Ordinanza di Cassazione Civile Sez. 1 Num. 22576 Anno 2025
Civile Ord. Sez. 1 Num. 22576 Anno 2025
Presidente: COGNOME
Relatore: COGNOME
Data pubblicazione: 04/08/2025
ORDINANZA
sul ricorso n. 5165/2021 r.g. proposto da:
NOME COGNOME rappresentato e difeso, anche disgiuntamente tra loro, giusta procura speciale in calce al ricorso dall’Avv. NOME COGNOME e dall’Avv. NOME COGNOME i quali dichiarano di voler ricevere le notifiche e le comunicazioni relative al presente procedimento agli indirizzi di posta elettronica certificata indicati, elettivamente domiciliati in Roma, INDIRIZZO presso il loro studio.
-ricorrenti –
CONTRO
RAGIONE_SOCIALE in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentata e difes a dall’Avvocatura Generale dello Stato, presso cui ex lege domicilia, INDIRIZZO
-controricorrente-
avverso la sentenza della Corte di appello di Roma n. 3530/2020, depositata il 16/7/2020.
Udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 23 /4/2025 dal Consigliere dott. NOME COGNOME
RILEVATO CHE:
1.Il Tribunale di Roma, con sentenza n. 3533/2014 accoglieva parzialmente l’opposizione proposta da NOME COGNOME quale titolare della Azienda RAGIONE_SOCIALE COGNOME, avverso l’ingiunzione fiscale emessa ai sensi del regio decreto n. 639 del 1910 dalla AGEA il 14/1/2008, notificata il 5/2/2008, con cui era stato disposto il recupero degli aiuti comunitari per la produzione e la commercializzazione dell’olio d’oliva, corrisposti tra il 1982 e del 1986 all’impresa COGNOME, intimando all’ingiunto il pagamento della somma complessiva di euro 14.882.575,11, di cui euro 6.537.670,50 a titolo di sorte capitale ed euro 8.344.904,61 a titolo di interessi legali.
In particolare, il Tribunale rilevava che la pretesa creditoria si fondava sul PVC della Guardia di Finanza del 15/6/1988, con cui si contestava al COGNOME, quale titolare unico dell’omonima azienda, l’indebita percezione di somme a titolo di contributi comunitari al consumo dell’olio d’oliva.
Tali contributi conseguivano ad attività «posta in essere allo scopo di percepire gli aiuti comunitari nel settore», facendo figurare «vendite di olio fittizie (false fatture emesse nei confronti di oltre 90 soggetti)».
In data 7/6/1989, a seguito di un ulteriore processo verbale di constatazione della Guardia di Finanza, si contestavano indebite percezioni di contributi comunitari nel periodo dal 1/1/1982 al 31/12/ 1986.
Da tale accertamento nasceva il procedimento penale dinanzi al Tribunale di Taranto, definito in primo grado con sentenza n. 180,
depositata il 23/6/1995, di condanna del COGNOME anche al risarcimento dei danni in favore dell’Aima, da liquidarsi nella competente sede civile.
La sentenza penale veniva confermata dalla Corte d’appello di Lecce, con sentenza n. 2 del 5/2/1997, depositata il 28/4/1997 e, quindi, dalla Corte di cassazione con sentenza n. 4526 del 13/3/ 1998, depositata in data 17/4/1998.
Successivamente, con la nota del 25/3/1998 la Guardia di Finanza trasmetteva ad AGEA un prospetto riassuntivo «relativo agli aiuti comunitari al consumo dell’olio di oliva indebitamente percepiti dal condannato in appello, responsabile principale, NOME COGNOME nella duplice qualità di titolare della ditta confezionatrice omonima e di amministratore di fatto della società imbottigliatrice allegata RAGIONE_SOCIALE, entrambe con sede in Martina Franca (TA)».
Con tale prospetto si riconosceva il COGNOME responsabile principale della consumazione della frode comunitaria, con indebita percezione di aiuti comunitari pari ad euro 6.537.670,50, negli anni dal 1982 al 1986.
Il Tribunale riteneva coperto da giudicato l’ an debatur della pretesa per effetto della sentenza penale divenuta irrevocabile, che aveva accertato la responsabilità del COGNOME per truffa aggravata ai danni dell’Aima, con riferimento ai contributi comunitari percepiti dal 1982 al 1986.
Tuttavia, reputava, con riferimento al quantum , parzialmente compensato il credito restitutorio, nella misura di euro 1.732.224,04, con crediti del COGNOME verso AGEA per contributi relativi ad altre annualità.
Proponeva appello principale il COGNOME ed appello incidentale RAGIONE_SOCIALE
3.1. Con il primo motivo d’appello principale il COGNOME deduceva che l’onere della prova in relazione alla spettanza del credito spettava ad RAGIONE_SOCIALE, mentre non vi era certezza in ordine alla liquidità ed esigibilità del credito, sicché RAGIONE_SOCIALE non poteva avvalersi dell’ingiunzione fiscale di cui al regio decreto n. 630 del 1910.
3.2. Con il secondo motivo di impugnazione l’appellante principale rilevava che, in realtà, contrariamente a quanto stabilito dal Tribunale, la sentenza penale non conteneva un accertamento in ordine alla fittizietà dell’operatore commerciale, poiché «la ditta del COGNOME operava effettivamente e dunque non tutte le operazioni commerciali sarebbero state inesistenti».
3.3. Con il terzo motivo di appello principale il COGNOME contestava la valenza probatoria della nota n. 4326 del 25/3/1998 della Guardia di Finanza, trattandosi di un mero atto di parte.
3.4. Con appello incidentale RAGIONE_SOCIALE si doleva della ritenuta compensazione parziale pronunciata dal Tribunale.
La Corte d’appello di Roma, con sentenza n. 3530/2020, pubblicata il 16/7/2020, per quel che ancora qui rileva, reputava inammissibili le conclusioni rassegnate dal COGNOME in data 27/1/2020, dove aveva chiesto dichiararsi che l’intervenuta emissione di titolo esecutivo nei suoi confronti (cartella di pagamento n. NUMERO_DOCUMENTO del 29/5/2014 per complessivi euro 15.075.398,22 in favore di AGEA, oltre interessi e spese, per complessivi euro 17.114.243,58) avrebbe determinato la violazione del principio del ne bis in idem , sicché doveva dichiararsi «cessata la materia del contendere relativamente alla pretesa creditoria svolta nel giudizio da AGEA».
In realtà, si trattava di conclusioni riguardanti «un titolo, la cartella di pagamento citata emessa il 29/5/2014, che è estraneo al presente giudizio avente ad oggetto opposizione alla ingiunzione di
pagamento emessa da AGEA e 14/1/2008». Sicché la domanda risultava nuova e, dunque, inammissibile ex art. 345 c.p.c.
4.1. La Corte territoriale reputava non fondati i tre motivi di appello principale.
Quanto al primo motivo, rilevava che il procedimento di ingiunzione fiscale poteva essere utilizzato in quanto il credito restitutorio «era per sua natura determinabile in base a ricognizione contabile degli aiuti ricevuti dall’impresa».
In ordine al secondo motivo, la Corte territoriale evidenziava la sussistenza del giudicato penale sulla responsabilità del COGNOME per truffa.
Non rilevava che il giudice penale, a pagina 28 della sentenza, avesse affermato che taluni episodi erano esclusi dal giudizio di colpevolezza, essendo emerso che il COGNOME svolgeva effettiva, seppur minore, attività di confezionamento (citava sul punto per un caso analogo Cass. n. 3402 del 2016).
Richiamava tutta una serie di elementi idonei a dimostrare la sussistenza della pretesa creditoria.
Quanto al terzo motivo, la nota della Guardia di Finanza n. 4326 del 23/5/1998 era il frutto di una richiesta giunta alla Guardia di Finanza a seguito della sentenza della Corte d’appello di Lecce, con cui AGEA aveva chiesto di definire per ogni singolo soggetto di cui ai verbali le somme oggetto di indebito per attivare le procedure di recupero.
Tale nota era dunque un documento esplicativo e ricognitivo del verbale e, come tale, traeva da quest’ultimo la sua valenza probatoria.
La Corte d’appello accoglieva l’appello incidentale di RAGIONE_SOCIALE con capo di decisione che non veniva censurato in sede di legittimità.
4.2. Per quel che ancora qui rileva, si rigettava l’eccezione di prescrizione sollevata dal COGNOME, trattandosi di prescrizione decennale, il cui decorso iniziava dalla pubblicazione della sentenza della Corte di cassazione penale n. 4569 del 17/4/1998, con scadenza al 17/4/2008.
Per il COGNOME il corso della prescrizione non era stato interrotto dal giudizio penale, reputando «estranea la condanna generica intervenuta in sede penale».
La Corte d’appello precisava che l’azione restitutoria nasceva dal reato di truffa e, dunque, in caso di costituzione di parte civile in un processo penale, nel successivo giudizio promosso in sede civile per la ripetizione di indebito la pregressa costituzione aveva valore interruttivo della prescrizione.
Avverso tale sentenza ha proposto ricorso per cassazione il COGNOME depositando anche memoria scritta.
L’AGEA ha resistito con controricorso.
CONSIDERATO CHE:
Con il primo motivo di ricorso si deduce la «violazione e/o falsa applicazione dell’art. 132, primo comma, n. 4, c.p.c., e dell’art. 118 disposizione di attuazione del c.p.c., in relazione all’art. 360, primo comma, n. 4, c.p.c. e/o all’art. 360, primo comma, n. 3, c.p.c., nel punto in cui (n. 1 dei motivi della decisione) non riporta compiutamente i fatti che hanno originato la controversia e per omessa indicazione e descrizione della preliminare eccezione di inammissibilità dell’ingiunzione fiscale».
Il ricorrente deduce che nella motivazione della Corte d’appello e, segnatamente, nella porzione dedicata ai «motivi della decisione», non erano stati correttamente e compiutamente «riportati e descritti i fatti ed i documenti che hanno originato la causa».
La sentenza impugnata avrebbe affermato erroneamente che il credito di RAGIONE_SOCIALE «trovava titolo nelle indebite percezioni di somme per contributi comunitari», senza però precisare che non si trattava di «titolo», ma di pretesa creditoria di AGEA.
Il ricorrente, in sede di opposizione, aveva contestato decisamente il quantum , oltre ad eccepire preliminarmente la intervenuta prescrizione e la sicura inammissibilità dell’ingiunzione fiscale, per assoluta carenza di certezza dell’entità del credito, e, conseguentemente, di liquidità ed esigibilità dello stesso.
Si doleva il ricorrente che i verbali della Guardia di Finanza, nei quali si accertava l’esistenza delle cartiere, fossero stati redatti a tavolino, e non a seguito di verifica presso la ditta del COGNOME.
Nella motivazione, poi, non si dava atto che nella nota della Guardia di Finanza del 25/3/1998 erano contenuti quattro allegati, nel secondo e nel terzo dei quali vi sarebbe stata la prova documentale che i contributi comunitari erano «sicuramente molto inferiori al totale di quelli» richiesti.
Neppure si dava atto del fatto che RAGIONE_SOCIALE aveva conseguito nei confronti del COGNOME titolo esecutivo per il recupero dello stesso importo oggetto dell’indagine fiscale opposta, rappresentato dalla cartella esattoriale n. NUMERO_CARTA
1.1. Il motivo è inammissibile.
In realtà, la motivazione della Corte d’appello è presente, non solo in senso grafico, ma anche nella indicazione delle argomentazioni logiche e giuridiche sottese a tale decisione.
Non si riesce a comprendere per quale ragione, l’omessa menzione nella motivazione della decisione di talune eccezioni (prescrizione e inammissibilità dell’ingiunzione fiscale) abbia inciso sulla correttezza della decisione finale.
Non è alcun modo dimostrato, ma neppure allegato, che le inesattezze o le omissioni che connoterebbero la motivazione della sentenza impugnata impedirebbero di comprendere i passaggi essenziali della vicenda processuale e le ragioni poste a fondamento della decisione.
Con il secondo motivo di impugnazione il ricorrente deduce la «violazione e/o falsa applicazione dell’art. 2 del regio decreto n. 639 del 1910 e degli articoli 112 e 161 c.p.c., in relazione all’art. 360, primo comma, n. 3, c.p.c. e/o all’art. 360, primo comma, n. 4, c.p.c. e omesso esame circa un’eccezione preliminare decisiva per il giudizio che è stata oggetto di discussione tra le parti in relazione all’art. 360, primo comma, n. 5, c.p.c.».
Il ricorrente avrebbe espressamente formulato il richiamo «anche nelle conclusioni finali alla eccezione di inammissibilità della ingiunzione fiscale opposta». Tuttavia, «nonostante tali ripetute richieste di declaratoria di inammissibilità nella fattispecie in esame delle ingiunzione fiscale la sentenza impugnata ha completamente ignorato tale precisa eccezione, omettendo di decidere in merito ed attuando, quindi la eccepita violazione dell’indicato art. 112 c.p.c. e determinando la nullità, o quantomeno l’annullabilità della decisione».
La sentenza impugnata avrebbe invece dovuto dichiarare l’inammissibilità della detta ingiunzione.
2.1. Il motivo è inammissibile.
2.2. Anzitutto, si evidenzia che il motivo non rispetta i parametri di cui all’art. 366, n. 6, c.p.c., non riportando in alcun modo né l’atto processuale in cui sarebbe stata sollevata l’eccezione preliminare di inammissibilità dell’ingiunzione fiscale, né il contenuto di tale eccezione.
Inoltre, la Corte d’appello ha provveduto sull’eccezione di inammissibilità dell’ingiunzione fiscale, con un provvedimento espresso di rigetto.
Si legge, infatti, a pagina 9 della motivazione della sentenza impugnata che «sussiste poi possibilità di ricorso alla speciale procedura di cui al R.D. 639/1910 in quanto il credito restitutorio esercitato con l’ingiunzione opposta era per sua natura determinabile in base a ricognizione contabile degli aiuti ricevuti dall’impresa destinataria dell’accertamento, come nitidamente affermato dal Tribunale (cfr. sul tema Cass., n. 2016 n. 3402)».
Non solo, ma anche a pagina 12 della motivazione si evidenzia che l’appellante COGNOME aveva reiterato la doglianza per cui RAGIONE_SOCIALE non poteva fare ricorso alla speciale procedura di cui al regio decreto n. 639 del 1910, «poiché il credito non era determinabile, posto che una parte delle transazioni era effettiva, posto che il giudice penale ha in tal senso accertato che la Ditta COGNOME aveva svolto nel periodo esaminato anche un’effettiva attività di confezionamento».
La Corte territoriale ha ritenuto che «sulla questione si è già detto ai precedenti paragrafi con richiamo anche a precedente conforme della Suprema Corte (cfr. Cass., n. 3402/2016)».
4. Il motivo è comunque infondato anche nel merito.
In particolare, sovvertendo un diverso orientamento (Cass., sentenza n. 3341 dell’11 febbraio 2009), per cui l’oggetto della controversia rappresentato dall’opposizione all’ingiunzione era stato assimilato ad un’azione di accertamento negativo (cfr. Cass., n. 3341 del 2009), questa Corte ha affermato che il thema decidendum della lite non si esaurisce nella verifica della validità formale dell’ingiunzione e della sussistenza delle condizioni di ammissibilità per l’accesso al peculiare strumento di autotutela, ma si estende necessariamente all’accertamento della legittimità sostanziale della pretesa creditoria
fatta valere dalla P.A.; tale orientamento, formatosi dapprima in materia di riscossione di entrate tributarie e doganali (così Cass. 21/03/2012, n. 4510; Cass. 12/12/2013, n. 27816), è stato poi esteso anche a crediti nascenti da rapporti di diritto privato (cfr. Cass. 26/09/2019, n. 24040; Cass., sez. 3, 26 luglio 2022, n. 23346).
Vi è stata, dunque, un’equiparazione del giudizio di opposizione all’ingiunzione a quello di opposizione a decreto ingiuntivo, con conseguente qualificazione della Pubblica Amministrazione come attrice in senso sostanziale (cfr. Cass., sez. 5, 31 luglio 2020, n. 16470, seppure in ambito di ingiunzione doganale; Cass., sez. 1, 26 settembre 2019, n. 24040, che esclude la possibilità di proporre domanda riconvenzionale da parte della Amministrazione).
In altri termini, l’opposizione ad ingiunzione ex R.D. n. 639 del 1910 ha ad oggetto non soltanto l’atto amministrativo, ma anche il rapporto giuridico obbligatorio sottostante (cfr. Cass., sez. 3, 9 ottobre 2023, n. 28301, per cui il giudice accerta la fondatezza della pretesa e l’entità del credito vantato dall’Amministrazione; Cass., sez. 3, 8 febbraio 2023, n. 3843), e la cognizione del giudice adito non è circoscritta alla disamina dei vizi di legittimità formale dell’ingiunzione dedotti dall’opponente (sicché è inammissibile, per difetto di interesse, una opposizione che si limiti ad addurre il difetto dei presupposti per l’adozione dell’ingiunzione oppure vizi di contenutoforma della stessa: così Cass., 20/06/2016, n. 12674), ma involge comunque, pur in difetto di espressa richiesta in tal senso, il merito, l’accertamento sull’esistenza e sull’entità del credito portato dal provvedimento.
In un giudizio così strutturato, l’opponente è solo e soltanto attore in senso formale, mentre l’Amministrazione convenuta assume la veste di attrice in senso sostanziale, con le derivanti ricadute sul
riparto degli oneri probatori (cfr. Cass., sez. 3, 8 aprile 2021, n. 9381): sulla P.A. grava la prova dei fatti costituitivi della propria pretesa ex art. 2697 c.c. (cfr. Cass., sez. 1, 16 maggio 2016, n. 9989; Cass., sez. 1, 3 novembre 2011, n. 22792; Cass., sez. 1, 9 luglio 1999, n. 7179; Cass., sez. 1, 18 maggio 2001, n. 6813), sull’opponente la dimostrazione della loro inefficacia o dell’esistenza di fatti estintivi, impeditivi o modificativi dell’obbligazione (sull’ onus probandi , Cass. 08/04/2021, n. 9381, a mente della quale neppure rileva al riguardo che la menzionata ingiunzione cumuli in sé la natura e funzione di titolo esecutivo unilateralmente formato dalla P.A. nell’esercizio del suo peculiare potere di autoaccertamento e di atto prodromico all’inizio dell’esecuzione coattiva, poiché ciò non implica che nel giudizio di opposizione l’ingiunzione sia assistita da una presunzione di verità, dovendo piuttosto ritenersi che la posizione di vantaggio riconosciuta alla P.A. sia limitata al momento della formazione unilaterale del titolo esecutivo, e restando escluso – perché del tutto ingiustificato in riferimento a dati testuali e ad un’esegesi costituzionalmente orientata in relazione all’art. 111 Cost. – che essa possa permanere anche nella successiva fase contenziosa, in seno alla quale il rapporto deve essere provato secondo le regole ordinarie; nello stesso senso, v. Cass., 16/05/2016, n. 9989).
E’ dunque l’ingiunzione stessa, atto di accertamento del credito della P.A., ad integrare (nei limiti della impugnazione formulata) gli estremi della domanda nella controversia di opposizione, sulla quale il giudice è tenuto a pronunciarsi (cfr. ex plurimis , Cass., 12/12/2017, n. 29653; Cass., 03/11/2011, n. 22792; Cass., 18/06/2010, n. 14812).
Pertanto, con l’invocare il rigetto dell’avversa opposizione oppure la conferma dell’ingiunzione, l’Amministrazione opposta, senza ne-
cessità di formule sacramentali, richiede all’organo giudicante il riconoscimento del diritto al recupero del credito nella misura e per le ragioni causali già giustificanti l’ingiunzione e l’emissione di una sentenza che, pur in forma di statuizione di rigetto dell’opposizione, ha natura di vera e propria condanna (salva una espressa richiesta della P.A. limitata ad una pronuncia di mero accertamento), con l’efficacia tipica dei titoli esecutivi giudiziali (in questo ordine di idee, espressamente, oltre alle citate Cass., n. 4510 del 2012 e Cass., n. 27816 del 2013, si veda anche Cass., 31/07/2020, n. 16470).
Con il terzo motivo il ricorrente si duole della «violazione e/o falsa applicazione dell’art. 345 c.p.c. e dell’art. 2909 c.c., in relazione all’art. 360, primo comma, n. 3, c.p.c. e/o in relazione all’art. 360, primo comma, n. 4, c.p.c.».
La Corte d’appello ha giudicato inammissibili le questioni proposte dal COGNOME solo in sede di gravame, per violazione dell’art. 345 c.p.c., in relazione alla cartella di pagamento n. 10620140006325957 formata da AGEA per l’importo complessivo di euro 17.114.243,58.
Tuttavia, tale carattere di novità non sarebbe ravvisabile.
La cartella esattoriale era stata notificata il 3/10/2014, ma il COGNOME non l’aveva ricevuta, sicché non era tardiva la produzione avvenuta all’udienza del 27/1/2020.
Il documento prodotto dal COGNOME poi, non era la cartella, ma il pignoramento mobiliare subito.
Il verbale di pignoramento era del 14/2/2018, sicché si trattava di atti formati dopo la data di celebrazione dell’ultima udienza del processo, ossia del 9/6/2015.
Pertanto, doveva essere accolta la domanda di cessazione della materia del contendere, in quanto il ricorrente aveva prodotto in giudizio il verbale di pignoramento del 14/2/2018, «per il pagamento
del medesimo importo oggetto del giudizio pendente in opposizione all’ingiunzione fiscale emessa dalla stessa AGEA».
Non era possibile decidere il giudizio di appello, stante la violazione del divieto del ne bis in idem perché, in caso di accoglimento dell’appello dell’AGEA, sarebbe derivata l’esistenza in favore dell’ente di Stato di due titoli esecutivi riferiti al medesimo credito.
Inoltre, si trattava di documenti non esistenti prima del processo, in quanto il ricorrente ne era «venuto a conoscenza solo in data 14 febbraio 2018».
5.1. Il motivo è infondato.
In realtà, come ammesso dallo stesso ricorrente, la cartella di pagamento era stata notificata il 3/10/2014, mentre solo il pignoramento era avvenuto il 14/2/2018.
Il relativo verbale, quindi, non poteva essere prodotto, in violazione dell’art. 345 c.p.c.
Tra l’altro, attraverso la produzione del verbale di pignoramento, relativo ad un titolo imprecisato, si andava ad allargare l’oggetto del giudizio.
La cartella di pagamento, costituendo titolo esecutivo oltre che precetto, poteva derivare la sua efficacia da un titolo di varia natura, che non era neppure indicato dal COGNOME.
Ed infatti, si osserva nel controricorso che le argomentazioni del COGNOME, in ordine all’esistenza della cartella esattoriale emessa sulla base di altro ‘titolo’ posseduto da AGEA, dovevano essere completate «facendo riferimento in ordine a quest’ultimo chiarendo (e dimostrando) che si trattava di altro titolo giudiziale (sentenza, decreto ingiuntivo non opposto ecc.) riguardante esattamente lo stesso credito azionato da AGEA mediante l’ordinanza ingiunzione opposta» (vedi p. 56 del controricorso).
La cartella di pagamento poteva, infatti, essere emessa sia a seguito di iscrizione provvisoria, sia a seguito di iscrizione definitiva, sia in relazione all’esito di eventuali giudizi in ordine alla spettanza del credito.
Solo l’esistenza di un vero e proprio giudicato, avente ad oggetto la medesima pretesa creditoria oggetto del contendere, avrebbe impedito alla Corte d’appello di pronunciarsi.
Senza contare che in caso di duplicazione dei titoli esecutivi il debitore avrebbe avuto la facoltà di opporsi a qualsiasi richiesta, per impedire il doppio pagamento.
Per questa Corte, infatti, il divieto di ” nova ” sancito dall’art. 345 c.p.c. per il giudizio d’appello, applicabile anche nel giudizio di rinvio, riguarda non soltanto le domande e le eccezioni in senso stretto, ma altresì le contestazioni in punto di fatto non esplicate in primo grado, poiché l’ammissione di simili contestazioni in secondo grado trasformerebbe il giudizio d’appello da mera ” revisio prioris instantiae ” in ” iudicium novum “, modello quest’ultimo estraneo al vigente ordinamento processuale (cfr. Cass., sez. 6-3, 1/2/2018, n. 2529; Cass., sez. L, 11 2015, n. 2687).
Il divieto dello ” jus novorum ” non concerne soltanto le allegazioni in fatto e l’indicazione degli elementi di prova, ma anche (e soprattutto) la specificazione delle ” causae petendi ” fatte valere in giudizio a sostegno delle azioni e delle eccezioni, pur se la nuova prospettazione sia fondata sulle stesse circostanze di fatto, ma non si risolva in una semplice precisazione di una tematica già acquisita al giudizio (Cass., sez. 6-2, 11/1/2018, n. 535).
Non è possibile introdurre nel processo un tema di indagine e di decisione nuovo perché fondato su presupposti diversi da quelli prospettati nell’atto introduttivo del giudizio, così da porre in essere una
pretesa diversa da quella precedente (cfr. Cass., sez. 2, 12/12/2018, n. 32146).
Tra l’altro, si eccepisce la violazione del giudicato di cui all’art. 2909 c.c., ma, a fondamento di tale eccezione, occorre indicare il provvedimento giurisdizionale contenente la pronuncia sulla stessa domanda e dimostrare il passaggio in giudicato, trascrivendo anche stralci della sentenza invocata.
Per la controricorrente, peraltro, «la cartella esattoriale da cui aveva preso le mosse la procedura esecutiva nel corso della quale era stato effettuato il pignoramento immobiliare nei confronti del ricorrente era stata emessa sulla base di ruolo che era stato formato dopo la pronuncia della sentenza del Tribunale e che su di essa si era venuto a fondare».
Con il quarto motivo di impugnazione il ricorrente deduce la «violazione e/o falsa applicazione degli articoli 329,346 ed ancora 112 c.p.c. e dell’art. 2697 c.c., in relazione all’art. 360, primo comma, n. 3, c.p.c. e/o 360 n. 4 c.p.c.
Il ricorrente critica la sentenza impugnata per avere ritenuto provata la pretesa creditoria di RAGIONE_SOCIALE, non avendo fornito un’adeguata motivazione delle ragioni sottese a tale decisione.
Si sarebbe persino formato il giudicato interno sulla statuizione del Tribunale di Roma n. 15917 del 2014, la quale aveva integralmente annullato la pressoché identica ingiunzione fiscale emessa da RAGIONE_SOCIALE nei confronti del COGNOME, di NOME COGNOME e della società RAGIONE_SOCIALE
Sarebbe erronea l’affermazione contenuta nella sentenza impugnata per cui «era l’appellante a dover dare dimostrazione dell’effettività di singole, peraltro quantitativamente marginali (come indica il giudice penale), prestazioni».
Non si era tenuto conto del fatto che numerosi venditori di olio, come pure acquirenti, consumatori diretti o grossisti, erano stati prosciolti in istruttoria oppure assolti in primo grado o ancora in appello.
7. Con il quinto motivo di impugnazione si deduce la «violazione e/o falsa applicazione degli articoli 115 e 116 c.p.c., in relazione all’art. 360, primo comma, numero 4 e/o in relazione all’art. 360, primo comma, numero 3, c.p.c.».
La Corte d’appello, esaminando la sentenza penale n. 180 del 1995 del Tribunale di Taranto, ha solo evidenziato i profili di responsabilità penale del ricorrente e degli altri imputati, «travisando le risultanze probatorie provenienti da tale documento».
I fatti riportati e descritti nelle pagine da 6 a 23 della sentenza penale, pur gravi, non erano riferibili «a tutta l’attività produttiva e commerciale del Lucarella».
Ed infatti, per molti imputati era intervenuta sentenza di assoluzione (si riportano tali circostanze da pagina 32 a pagina 37 del ricorso per cassazione).
Con il sesto motivo di impugnazione il ricorrente deduce la «violazione e/o falsa applicazione degli articoli 2043, 2056, 1223, 1227 e 2909 c.c. e 651 e 652 CPP, in relazione all’art. 360, primo comma, numero 3, c.p.c. e/o in relazione all’art. 360, primo comma, numero 4, c.p.c. e ancora violazione degli articoli 115 e 116 c.p.c., in relazione all’art. 360, primo comma, numero 4, c.p.c.».
Il ricorrente si sofferma sulla sentenza impugnata laddove ha reputato che «avendo il giudice condannato COGNOME per il reato di cui al capo C) in cui era stata indicata in modo preciso la somma indebitamente erogata per effetto della truffa, il fatto che dal processo penale fosse emerso che una qualche attività reale di confezionamento e vendita di oli fosse stata posta in essere dal COGNOME non
significa che detta attività corrispondesse esattamente agli aiuti oggetto del presente giudizio».
Sarebbe erronea tale affermazione, in quanto nel capo di imputazione non era stata indicata in modo preciso la somma indebitamente erogata, leggendosi nello stesso che il COGNOME «riscuoteva indebitamente per ingenti importi gli aiuti comunitari».
9.Con il settimo motivo di impugnazione si deduce la «violazione e/o falsa applicazione ancora degli articoli 115 e 116 c.p.c., in relazione all’art. 360, primo comma, numero 4, c.p.c., e/o in relazione all’art. 360, primo comma, numero 3, c.p.c., con conseguente integrale travisamento delle risultanze processuali».
La Corte d’appello avrebbe effettuato un «gravissimo e, ai fini dell’esito del giudizio, decisivo travisamento delle risultanze processuali, per aver omesso di esaminare, valutare e decidere in merito a numerosissimi documenti probatori ritualmente prodotti in primo grado dal ricorrente e in merito ad una prova testimoniale espletata, sempre in primo grado».
La Corte d’appello avrebbe posto a fondamento della sua decisione un unico documento prodotto alla controparte.
Erroneamente la Corte d’appello ha ritenuto che il COGNOME si sarebbe limitato nel gravame esclusivamente a contestare i conteggi riportati nella nota ricognitiva della Guardia di Finanza del 25 marzo 1998, redatta sulla scorta della sentenza penale e sulla base del verbale di accertamento.
Per la Corte d’appello il ricorrente non avrebbe allegato alcuna circostanza o evidenza documentale idonea ad individuare transazioni effettivamente intercorse.
Per il ricorrente, invece, la nota della Guardia di Finanza n. 4326 del 25/3/1998 sarebbe contraddetta da numerosi documenti.
In particolare, sarebbe stata ignorata la ponderosa documentazione di ben 512 documenti contenuti in 4 dossier, oltre agli altri 93 documenti elencati nell’atto di opposizione (da pagina 42 a pagina 44 del ricorso per cassazione).
Del resto, nella sentenza del Tribunale penale di Taranto vi erano espressioni che facevano comprendere come non tutta l’attività effettuata dal COGNOME fosse affetta da illiceità penale, valorizzando gli avverbi «pressoché» oppure «quasi sempre» o ancora «quasi totale» (pagina 46 del ricorso per cassazione).
Inoltre, sarebbero state neglette anche le risultanze derivanti dall’espletamento della prova testimoniale (da pagina 51 a pagina 54 del ricorso per cassazione, ove sono riportate le deposizioni di NOME COGNOME, NOME COGNOME e NOME COGNOME).
La Corte d’appello avrebbe poi errato laddove ha ritenuto che spettasse agli opponenti, che hanno sollevato la relativa eccezione, dimostrare quale quota degli aiuti complessivamente ricevuti per effetto dell’attività fraudolenta, fosse invece esattamente corrispondente ad attività reale che ne legittimava la percezione.
Al contrario, era proprio AGEA che, in adempimento del dichiarato suo onere ex art. 2697, primo comma, c.c., avrebbe dovuto indicare e fornire la prova che tutti i contributi ricevuti dal ricorrente, del cui intero ammontare chiede la restituzione anche a titolo di danni, siano derivati da documentazione irregolare e, comunque, di quali e quanti contributi fossero stati erogati indebitamente.
Solo in tal caso gli opponenti avrebbero potuto formulare le loro opportune eccezioni, assumendo conseguentemente l’onere di provarne il fondamento a norma del 2º comma dell’art. 2697 c.c.: norma che risulta anche questa violata e falsamente applicata.
Il ricorrente deduce che la Corte d’appello non ha tenuto conto dei documenti contenuti nel Faldone n. 1 (indicati da pagina 54 a
pagina 58 del ricorso per cassazione), nel Faldone n. 2 (indicati da pagina 58 a pagina 60), nel Faldone n. 3 (documenti indicati da pagina 61 a pagina 62) e nel Faldone n. 4 (da pagina 63 a pagina 64).
Con l’ottavo motivo di impugnazione si deduce la «violazione e/o falsa applicazione dell’art. 2953, 2934, 2935 e 2936 c.c., in relazione all’art. 360, primo comma, n. 3, c.p.c., in riferimento alla decisione di rigetto dell’eccezione di prescrizione formulata dal COGNOME».
In particolare, la Corte territoriale ha reputato che il termine di prescrizione di 10 anni ex art. 2953 c.c. decorreva dal 17/4/1998, data del passaggio in giudicato della sentenza del Tribunale di Taranto che aveva dichiarato NOME COGNOME colpevole di truffa; ha reputato non ancora decorsi i 10 anni al momento della notifica dell’ingiunzione fiscale del 4/2/2008.
La Corte d’appello avrebbe falsamente applicato l’art. 2953 c.c., in quanto, era vero che la sentenza n. 180 del 1995 del Tribunale penale di Taranto aveva condannato il COGNOME a risarcire i danni subiti dalla costituita parte civile Aima, ora RAGIONE_SOCIALE, ma era anche vero che il Tribunale aveva disposto che tali danni dovessero «liquidarsi nella competente sede civile».
Pertanto, RAGIONE_SOCIALE, se avesse voluto tempestivamente chiedere la liquidazione dei danni dalla COGNOME, avrebbe dovuto rivolgersi al giudice civile nel termine decennale di cui all’art. 2953 c.c., e non oltre la data del 17/4/2008.
Al contrario, l’AGEA, invece di ottemperare a quanto disposto dal giudice penale, aveva provveduto ad emettere «la inammissibile ingiunzione amministrativa di condanna, notificata al COGNOME il 4 febbraio 2008, e «solo dopo aver ricevuto la notifica dell’atto di opposizione a detta ordinanza amministrativa, si è rivolta al Tribunale civile di Roma in data 11 ottobre 2008, e quindi allorché i 10 anni di cui
all’art. 2953 erano ormai scaduti da ben 6 mesi formulando, in via principale, nel proprio atto di costituzione in giudizio, domanda riconvenzionale di condanna dell’opponente NOME al pagamento di quanto preteso nei confronti del medesimo».
La domanda doveva quindi essere dichiarata prescritta.
Con il nono motivo di impugnazione si deduce la «violazione e/o falsa applicazione degli articoli 191 CPP, 2697, 2908 e 2909 c.c., 24,25 e 111 della costituzione, dell’art. 3 della legge 241/1990 e dell’art. 7 della legge 212/2000, in relazione all’art. 360, primo comma, numeri 1, 2, 3 e 5, c.p.c.».
Per il ricorrente la sentenza della cassazione penale di condanna sarebbe inattendibile, inutilizzabile, illegittima e incompleta.
La Corte d’appello avrebbe dovuto utilizzare, a fondamento della sua decisione, elementi «certi, incontrovertibili e, appunto, non contraddittori».
La sentenza penale di condanna avrebbe invece stabilito la responsabilità del COGNOME «basandosi su atti, innanzitutto, dichiarati nulli per violazione dell’art. 24 della Costituzione da tutte le decisioni di commissione tributaria; a quest’ultima aggiungendosi i numerosi annullamenti in autotutela dell’erario».
Ciò avrebbe dovuto incrinare «il rapporto sinallagmatico tra la realtà dei fatti e la verità processuale derivatane dalla sentenza penale di condanna».
I motivi quarto, quinto, sesto, settimo e nono, che vanno trattati congiuntamente per strette ragioni di connessione sono inammissibili.
In realtà, si assiste alla richiesta di una mera rivalutazione di tutti gli elementi istruttori, già compiutamente esaminati dalla Corte di merito, non consentita in questa sede.
11.1. La Corte d’appello, infatti, con ampia ed esaustiva motivazione, ha ritenuto che fosse stata fornita da parte della creditrice RAGIONE_SOCIALE la prova dell’indebita ricezione di aiuti comunitari da parte di NOME COGNOME.
Tra l’altro, la Corte territoriale ha valorizzato, non soltanto il giudicato penale di condanna nei confronti di NOME COGNOME ma anche tutti gli elementi istruttori acquisiti nel corso del processo penale.
La Corte d’appello muove dall’efficacia del giudicato penale nel giudizio civile ex art. 651 c.p.p., rammentando che «La sentenza penale irrevocabile di condanna, pronunciata in seguito al dibattimento, ha efficacia di giudicato, quanto all’accertamento della sussistenza del fatto, della sua illiceità penale e all’affermazione che l’imputato l’ha commesso, nel giudizio civile o amministrativo per le restituzioni ed il risarcimento del danno promosso nei confronti del condannato».
Tuttavia, non si ferma dinanzi a tale considerazione, ma svolge un esame critico anche degli elementi istruttori acquisiti in sede penale.
L’unica vera contestazione da parte del COGNOME era relativa alla circostanza che questi, comunque, gestiva anche un’attività individuale imprenditoriale parallela a quella della società RAGIONE_SOCIALE, seppure di minore rilievo.
Sul punto, la Corte territoriale premette che «è pacifica la circostanza che l’Azienda RAGIONE_SOCIALE abbia effettivamente incassato a titolo di aiuti nel periodo tra il 1984 ed il 1986 la somma di lire 12.659.695.269,00 pari all’importo in linea capitale ingiunto».
Chiosa, poi, la Corte d’appello – proprio in relazione all’attività residuale del COGNOME – che «considerato che risulta pienamente provata l’attività fraudolenta posta in essere da COGNOME al fine di far incassare alla società aiuti pari al suddetto importo, non vale ad
escludere la certezza e la liquidità del credito ingiunto la circostanza che il giudice penale a pagina 28 della sentenza abbia affermato ‘del resto l’esclusione di alcuni episodi da un giudizio di colpevolezza non è in contraddizione rispetto alla valutazione complessiva dei fatti, giacché dalle risultanze processuali è emerso che NOME accanto alla sicuramente prevalente attività di falsa fatturazione, svolgeva un’effettiva, seppur minore attività di confezionamento e vendita di olio’ (vedi in un caso analogo Cass. civ. n. 3402/16 in motivazione)».
Tuttavia, la Corte territoriale scende all’esame analitico dei documenti istruttori, accertando che l’intero ammontare degli aiuti comunitari era indebito, ciò risultava da: l’assenza di dipendenti assunti dalla GAM; le affermazioni del COGNOME per cui egli, con l’ausilio di collaboratori occasionali, mai indicati nominativamente, aveva provveduto a tutte le operazioni di imbottigliamento, oltre che a tutte le fasi dell’approvvigionamento e della distribuzione e ciò «a fronte dell’impressionante volume di affari totalizzato dalla società RAGIONE_SOCIALE per quintali di olio sfuso acquistato e per litri di olio confezionato, tanto da porsi costantemente al vertice della graduatoria nazionale per l’ammontare degli aiuti comunitari sull’immissione in consumo dello olio di oliva richiesti dall’Aima».
È stata anche valorizzata «l’implausibile ed assoluta costanza del mezzo di pagamento dell’olio avvenuto sempre in contanti, anche nei casi di fornitura per centinaia di milioni di lire».
Non si è dimenticato che vi era «incompatibilità tra la documentale effettuazione di molti trasporti di merci e circostanze accertate oggettivamente impedienti, quali il contemporaneo impegno dell’autista, che era quasi sempre lo stesso COGNOME con un unico mezzo di trasporto immatricolato in epoca remota, in altro trasporto o la contestuale presenza in luoghi distanti tra di loro ovvero l’abbinamento di consegna nello stesso giorno o in giornate successive incompatibili
con le distanze e i tempi tecnici per i viaggi e per le connesse operazioni di carico e scarico».
Altri elementi erano costituiti dall’assenza di qualsiasi traccia indiziaria relativa al rifornimento di carburante, oltre che dalle modalità di approvvigionamento dell’olio attraverso acquisti numerosi e non di rilevante entità, facendo figurare come fornitori produttori agricoli apparentemente esonerati dagli adempimenti Iva per legittimare il ricorso all’autobolla o all’autofattura per far apparire come fatturate operazioni in effetti mai avvenute o avvenute per importi inferiori.
La Corte d’appello si sofferma poi anche su indagini incrociate che avevano rivelato episodi sconcertanti: «invalidi costretti sulla sedia a rotelle che non solo acquistano centinaia di quintali di olio, ma che, abbandonate le stampelle, diventano disinvolti ed instancabili autisti di autotreni a pieno carico».
Pertanto, la Corte territoriale ha fatto corretta applicazione dell’art. 651 c.p.p.
Per questa Corte, infatti, in tema di rapporti tra giudizio civile risarcitorio e giudizio penale, l’efficacia probatoria della sentenza penale dibattimentale di condanna passata in giudicato non è circoscritta all’interno dei limiti oggettivi del giudicato penale di condanna, segnati dall’art. 651 c.p.p., attinenti alla sussistenza del fatto materiale, alla sua illiceità penale ed alla sua ascrivibilità all’imputato, potendo il giudice civile utilizzare le prove assunte nel processo penale, delle quali la sentenza ivi pronunciata costituisce documentazione, ai fini dell’autonomo accertamento degli ulteriori elementi costitutivi dell’illecito civile sui quali egli è chiamato ad indagare, con particolare riferimento al nesso causale, al danno risarcibile e all’elemento soggettivo civilistico (cfr. Cass., sez. 3, 10/5/2024, n. 12901).
Del resto, il giudice civile, investito della domanda di risarcimento del danno da reato, ben può utilizzare, come fonte del proprio convincimento, le prove raccolte in un giudizio penale definito con sentenza passata in giudicato senza dover procedere alla rinnovazione dell’istruzione dibattimentale: l’obbligo di rinnovazione (imposto dall’art. 6, par. 1, della CEDU, in caso di riforma della sentenza assolutoria di primo grado, come affermato dalla Corte EDU nella sentenza del 21 settembre 2010, Marcos COGNOME c. Italia), infatti, ha rilievo solo in ambito penalistico e non è applicabile ai giudizi risarcitori civili, governati, in tema di accertamento del nesso causale tra condotta illecita e danno, dalle diverse regole probatorie del “più probabile che non” e della probabilità prevalente, a maggior ragione qualora venga richiesta in appello l’affermazione della responsabilità del presunto danneggiante (cfr. Cass., sez. 3, 7/11/2023, n. 30992).
Si è anche chiarito che il nostro ordinamento non è ispirato al principio dell’unità della giurisdizione e della prevalenza del giudizio penale su quello civile, avendo il legislatore instaurato un sistema di completa autonomia e separazione fra i due giudizi, in virtù del quale è consentito al processo civile, ad eccezione di alcune particolari e limitate ipotesi di sua sospensione ex art. 75, comma 3, c.p.p., di proseguire il suo corso senza essere influenzato da quello penale ed è imposto al giudice civile di procedere ad un autonomo accertamento dei fatti e della responsabilità civile con pienezza di cognizione, senza essere vincolato alle soluzioni e alle qualificazioni del giudice penale, sicché, anche in presenza di un giudicato penale, il giudice civile non ha l’obbligo di esaminare e valutare le prove e le risultanze acquisite nel processo penale come fonte del proprio convincimento (cfr. Cass., sez. 2, 30/12/2021, n. 42028).
Ciò che si chiede al giudice civile, investito della domanda di risarcimento del danno da reato, ove intenda utilizzare, senza peraltro
averne l’obbligo, come fonte del proprio convincimento, le prove raccolte in un giudizio penale definito con sentenza passata in giudicato e fondare la prova decisione su elementi e circostanze già acquisiti con le garanzie di legge in quella sede, è di procedere alla relativa valutazione con pienezza di cognizione al fine di accertare i fatti materiali all’esito del proprio vaglio critico (cfr. Cass., sez. 3, 7/5/2021, n. 12164).
E ciò è proprio quello che ha fatto la Corte d’appello nella sentenza impugnata in questa sede, con analitica disamina degli elementi istruttori in atti.
Va aggiunto, che è corretto il richiamo alla sentenza di questa Corte n. 3402 del 22/2/2016, nella quale si è affermato che «la liquidità e la certezza del credito non vengono meno sol perché un minimo quantitativo di agrumi risulti effettivamente conferito presso l’industria di trasformazione, e ciò in considerazione del fatto che il soggetto fruitore dell’intera contribuzione comunitaria – poi oggetto di ripartizione fra imprecisati soggetti – era un sodalizio risultato del tutto inesistente e che, in tale veste, sarebbe stato il recettore dei pretesi conferimenti da parte dei produttori (molti dei quali soggetti, a loro volta, inesistenti) e, quindi, il ‘giratario’ a loro favore dei contributi da ridistribuire ai presunti soci conferenti».
13. A fronte di una mole documentale così ampia, da un lato, si rileva che il contenuto dei documenti indicati nel ricorso per cassazione non può certo essere utilizzato per sconfessare le argomentazioni complete ed esaustive della Corte di merito, dall’altro, non può non osservarsi che, una volta fornita la prova da parte della creditrice della sussistenza della propria pretesa, era onere specifico del COGNOME dare la dimostrazione che, in realtà, una parte delle operazioni era in realtà reale e non fittizia, onde scomputare tali prestazioni
dall’ammontare complessivo degli aiuti economici comunitari ricevuti indebitamente.
Senza contare che dal controricorso emerge che il prospetto riepilogativo del 25/3/1998 è stato chiesto dalla AGEA alla Guardia di Finanza dopo la pronuncia della sentenza della Corte d’appello penale, che aveva confermato la condanna per il NOMECOGNOME pronunciando invece sentenza di assoluzione con la formula perché il fatto non costituisce reato in favore della coniuge NOME COGNOME
Quanto alle doglianze in ordine all’utilizzazione da parte del giudice penale di documenti non utilizzabili ex art. 191 c.p.p., tali rilievi dovevano essere sollevati nell’ambito del processo penale, in sede di appello o di giudizio di legittimità.
Peraltro, la prova formata nel procedimento penale, ancorché senza il rispetto delle relative regole poste a garanzia del contraddittorio, è ammissibile quale prova atipica nel processo civile, dove il contraddittorio è assicurato attraverso le modalità tipizzate per l’introduzione dei mezzi istruttori atipici nel giudizio, volte ad assicurare la discussione delle parti sulla loro efficacia dimostrativa in ordine al fatto da provare (cfr. Cass., sez. 3, 28/2/2023, n. 5947; Cass., sez. 5, 7/12/2021, n. 38750).
16. L’ottavo motivo è inammissibile.
Infatti, la Corte d’appello ha risposto al motivo di impugnazione sollevato dal COGNOME in ordine alla pretesa prescrizione del diritto di RAGIONE_SOCIALE nei suoi confronti.
La doglianza palesata con l’atto d’appello riguardava la mancata interruzione della prescrizione nel corso del giudizio penale, conclusosi con una condanna in forma generica in favore della parte civile.
Per tale ragione, il dies a quo da cui iniziare a computare la prescrizione doveva essere individuato nel 1988, ossia nel momento in
cui l’Aima, oggi RAGIONE_SOCIALE, aveva acquisito contezza dei verbali della Guardia di Finanza che riscontravano la frode.
Per il ricorrente, la costituzione di parte civile di Aima in sede penale per ottenere il risarcimento del danno non poteva interrompere la prescrizione per la diversa pretesa restitutoria.
La Corte d’appello, però, con idonea motivazione ha chiarito che l’azione restitutoria da reato ex art. 185 c.p.c. originava da reato di truffa ex art. 140 CP, e che, in caso di costituzione di parte civile in un processo penale, poi definito per prescrizione, nel successivo giudizio promosso in sede civile per la ripetizione di indebito la pregressa costituzione ha valore interruttivo della prescrizione in quanto ogni reato obbliga, oltre che al risarcimento, alle restituzioni, sicché l’esperimento dell’azione civile nel processo penale è di per sé idonea ad identificare il petitum della domanda, senza che occorra l’ulteriore enunciazione (si richiama Cass., n. 17226 del 29/7/2014).
A fronte di questa chiara motivazione, il ricorrente nell’ottavo motivo chiede che la prescrizione sia dichiarata in quanto, fermo restando che il giudicato si è formato al momento della pronuncia della Corte di cassazione penale, e quindi con la sentenza n. 4526 del 13/3/1998, depositata in data 17/4/4998, l’attrice RAGIONE_SOCIALE aveva proposto la domanda riconvenzionale solo in data 1/10/2008, quindi allorché i 10 anni di cui all’art. 2956 c.c. erano ormai scaduti (dalla data del 17/4/1998).
È evidente che non viene impugnata la ratio decidendi della sentenza della Corte di merito, prospettandosi una nuova questione, inammissibile in questa sede.
Tra l’altro, il giudizio avverso l’ingiunzione fiscale è stato instaurato, per le considerazioni esposte nei paragrafi precedenti, proprio con la notifica dell’ingiunzione fiscale avvenuta il 4/2/2008, essendo
da tale data pendente il giudizio ordinario di cognizione, a prescindere dalla successiva proposizione della domanda riconvenzionale, a seguito dell’opposizione presentata dal COGNOME
Le spese del giudizio di legittimità, per il principio della soccombenza, vanno poste a carico del ricorrente e si liquidano come da dispositivo.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso.
Condanna il ricorrente COGNOME a rimborsare in favore della controricorrente RAGIONE_SOCIALE le spese del giudizio di legittimità che si liquidano in complessivi euro 30.000,00, oltre spese prenotate a debito, rimborso forfettario delle spese generali nella misura del 15%, Iva e cpa.
Ai sensi dell’art. 13 comma 1-q uater del d.P.R. 115 del 2002, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma del comma 1bis , dello stesso art. 1, se dovuto.
Così deciso in Roma nella camera di consiglio del 23 aprile 2025