Ordinanza di Cassazione Civile Sez. 1 Num. 32811 Anno 2024
Civile Ord. Sez. 1 Num. 32811 Anno 2024
Presidente: NOME
Relatore: COGNOME NOME
Data pubblicazione: 16/12/2024
ORDINANZA
sul ricorso iscritto al n. 2321/2020 R.G. proposto da : COGNOME NOME COGNOME NOME COGNOME NOME, elettivamente domiciliati in ROMA LARGO INDIRIZZO, presso lo studio dell’avvocato COGNOME ( -) rappresentati e difesi dagli avvocati COGNOME NOME (CODICE_FISCALE), NOME (CODICE_FISCALE)
-ricorrenti- contro
RAGIONE_SOCIALE elettivamente domiciliata in ROMA INDIRIZZO presso lo studio dell’avvocato COGNOME (CODICE_FISCALE che la rappresenta e difende unitamente all’avvocato COGNOME (CODICE_FISCALE
avverso la SENTENZA della CORTE D’APPELLO di TORINO n. 1697/2019 depositata il 22/10/2019.
Udita la relazione svolta nella camera di consiglio del 29/10/2024 dal Consigliere NOME COGNOME
FATTI DI CAUSA
La Corte d’Appello di Torino, con sentenza n. 1697/2019, depositata il 22.10.2019, ha rigettato l’appello proposto da RAGIONE_SOCIALE, COGNOME NOME, COGNOME NOME e COGNOME NOME avverso la sentenza n. 376/2018 con cui il Tribunale di Biella aveva rigettato l’opposizione proposta contro il decreto ingiuntivo del 18.6.2014 con cui lo stesso Tribunale aveva ingiunto alla RAGIONE_SOCIALE, quale debitore principale, e a COGNOME NOME, COGNOME NOME e COGNOME NOME, quali fideiussori, il pagamento in favore di Banca Sella s.p.a. della somma complessiva di € 3.919.074,82, di cui € 1.837.256,07 per scoperto del c/c n. P7 C2 85198961 0, ed € 2.081.818,76 per scoperto del c/c n. P 7 C285198961 1., oltre interessi al tasso del 2,65% dall’1.4.2014.
Il giudice di secondo grado ha evidenziato che il contratto di mutuo fondiario stipulato in data 31.7.2008 tra la società appellante e la Banca per l’importo di € 5.000.000,00 non era mai andato a regime, essendo stato risolto prima che fosse predisposto il piano di ammortamento e sottoscritto l’atto di erogazione e quietanza di cui all’art. 2 del contratto. Erano state solo erogate alla mutuataria somministrazioni parziali ‘in conto mutuo’, ai sensi dell’art. 4 del contratto, per un ammontare complessivo di € 3.765.000, 00 che erano state via via versate sul conto corrente n. CODICE_FISCALE appositamente acceso a tale scopo il 4.8.2008, poco prima della stipula del mutuo.
Ha precisato il giudice d’appello che, proprio perché il mutuo non era mai andato a regime, sulle predette somministrazioni parziali non erano stati applicati interessi moratori, se non dal momento della risoluzione del contratto ed al tasso di mora (non usurario) del 2,65%, ma unicamente interessi corrispettivi, a remunerazione delle somme accreditate sul conto. Inoltre, se è pur vero che gli interessi corrispettivi applicati alle singole anticipazioni avevano prodotto alle scadenze semestrali ulteriori interessi, l’applicazione di interessi anatocistici sugli interessi corrispettivi pattuiti in contratto, oltre a non essere stata censurata, era legittima in base alla delibera CICR del 9 febbraio 2000.
Ha, inoltre, aggiunto la Corte d’Appello che, anche ammettendo che gli interessi di mora pattuiti in contratto fossero usurari, ciò comporterebbe solo la nullità della clausola, ma non la gratuità dell’intero mutuo.
Quanto alla questione dell’indicatore sintetico di costo, la Corte d’Appello ha ritenuto inammissibile il primo motivo d’appello con cui la società debitrice aveva censurato il capo della sentenza di primo grado che aveva respinto la contestazione degli opponenti di indeterminatezza del tasso contrattuale conseguente allo scostamento dell’indicatore sintetico di costo (ISC) effettivamente applicato, pari al 9,526 %, rispetto a quello indicato in contratto, pari al 5,85%.
Il Tribunale di Biella aveva ritenuto che tale contestazione fosse generica e indeterminata in quanto gli opponenti non avevano spiegato il procedimento logico e di calcolo utilizzato per affermare l’inesattezza dell’ISC effettivamente applicato; e che, in ogni caso, l’inesattezza dell’ISC non costituiva ragione di indeterminatezza dei tassi ai sensi dell’art. 117 TUB, essendo, peraltro, prevista la nullità parziale della clausola per indeterminatezza solo nei contratti di credito al consumo, mentre si trattava di mutuo ipotecario concesso ad una società di capitali.
Il giudice d’appello, nel dichiarare l’inammissibilità del primo motivo d’appello, ha osservato che l’appellante non aveva svolto alcuna censura alla sentenza di primo grado nella parte in cui questa aveva rigettato la contestazione di indeterminatezza del tasso contrattuale sul rilievo che gli opponenti non avevano esplicitato il procedimento logico-contabile seguito per arrivare ad affermare che l’ISC effettivamente applicato era superiore a quello indicato in contratto.
Avverso la predetta sentenza ha proposto ricorso per cassazione RAGIONE_SOCIALE, COGNOME NOME, COGNOME NOME e COGNOME NOME, affidandolo a sette motivi.
La banca Sella ha resistito in giudizio con controricorso.
Entrambe le parti hanno depositato le memorie ex art. 380 bis.1 c.p.c..
RAGIONI DELLA DECISIONE
Con il primo motivo è stato dedotto, in punto IRAGIONE_SOCIALESRAGIONE_SOCIALEC., l’omesso esame di un fatto storico decisivo ex art. 360 comma 1° n. 5 c.p.c., corrispondente all’omesso esame della perizia di parte.
Espongono i ricorrenti che nel primo grado del giudizio avevano prodotto, unitamente alla memoria ex art. 183 c.p.c., il doc. n. 13 corrispondente alla ‘relazione RAGIONE_SOCIALE 20 gennaio 2015′ e, all’interno di tale relazione, a pagg. 7,8,9, il perito aveva spiegato, con un ampio grafico, il tasso effettivamente applicato alla parte mutuataria.
Orbene -sostengono i ricorrenti -la relazione e i relativi conteggi svolti dal proprio perito sono parte degli atti del giudizio di primo grado e del grado d’appello e la Corte d’Appello ha omesso di esaminare tale fatto storico del presente giudizio.
Con il secondo motivo è stato dedotto l’omesso esame di un fatto storico corrispondente al mancato accertamento giudiziale del corretto I.SRAGIONE_SOCIALE.
Espongono i ricorrenti che il Tribunale di Biella, non accorgendosi delle perizie prodotte dagli stessi, aveva affermato che nel contratto di mutuo la banca aveva inserito il tasso corrispettivo, il tasso di mora e l’ISC, senza entrare nel merito della verifica dell’esattezza o meno di tali tassi.
3. Con il terzo motivo è stato dedotto ‘il mancato esame di un fatto storico corrispondente al paragrafo IV.1. dell’atto di appello ovvero per la violazione e falsa applicazione dell’art. 117 TUB, in relazione all’art. 360 comma 1, n.3 e n. 5 c.p.c., trattandosi di motivazione assente, apparente, manifestamente ed irriducibilmente contraddittoria, perplessa od incomprensibile, che si converte nella violazione dell’art. 132, comma 2, n. 4 c.p.c .’.
Espongono i ricorrenti di non aver contestato la violazione dell’art. 125 bis comma 6 T.U.B., norma che disciplina il credito al consumo, ma solo dell’art. 117 T.U.B.., come emerge dall’esame delle pagine da 16 a 26 dell’atto di appello.
In particolare, rilevano che dalla lettura congiunta dell’art. 117 , comma 8, T.U.B. e dei regolamenti della Banca d’Italia consegue che un contratto bancario di mutuo, di finanziamento o di apertura di credito che non riporti l’Indice Sintetico di Costo (I.S.C.) deve ritenersi nullo, riportando un contenuto difforme da quello prescritto dalla Banca d’Italia. Allo stesso risultato si deve giungere qualora nel testo contrattuale sia riportato un dato difforme dal vero. Ove, infatti, si sanzionasse con la nullità la sola omissione, e non anche l’indicazione di un dato non veritiero, si consentirebbe di aggirare facilmente gli obblighi prescritti dalle norme sopra citate.
I ricorrenti, infine, hanno citato una serie di pronunce di merito da cui, a loro avviso, emerge il principio secondo cui l’indicazione di un T.A.E.G./I.S.C. diverso da quello reale comporta la nullità del tasso, con conseguente applicazione del tasso sostitutivo (come previsto
dall’art. 117 comma 7 TUB che prevede l’inserzione di una clausola legale in sostituzione di quella contrattuale nulla).
4. Tutti e tre i motivi, da esaminare unitariamente in relazione alla stretta connessione delle questioni trattate, presentano concomitanti profili di infondatezza ed inammissibilità.
Va preliminarmente osservato che, come già osservato da questa Corte (cfr. Cass. n. 4597/2023; vedi anche Cass. n. 39169/2021), l’indicatore sintetico di costo (ISC) è stato introdotto nel nostro ordinamento dalla deliberazione del CICR del 4.3.2003, che ha demandato alla Banca d’Italia il compito di individuare ‘le operazioni e i servizi per i quali … gli intermediari sono obbligati a rendere noto un ‘Indicatore Sintetico di Costo’ (ISC) comprensivo degli interessi e degli oneri che concorrono a determinare il costo effettivo dell’operazione per il cliente, secondo la formula stabilita dalla Banca d’Italia’.
Tale indice rappresenta un valore medio espresso in termini percentuali che svolge una funzione informativa, finalizzata a mettere il cliente nella posizione di conoscere il costo totale effettivo del finanziamento prima di accedervi, di rendere il cliente edotto dell’effettiva onerosità dell’operazione.
Proprio perché svolge una mera funzione di pubblicità e trasparenza, l’ISC non costituisce un tasso di interesse, un prezzo o una condizione economica direttamente applicabile al contratto; non rientra nelle nozioni di ‘tassi, prezzi e condizioni’ cui esclusivamente fa riferimento l’art. 117 comma 6 TUB’.
D’altra parte, la sanzione della nullità per la mancata o non corretta indicazione dell’ISC/TAEG è prevista esclusivamente per il caso del credito al consumo, nell’ambito della cui disciplina l’art. 125 bis comma 6 TUB (peraltro entrato in vigore effettivamente solo nel 2010 e quindi successivamente alla stipula del contratto di mutuo di cui è causa) prevede che ‘Sono nulle le clausole del contratto relative a costi a carico del consumatore che, contrariamente a
quanto previsto ai sensi dell’articolo 121, comma 1, lettera e), non sono stati inclusi o sono stati inclusi in modo non corretto nel TAEG pubblicizzato nella documentazione predisposta secondo quanto previsto dall’articolo 124. La nullità della clausola non comporta la nullità del contratto’.
Ne consegue che l’unico rimedio di cui può avvalersi eventualmente il mutuatario, al quale siano state applicate condizioni più sfavorevoli di quelle pubblicizzate dalla banca, è di natura risarcitoria (sempre che il mutuatario sia in condizione di provare di aver subito un pregiudizio nonché il nesso di causalità tra condotta scorretta della banca e danno).
Ciò in quanto l’erronea indicazione dell’ISC, integrando la violazione di una regola di condotta della banca (dovere di informazione trasparente delle condizioni del contratto di mutuo applicate alla clientela), non incide sulla validità del contratto (vedi S.U. n. 26724/2007) e può quindi dar luogo soltanto a responsabilità precontrattuale o contrattuale.
In conclusione, proprio perché l’applicazione di un ISC difforme da quello dichiarato in contratto non incide sulla validità del contratto, ma è solo eventualmente fonte di responsabilità risarcitoria (domanda di risarcimento nemmeno formulata nel caso di specie), la dedotta violazione dell’art. 117 TUB è insussistente e non ricorre neppure la violazione dell’art. 360 comma 1° n. 5 c.p.c. per assoluta mancanza di decisività dei fatti di cui la Corte d’Appello avrebbe asseritamente omesso l’esame.
Peraltro, la dedotta violazione dell’art. 360 comma 1° n. 5 c.p.c. è, ogni caso, inammissibile sia perché il dedotto omesso esame di una perizia non integra l’omesso esame di fatto decisivo di cui alla predetta norma, sia per difetto di autosufficienza dei motivi in esame.
Quanto al primo profilo, va, preliminarmente, osservato che questa Corte (vedi Cass. n. 12387/2020; vedi anche Cass. n. 8584/2022;
Cass. n. 6322/2023; Cass. n. 18391/2017), ha più volte enunciato il principio di diritto secondo cui l ‘art. 360, comma 1, n. 5, c.p.c., riformulato dall’art. 54 del d.l. n. 83 del 2012, conv., con modif., dalla l. n. 134 del 2012, introduce nell’ordinamento un vizio specifico denunciabile per cassazione relativo all’omesso esame di un fatto storico, principale o secondario, intendendosi per tale un accadimento fenomenico esterno alla dinamica propria del processo. Ne consegue che nel ‘fatto storico’ non è inquadrabile la consulenza tecnica d’ufficio – atto processuale che svolge funzione di ausilio del giudice nella valutazione dei fatti e degli elementi acquisiti (consulenza c.d. deducente) ovvero, in determinati casi, fonte di prova per l’accertamento dei fatti (consulenza c.d. percipiente) – in quanto essa costituisce mero elemento istruttorio da cui è possibile trarre il “fatto storico”, rilevato e/o accertato dal consulente.
Pertanto, la parte interessata non può genericamente limitarsi a dedurre l’omesso esame delle risultanze della CTU, ma deve individuare ed evidenziare un preciso fatto storico sottoposto alla dialettica del contraddittorio dalla difesa, legale o tecnica, di natura decisiva, tale cioè da ribaltare o modificare significativamente l’esito della lite, che il giudice del merito abbia omesso di considerare. Nel caso di specie, i ricorrenti deducono, addirittura, l’omesso esame di una perizia di parte che è una mera allegazione difensiva.
Quanto al difetto di autosufficienza e specificità, va osservato che, secondo la prospettazione dei ricorrenti, la Corte d’Appello, nell’affermare che gli stessi non avevano censurato la sentenza di primo grado nella parte in cui era stato ritenuto che non avevano esplicitato il procedimento logico-contabile seguito per arrivare alla conclusione che l’ISC effettivamente applicato era difforme da quello indicato in contratto, aveva omesso il fatto ‘decisivo’ della lettura della loro perizia di parte, doc. 13 del fascicolo di primo
grado (prodotto in giudizio anche in appello), in cui erano riportati tutti i conteggi.
Orbene, tale doglianza è del tutto priva di autosufficienza, essendosi i ricorrenti limitati ad indicare genericamente il documento nel quale il loro consulente tecnico di parte avrebbe esplicitato il procedimento logicocontabile per affermare che l’ISC applicato era difforme da quello dichiarato in contratto, ma senza indicare minimamente, neppure nelle parti essenziali o per estratto, l’iter logico -argomentativo seguito dal proprio consulente, così non consentendo a questa Corte di valutare in alcun modo il contenuto e la portata della loro censura.
Sul punto, è orientamento consolidato di questa Corte quello secondo cui, in tema di ricorso per cassazione, il principio di autosufficienza -riferito alla specifica indicazione degli atti processuali, dei documenti e dei contratti o accordi collettivi su cui il ricorso si fonda ai sensi dell’articolo 366, comma 1, n. 6, c.p.c. anche interpretato alla luce dei principi contenuti nella sentenza della Corte EDU, sez. I, 28 ottobre 2021, r.g. n. 55064/11, non può ritenersi rispettato qualora il motivo di ricorso faccia rinvio agli atti allegati e contenuti nel fascicolo di parte senza riassumerne il contenuto al fine di soddisfare il requisito ineludibile dell’autonomia del ricorso per cassazione, fondato sulla idoneità del contenuto delle censure a consentire la decisione (Cass. 6769/2022). Il che comporta che, se non è necessaria l’integrale trascrizione degli atti e documenti posti a fondamento del ricorso, è pur sempre indispensabile che nel ricorso sia puntualmente indicato il contenuto degli atti richiamati all’interno delle censure (Cass. S.U. 8950/2022).
Nel caso di specie, i ricorrenti non hanno assolto al loro onere di allegazione, nei termini illustrati, limitandosi a dedurre genericamente l’omesso esame della loro consulenza di parte, non riassumendone neppure in minima parte il contenuto, e non
indicando, all’interno del documento (che si occupava di diversi profili oggetto del presente giudizio, quali l’usurarietà dei tassi moratori) nemmeno la localizzazione del punto in cui è stato esaminato l’ISC.
Con il quarto motivo è stata dedotta la ‘violazione e falsa applicazione dell’art. 644 c.p., della legge n. 108/1996 e dell’art. 1815 c.c. in relazione all’art. 360, comma 1, n. 3 c.p.c.’.
Contestano i ricorrenti l’affermazione della Corte d’Appello secondo cui ‘quand’anche gli interessi di mora pattuiti fossero usurari, tale accertamento non travolgerebbe la clausola che prevede la debenza degli interessi corrispettivi sulle singole anticipazioni, gli unici ad essere stati applicati sino al 16.04.2013, data di risoluzione del contratto e della revoca del conto corrente’. Rilevano che l’art. 644 c.p. fa chiaramente riferimento agli interessi ‘promessi’, ovvero pattuiti, e non agli interessi applicati, e l’art. 1815 c.c. è altrettanto chiaro nel prevedere la gratuità dei contratti affetti da usura.
Il motivo presenta concomitanti profili di inammissibilità ed infondatezza.
In primo luogo, i ricorrenti non hanno in alcun modo censurato e contestato la ricostruzione della sentenza impugnata secondo cui:
il contratto di mutuo non era mai andato a regime, essendo questo stato risolto prima che fosse predisposto il piano di ammortamento e sottoscritto l’atto di erogazione e quietanza di cui all’art. 2 del contratto;
ii) erano state erogate alla mutuataria solo somministrazioni parziali ‘in conto mutuo’, via via versate sul conto corrente n. P7 52 85198961 0, appositamente acceso a tale scopo il 4.8.2008, poco prima della stipula del mutuo, con la conseguenza che alla debitrice non sono mai stati applicati interessi moratori, se non dal momento della risoluzione del contratto di conto corrente ed al
tasso di mora (non usurario) del 2,65%, ma unicamente interessi corrispettivi, a remunerazione delle somme accreditate sul conto.
Dunque, la situazione debitoria della RAGIONE_SOCIALE non è stata dovuta in alcun modo all’applicazione di interessi moratori previsti dal contratto di mutuo che, come detto, non è mai stato operativo.
In ogni caso, anche ove il mutuo fosse andato a regime, la mera pattuizione in tale contratto di interessi moratori eventualmente superiori al tasso soglia antiusura non avrebbe avuto, comunque, alcuna giuridica rilevanza.
Sul punto, le Sezioni Unite di questa Corte, con la sentenza n. 19597/2020 (vedi punto VI, pag. 29 e 30), hanno ben spiegato che, nel contratto di mutuo ancora in corso di svolgimento -ma non è questo il caso -in astratto la questione dell’usurarietà degli interessi moratori è prospettabile anche in difetto di mora ma non è decisiva se non vi è inadempimento.
In ogni caso, ai fini della verifica della violazione della normativa antiusura, ciò che rileva, in concreto, in caso di inadempimento, non è il tasso di mora in astratto pattuito (e non applicato), ma quello in concreto applicato (insussistente nel caso di specie).
Infine, sempre le Sezioni Unite hanno statuito che l’accertamento dell’usurarietà degli interessi moratori eventualmente applicati (non nel caso di specie) non comporta comunque la gratuità del mutuo -come invocato dai ricorrenti -ma soltanto che, a norma dell’art. 1815, comma 2, c.c., gli interessi moratori non sono dovuti nella misura (usuraria) pattuita, bensì in quella dei corrispettivi lecitamente convenuti, in applicazione dell’art. 1224, comma 1, c.c..
In conclusione, alla luce dei principi sopra enunciati, la eventuale mera pattuizione nel contratto di mutuo di interessi moratori superiori al tasso soglia è assolutamente irrilevante nel caso di specie. Non essendo il mutuo mai diventato operativo, non vi è
stato inadempimento, se non relativo al contratto di conto corrente, e non sono stati, conseguentemente, applicati gli interessi moratori, né men che meno superiori al tasso soglia (la cui eventuale applicazione non avrebbe comunque comportato l’invocata gratuità del mutuo).
Con il quinto motivo è stata dedotta ‘violazione e falsa applicazione dell’art. 644 c.p., della legge n. 108/1996 e dell’art. 1815 c.c. piuttosto che dell’art. 21 T.U.F. e degli artt. 27 e 32 normativa regolamentare Consob (richiamati dal T.U.B.) in relazione all’art. 360, comma 1, n. 3 c.p.c.’.
I ricorrenti criticano quella parte della sentenza impugnata in cui il giudice d’appello ha dichiarato inammissibile il terzo motivo d’appello evidenziando che, essendo stata la clausola ‘opzione floor’ richiamata nella perizia di parte degli appellanti solo per ribadire l’usurarietà degli interessi di mora pattuiti, non essendo tali interessi stati applicati, né più applicabili, la loro eventuale usurarietà non faceva venire meno la debenza degli interessi corrispettivi.
In particolare, deducono di non aver affermato in grado di appello che l’opzione floor rilevasse solo ai fini dell’usurarietà degli interessi moratori, essendo un costo che rileva agli effetti dell’art. 644 c.p., così come le polizze assicurative imposte dalla banca, le spese notarili ed il costo di estinzione anticipata del mutuo.
Il motivo è inammissibile, in quanto non si confronta nuovamente con la chiara affermazione del giudice d’appello, come detto, in alcun modo non censurata, secondo cui il contratto di mutuo non è mai andato a regime e gli interessi corrispettivi sono stati applicati, alle scadenze semestrali, sulle anticipazioni erogate in conto mutuo nel contratto di conto corrente bancario, secondo le previsioni, quindi, di tale contratto, e non del mutuo.
Con il sesto motivo è stato dedotto l’omesso esame di fatto storico decisivo ex art. 360, comma 1, n. 5 c.p.c., in relazione alla dedotta illegittima risoluzione del contratto da parte della Banca.
I ricorrenti rilevano che, a differenza di quanto affermato dal giudice d’appello, la banca non ha mai risolto il contratto di mutuo, ma soltanto i rapporti di conto corrente bancario, riportandosi, in ordine alla lamentate violazioni dell’art. 117 TUB e della normativa antiusura, ai precedenti motivi di gravame.
Il motivo è inammissibile, non avendo la circostanza dedotta dai ricorrenti, come sopra illustrata, alcuna rilevanza nei rapporti tra le parti, con conseguente difetto di interesse, ed essendo, comunque, il richiamo ai precedenti motivi di gravame assai generico.
Con il settimo motivo i ricorrenti hanno dedotto l’omesso esame, ex art. 360, comma 1, n. 5, c.p.c., della documentazione contabile e delle perizie contabili, tali da giustificare l’ammissione della richiesta CTU.
11. Il motivo è inammissibile.
In primo luogo, va osservato che è orientamento consolidato di questa Corte (vedi Cass. n. 326/2020) quello secondo cui la consulenza tecnica d’ufficio è mezzo istruttorio diverso dalla prova vera e propria, sottratto alla disponibilità delle parti e affidato al prudente apprezzamento del giudice di merito, rientrando nel suo potere discrezionale la valutazione di disporre la nomina dell’ausiliario e potendo la motivazione dell’eventuale diniego di ammissione del mezzo essere anche implicitamente desumibile dal contesto generale delle argomentazioni svolte e dalla valutazione del quadro probatorio unitariamente considerato.
Infine, errano i ricorrenti nell’affermare che la Corte d’Appello non abba esaminato le perizie allegate (la deduzione di omesso esame delle scritture contabili è invece assolutamente generica, non indicando neppure quali esse siano), emergendo dalla lettura della
sentenza impugnata che questa ha fatto più richiami alla perizia prodotta dalla parte appellante (vedi pagg. 13, punto 4.3.3., 17, punto 5, 18, punto 6) dimostrando così di averla esaminata. Le spese di lite seguono la soccombenza e si liquidano come in dispositivo.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso.
Condanna i ricorrenti al pagamento delle spese processuali che liquida in € 20.200,00, di cui € 200,00 per esborsi, oltre spese forfettarie nella misura del 15% ed accessori di legge.
Ai sensi dell’art. 13 comma 1 quater del DPR 115 del 2002, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento da parte dei ricorrenti dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso principale, a norma del comma 1° bis dello stesso articolo 13.
Così deciso in Roma nella camera di consiglio della I Sezione civile