustrato con memoria.
Il Consigliere delegato ha depositato proposta di definizione del giudizio, ai sensi dell’art. 380bis , primo comma, cod. proc. civ., ravvisando l’inammissibilità dell’impugnazione.
A seguito della comunicazione, i ricorrenti hanno chiesto la decisione del ricorso, ai sensi dell’art. 380bis , secondo comma, cod. proc. civ.
RAGIONI DELLA DECISIONE
Con il primo motivo d’impugnazione, i ricorrenti denunciano la violazione degli artt. 1226 e 2041 cod. civ., osservando che, nel ritenere non provati i costi sopportati per l’opera prestata dai collaboratori, la sentenza impugnata non ha tenuto conto della valenza probatoria delle parcelle, redatte da professionisti abilitati, dell’emissione delle stesse prima del pagamento, che escludeva l’avvenuta emissione delle fatture, e della desumibilità dei costi dalle notule sottoposte al parere di congruità del Consiglio dell’Ordine, da cui risultava che le sole spese affrontate da essi ricorrenti ammontavano ad Euro 90.519,697. Aggiungono che la Corte territoriale non poteva ridurre senza motivazione il loro credito, non essendo contestato che essi avevano provveduto alla redazione del progetto su incarico dell’Amministrazione, che a tal fine si erano avvalsi della collaborazione di professionisti aventi competenze specifiche, che tali professionisti andavano retribuiti conformemente ai loro diritti, e che i lavori erano stati eseguiti attenendosi al progetto da loro redatto.
Con il secondo motivo, i ricorrenti deducono la violazione e la falsa applicazione degli artt. 2041 e 2697 cod. civ., dell’art. 116 cod. proc. civ. e degli artt. 4, 6 e 13 della legge 2 marzo 1949, n. 143, sostenendo che, nel ritenere non provati gli esborsi, la sentenza impugnata non ha considerato che anche l’assunzione di un’obbligazione comporta un impoverimento. Aggiungono che la tariffa professionale prevede espressamente le spese da compensare in via forfettaria, tra le quali non sono compresi i costi per consulenze e collaborazioni di altri professionisti.
Con il terzo motivo, i ricorrenti lamentano la violazione e la falsa applicazione degli artt. 2041 e 2909 cod. civ. e dell’art. 324 cod. proc. civ., rilevando che, nell’escludere dalla liquidazione dell’indennizzo i costi sopportati per l’opera dei collaboratori, la sentenza impugnata non ha tenuto conto del giudicato interno formatosi per effetto della mancata impugnazione della sentenza di appello, nella parte in cui aveva ritenuto provato l’intervento di tali professionisti nella redazione del progetto, includendo il debito contratto nei loro confronti nel depauperamento subìto da essi ricorrenti.
4. A sostegno della proposta di definizione del giudizio ai sensi dell’art. 380bis cod. proc. civ. il Consigliere delegato ha rilevato, in ordine al primo motivo, che «i ricorrenti pretendono da parte della Corte di cassazione una nuova valutazione delle prove dedotte in giudizio in ordine alla depauperazione da loro subìta per la necessità di retribuire l’opera dei collaboratori; nonostante l’apparente deduzione come violazione e/o falsa applicazione di legge, il mezzo sollecita la Corte di legittimità alla rivalutazione dell’accertamento del fatto compiuto dal giudice del merito, e la chiama così indebitamente al riesame delle risultanze istruttorie. È inammissibile il ricorso per cassazione che, sotto l’apparente deduzione del vizio di violazione o falsa applicazione di legge, di mancanza assoluta di motivazione e di omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio miri, in realtà, ad una rivalutazione dei fatti storici operata dal giudice di merito. (Cass., Sez. Un., 27/12/2019, n. 34476).
Per altro verso, in violazione del principio di specificità e autosufficienza, i ricorrenti si riferiscono a documenti, di cui non riproducono il testo né indicano la fase in cui gli stessi sarebbero stati versati in giudizio, localizzandoli in atti».
Il secondo motivo, secondo la proposta, «incorre negli stessi vizi del precedente, ossia nel difetto di autosufficienza e specificità nei suoi riferimenti documentali e nella sua riversione nel merito, oltre alla evidente eccentricità rispetto alla ratio decidendi della sentenza impugnata, che si è limitata a valutare le risultanze istruttorie in punto esborsi a favore dei collaboratori. Né i ricorrenti indicano quando e come nel giudizio di merito avrebbero sostenuto la tesi della depauperazione subìta per mero effetto di una obbligazione non ancora adempiuta.
Inoltre, è il caso di aggiungere che la violazione dell’art. 116 cod. proc. civ. è idonea a integrare il vizio di cui all’art. 360, n. 4, cod. proc. civ., denunciabile per cassazione, solo quando il giudice di merito abbia disatteso il principio della libera valutazione delle prove, salva diversa previsione legale, e non per lamentare che lo stesso abbia male esercitato il proprio prudente apprezzamento della prova; detta violazione non si può ravvisare nella mera circostanza che il giudice abbia valutato le prove proposte dalle parti attri-
buendo maggior forza di convincimento ad alcune piuttosto che a altre, essendo tale attività consentita dal paradigma dell’art. 116 cod. proc. civ., che non a caso è rubricato “della valutazione delle prove” (cfr. Cass., Sez. III, 28/ 2/2017, n. 5009; Cass., Sez. II, 14/3/2018, n. 6231).
La violazione del precetto di cui all’art. 2697 c.c. si configura solo nell’ipotesi in cui il giudice di merito abbia applicato la regola di giudizio fondata sull’onere della prova in modo erroneo, cioè attribuendo l’ onus probandi a una parte diversa da quella che ne era onerata secondo le regole di scomposizione della fattispecie basate sulla differenza fra fatti costitutivi ed eccezioni, ma non anche laddove si contesti il concreto apprezzamento delle risultanze istruttorie, assumendosi che le stesse non avrebbero dovuto portare al convincimento raggiunto dal giudice di merito (cfr. Cass., Sez. II, 24/1/2020, n. 1634; Cass., Sez. lav., 19/8/2020, n. 17313; Cass., Sez. VI, 23/10/2018, n. 26769; Cass., Sez. III, 29/5/2018, n. 13395; Cass., Sez. II, 7/11/2017, n. 26366).
Non diverse possono essere le conclusioni sull’ulteriore profilo di doglianza con riferimento, fra l’altro, all’art. 6 della legge n. 143 del 1949, che alla lettera b) prevede “le spese per il personale di aiuto o per qualsiasi altro sussidio od opera necessaria all’esecuzione di lavori fuori ufficio”, con ciò riferendosi a spese effettivamente sostenute dal professionista mediante un esborso che il professionista è tenuto a dimostrare e oggetto di accertamento di merito nella specie compiuto con esito negativo».
Nel sollecitare la decisione del ricorso, ai sensi dell’art. 360bis , secondo comma, cod. proc. civ., e nelle rispettive memorie, i difensori dei ricorrenti non hanno svolto nuove argomentazioni, idonee a confutare il contenuto della proposta, ma si sono limitati a riportarsi a quelle già svolte nel ricorso, la cui inammissibilità va confermata in questa sede, risultando pienamente condivisibili le ragioni in base alle quali il Consigliere delegato ha ritenuto che, attraverso l’apparente deduzione del vizio di violazione di legge, le censure svolte dai ricorrenti mirassero, in realtà, a sollecitare un riesame del merito della controversia.
5.1. E’ soltanto il caso di aggiungere, in ordine al terzo motivo di ricorso, che questa Corte, nell’accogliere il ricorso per cassazione proposto dall’A-
DISU, con la sentenza n. 9317 del 2019, dichiarò inammissibile il primo motivo d’impugnazione, concernente il difetto di legittimazione degli attori, osservando che, nell’insistere sulla spettanza della legittimazione attiva a soggetti diversi, in relazione agli oneri sopportati dagli attori per avvalersi dell’opera dei collaboratori, la ricorrente aveva censurato soltanto una delle due rationes decidendi su cui era fondata la sentenza di appello, riflettente la tardività dell’eccezione sollevata dall’ADISU, senza impugnare l’altra, consistente nel riconoscimento della titolarità del rapporto controverso da parte degli attori, in ragione del depauperamento dagli stessi subìto per effetto del debito contratto nei confronti dei collaboratori senza aver percepito alcun compenso dall’Amministrazione.
In quanto riguardante la legittimazione ad causam , ovverosia la titolarità del potere di promuovere il giudizio in ordine al rapporto sostanziale dedotto in causa, da accertarsi sulla base dell’allegazione di fatti astrattamente idonei a fondare il diritto azionato, secondo la prospettazione degli stessi attori (cfr. Cass., Sez. I, 27/03/2017, n. 7776; 7/10/2005, n. 19647; Cass., Sez. lav., 12/08/2016, n. 17092), il giudicato interno in tal modo formatosi non si estendeva all’effettiva titolarità del rapporto controverso, il cui accertamento, indipendente da quello della legittimazione, che rispetto ad esso rivestiva carattere pregiudiziale, atteneva al merito della controversia, e doveva ritenersi pertanto impregiudicato nel giudizio di rinvio.
6. Il ricorso va pertanto dichiarato inammissibile, con la conseguente condanna dei ricorrenti al pagamento delle spese processuali, che si liquidano come dal dispositivo.
La conformità della decisione alla proposta formulata ai sensi dell’art. 380bis , primo comma, cod. proc. civ. comporta l’applicazione delle conseguenze sanzionatorie previste dall’art. 96, terzo e quarto comma, cod. proc. civ., richiamato dall’ultimo comma dell’art. 380bis cit.: tale disposizione contiene infatti una valutazione legale tipica della sussistenza dei presupposti per la condanna ai sensi del terzo e del quarto comma dell’art. 96 cod. proc. civ., che, in riferimento ai casi di definizione del giudizio in conformità alla proposta, codifica un’ipotesi normativa di abuso del processo, poiché il non attenersi a una valutazione del proponente, poi confermata nella decisione defi-
nitiva, lascia presumere una responsabilità aggravata del ricorrente (cfr. Cass., Sez. Un., 13/10/2023, n. 28540; 27/09/2023, n. 27433)
P.Q.M.
rigetta il ricorso. Condanna i ricorrenti al pagamento, in favore della controricorrente, delle spese del giudizio di legittimità, che liquida in Euro 3.500,00 per compensi, oltre alle spese forfettarie nella misura del 15 per cento, agli esborsi liquidati in Euro 200,00, ed agli accessori di legge.
Condanna i ricorrenti al pagamento della somma di Euro 1.000,00 in favore della controricorrente e di una ulteriore somma di Euro 2.500,00 in favore della Cassa delle Ammende.
Ai sensi dell’art. 13, comma 1quater , del d.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, inserito dall’art. 1, comma 17, della legge 24 dicembre 2012, n. 228, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte dei ricorrenti, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso dal comma 1bis dello stesso art. 13, se dovuto.
Così deciso in Roma il 12/03/2025